BEN VENGANO I NOSTALGICI

Finiremo con dover riconoscere una certa gratitudine al presidente del Senato e ad alcuni dei suoi simili. Grazie a loro, ai loro interventi pubblici, alle loro prese di posizione e all’evidente e assolutamente consapevole assenza di qualsiasi forma di (auto)critica a proposito del loro pensiero politico e dal passato che l’ha generato, pare di poter dire che sia sotto gli occhi di tutti coloro che intendano vedere anche cose sgradite, come permanga piuttosto in buona salute una tara genetica che grava su tutti coloro che vivono all’interno di questo Paese, mal formato, male combinato e ancor peggio ristretto in confini alle volte di natura puramente geografica.
Considerazioni che trovavamo già svariati decenni fa negli scritti, fra gli altri, di Umberto Eco a proposito del perenne fascismo che vive attorno a noi, nelle nostre istituzioni, nelle persone che le guidano, nei comportamenti di tutti i giorni di coloro che hanno il nome sul campanello a fianco del nostro: predisposizione ad avere una guida unica, quello che una volta si chiamava ‘uomo forte’, pervicace tendenza all’individualismo corretto dal malanimo reciproco – che facilita due tratti fondamentali del fascista: conformismo e delazione – un baco intrinseco al nostro sistema immunitario sociale, che a buona ragione può essere definito razzismo (dovessimo ritenere razzisti solo coloro che ne fanno pacifica dichiarazione, restringeremmo il campo a Franco Freda e pochi altri seri cultori della supremazia bianca) e una tragica perdita di memoria, caratteristica negli ultimi quarant’anni fortemente incrementata dalla televisione e dalla pubblicità.
A coloro i quali, da oltreconfine, si preoccupano se per caso il fascismo non stia tornando oppure che rispetto a tale manifestazione non appaia opportuno dare un rilievo che in realtà non merita, va risposto come non sia possibile che qualcosa o qualcuno torni, non essendosene mai andato. Magistratura e apparato burocratico, corpi di polizia e militari, intere classi di docenti dalle scuole d’infanzia fino all’università, le classi agrarie e industriali; insomma le formazioni che innervano uno Stato furono appena leggermente sfiorate da quella catena di avvenimenti storici iniziata l’8 settembre del 1943, passata per la Resistenza, la fine della guerra, l’introduzione della Repubblica, per finire con la promulgazione di una nuova Carta Costituzionale, talmente antifascista nelle belle e un po’ compiaciute menti degli estensori da non portare a che l’aggettivo diventasse plastico sostantivo da racchiudere in un apposito articolo a fianco dei 139 presenti (errore di portata incalcolabile: ma i gentiluomini non sempre vedono lontano e la buona fede della più gran parte di quelle persone era fuori discussione); già negli anni ’50 un fenomeno storico e sociale frutto di un’elaborazione politica squisitamente italiana – più volte eminenti rappresentanti del III Reich ebbero a dichiarare il loro debito politico verso il Fascismo – veniva ridotto, ridimensionato, riscritto, rivisitato; il temuto revisionismo storico che viene paventato oggi aveva già mosso i propri, pesantissimi passi nemmeno trascorso un decennio dal 1945.
Non solo le atrocità del regime, le leggi razziali, il conflitto mondiale cui l’Italia prese parte, la fine delle libertà, i tribunale speciali, le condanne a morte, l’arretramento culturale e le conseguenti distruzioni sociali vennero sbrigativamente e a voce quasi unica trasferite e ascritte alle scelleratezze di un caporale semianalfabeta, dei suoi quattro scagnozzi con seri problemi di regressione anale e a un intero Paese che, da culla del pensiero riflesso pareva precipitato in un pozzo nero di disumanità; il Fascismo divenne poco più che una ragazzata, con qualche esagitato che c’era andato giù un po’ pesante, le simpatiche sfilata del sabato, tanta ginnastica, l’italianizzazione delle parole anglofile (e dire che, in qualche misura, servirebbe oggi), svariate tonnellate di figli in più che gonfiarono a dismisura la demografia di un Paese che a stento emergeva da una prima guerra costata vite e patrimoni e che provava a essere una entità industriale. La presenza, appena dietro l’angolo, del pericolo comunista faceva la propria parte nell’edificazione del dimenticatoio.
Nel frattempo, per larghissime zone della regione in cui è cresciuto chi scrive il 25 aprile era, rimase e tutt’ora è la celebrazione di San Marco e non qualcosa d’altro, i fascisti erano sostanzialmente dei fanfaroni – i tedeschi, invece, erano tutti nazisti e perciò stesso stupidi, vedi il normotipo dei film di guerra, tipica riduzione culturale americana – i treni si riteneva fossero stati fatti arrivare in orario ma la censura operante lascia dubbi in proposito, Mussolini fu uno statista ardito, forse un tantino eccessivo in determinate manifestazioni (avesse avuto tre canali televisivi, impallidirebbe il consenso di piazza Venezia) con qualche buona intenzione ma, ahilui, mal consigliato e che si affidò a cattive compagnie, il tutto senza tenere conto del fatto che l’amministratore delegato di una multinazionale qualsiasi sarebbe silurato all’istante e cadrebbe nell’oblìo manageriale se commettesse tali sesquipedali errori nella scelta di collaboratori e interlocutori: in definitiva, non lo lasciarono lavorare – l’abbiamo già sentita, questa. Avesse avuto l’arguzia di un Francisco Franco, che mantenne la Spagna cautamente e discretamente lontana dal nazismo e dalle sue peggiori esplicazioni, per poi lucrarne potere, consenso e durata nel tempo, oltre a evitare piccoli intoppi quali la partecipazione a un conflitto…
Alla banalizzazione del fascismo contribuì anche la Sinistra ufficiale: la sistematica e doverosa difesa dei principi della Resistenza, portò in primo luogo a negare l’evidenza e cioè che pur sempre di guerra civile si trattò, se le parole hanno un senso e se quel termine possa essere usato quando connazionali prendano le armi da due fazioni contrapposte e portatrici di ideali del tutto inconciliabili fra loro, con l’unica soluzione della vittoria di una delle due. Seguì poi il silenzio sulla tragedia umana delle foibe: contrasti mai chiariti, ferite rimaste aperte e/o, in ultima analisi, formidabili sensi di colpa, indussero a tacere su un fenomeno intorno al quale qualsiasi vecchio triestino non intossicato da preconcetti sa benissimo riferire (in quanto a sua volte tramandatogli dalla memoria degli anziani) come un costume esistente da secoli, che portava qualcuno a buttare qualcun altro in quegli orridi, anche per semplici dissapori familiari. Coloro che, in materia, sanno di cosa parlano, ipotizzano la presenza di migliaia e migliaia di scheletri, persone senza nome che non saranno mai recuperate e che, in gran parte stanno lì da sempre: ma la memoria alimentata solo dalla Destra, parla solo delle vittime dei soldati di Tito (non pochi comunisti, fra le prime).
Negare l’evidenza prima o poi fa in modo che la Storia presenti il conto, sotto forma di mancanza di credibilità; quanto al silenzio, nel caso delle foibe non solo coprì anche le malefatte dei fascisti italiani in Jugoslavia (non si può, logicamente, attribuire a qualcuno l’inizio di un fenomeno successivo, della cui esistenza però si tace), ma dette modo ad alcune canaglie della destra odierna di poter blaterare a campo aperto, praterie di fronte e microfoni a palla su cose in merito alle quali starebbero zitti se ne avessero la relativa dignità (la Risiera di San Sabba, a pochi chilometri di distanza, è stato l’unico campo di sterminio in Italia: qualche brava persona provi a chiedere in giro se qualcuno al di fuori della sempre amata città ne ha sentito parlare). Parlare delle foibe, mettere in rilievo i fatti storici è prima di tutto espressione di onestà intellettuale: in secondo luogo è anche buona politica che, una volta attuata con tanto di nomi, cognomi e responsabilità, cagionate delle malefatte di cui sopra, avrebbe messo le suddette canaglie nella condizione di trovarsi in mano un’arma scarica (o un pene in deiezione: nell’iconografia machista del Fascismo i due accidenti presentano notevoli analogie).
Così non è stato e, rimbalzando sulle acute osservazioni di Eco, siamo qui a dare atto che le intemerate uscite di gente più adatta al bar sport o al cazzeggio da aperitivo piuttosto che a governare un Paese (o anche solo una merceria), potrebbero essere in fin dei conti utili a capire qualcosa in più sulle persone che abitano questo Paese, su cosa pensano, come vivono, cosa, chi votano e per quali motivi. Esiste in ogni regione un detto, fra gli altri, declinato nel dialetto che si preferisce, a proposito del fatto che non esista un male che non porti in sé anche del bene. A questo è ridotto chi abbia a cuore l’Italia: affidarsi alla presunta saggezza dei popoli, più spesso ottenebrati dall’oppio religioso e da una endemica arretratezza culturale.

Cesare Stradaioli

L’UNIONE EUROPEA POST CARVERIANA

A Giorgia Meloni viene ascritta una certa distanza da non meglio identificate coordinate politiche assertivamente poste alla base dell’attuale Unione Europea. In modo particolare, viene evidenziata una sostanziale differenza fra alcune parole d’ordine e di chiamata alle urne espresse quando il suo partito politico militava all’opposizione dei diversi governi succedutisi negli ultimi anni e l’attuale linea politica perseguita da quando, prima donna nel nostro Paese, siede a Palazzo Chigi. Da questo punto di vista le critiche lasciano il tempo che trovano, essendo piuttosto comune e normale che, una volta presa la guida di un esecutivo, chi contrastava i precedenti debba fare i conti non solo con la quotidianità della guida di un Paese ma anche (e per certi versi, soprattutto) ma anche con progetti, azioni e accordi iniziati e presi da coloro dei quali si è preso il posto.
Di gran lunga più interessante è esaminare cosa si intenda, a seconda dei punti di vista, quando si dice – e molti, presi da una insolita foga liberatoria, lo scrivono – che Meloni ignori i principi basilare dell’economia e quelli che sarebbero i valori della civiltà europea (senza mandarle a dire, Stefano Feltri, da direttore di Domani, scrive che il Presidente del Consiglio non sa di cosa parla). I quali appaiono non sempre – anzi, quasi mai – ispirare chi ne faccia sistematico richiamo. Oh bella e ve ne accorgete adesso?
Rimangono sempre da chiarire quali siano di preciso i fondamenti dell’Unione Europea. A stento e con poche idee ma confuse concretati finora con una moneta unica (il tetto prima dei muri portanti e si vede da tempo) e una politica monetaria che pare coordinata da persone che non sembrano avere imparato alcunché dal passato neppure recentissimo, fatto di guerre economiche e militari nel senso più vero e primo del termine. Qualcuno potrebbe avanzare l’ipotesi che in vari consessi di ciechi, sordi e smemorati, qualcuno ci veda, ci senta e ricordi benissimo tutto e stia facendo esattamente quanto di più lontano dall’interesse dei cittadini ed estremamente vicino a quello di determinati circoli di potere. Il procedere in ordine sparso rispetto all’attuale conflitto russo-ucraino non ne è che l’ennesima dimostrazione.
Detto tutto ciò, il ceto politico – ampia licenza autoconcessa di usare sostantivo e aggettivo con ecumenica larghezza di vedute – attualmente al governo, sia a Roma sia in svariate amministrazioni locali può a buon diritto vantare una certa maggioranza (sempre della maggioranza di una minoranza si tratta, ma tant’è) e un discreto consenso popolare. Punto e finita lì. Per il resto, pressoché tutti i componenti del suddetto ceto, tranne qualche rarissima eccezione, sono sostanzialmente impastati di insofferenza per le regole, tratto che ne caratterizza nucleo e azione. Attitudine non esattamente positiva per chi entri in politica. E’ perfino troppo facile osservare come, essendo così ostico rispettare la legge a casa propria (i deliri antistatalisti successivi alla pandemia parlano da loro stessi), ci si può solo lontanamente immaginare come ci si possa accostare a leggi, trattati e regolamenti emessi dall’Europa, genericamente malvista a destra e alquanto poco vista bene a sinistra. Non che l’Europa faccia poi gran ché per farsi amare.
Il centrodestra al governo soffre di una gravissima contraddizione interna, direttamente ereditata da decenni di propaganda facente capo al magnate pregiudicato e pluriprescritto (con leggi ad personam): liberista a parole e, dunque, teoricamente schierato con i falchi delle banche centrali e di quella europea, oltre che con cugini volatili predatori di alcuni esecutivi che ben conosciamo, ma ferocemente statalista nella pratica. Occorre ricompensare buona parte dell’elettorato che di assistenza campa da sempre, a prescindere dalle opinioni politiche (e anche qui il sostantivo è una parola grossa). Il che li porta a tendere verso i governi autoritari decisamente più destra e meno sociale del oartito di maggioranza relativa. Come direbbe James Ellroy: pessimi, i primi compagni di letto, appena un po’ più pessimi i secondi – ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: la maleducazione dei secondi è più apparenza che sostanza.
Ora, tenere il piede in due scarpe è solo un’immagine figurata: fisicamente impossibile da farsi, ma c’è da dire e constatare che media vergognosi e svergognati riescono a farlo sembrare tale. Gli stessi media, le stesse firme che cadono dal pero e quando si alzano discettano, indignati perfino, a proposito del fatto  che Meloni e il suo esecutivo siano, a seconda dell’ubbia del momento a) antieuropei, b) poco liberisti (gira e rigira si torna sempre alla concorrenza e al mercato, spacciati per valori universali e dai quali non sta bene prescindere), c) populisti, qualsiasi cosa voglia dire, d) sovranisti (dobbiamo ancora vedere un capo di stato o di governo che ripudi un minimo di sovranità). Risulta peraltro arduo capire se costoro, che criticano gli altri, carverianamente sappiano di cosa parlano quando parlano di Europa, di politica, di solidarietà, di comune sentire – tutte cose che dovrebbero caratterizzare una vera Unione e non la pagliacciata che ci troviamo ad avere – dal momento che difendono QUESTO modo di essere Europa. L’impressione è che né le firme di cui sopra, né i destinatari delle loro dotte osservazioni, lo sappiano.
Alla lunga – e forse neanche tanto lunga – si paga dazio. Teste fredde quali Filippo Ottone solevano ripetere di non potersi augurare che Berlusconi governasse male; una volta terminato il mandato, lui sarebbe rimasto ricco e potente come prima, mentre il Paese sarebbe andato – dove si trova da tempo – a remengo, per usare un francesismo. A pagare lui – noi, il Paese – quel dazio.

Cesare Stradaioli

SPIAZZAMENTI STRATEGICI

L’isterico comportamento tenuto in questi giorni da parte dell’establishment francese  e dai suoi gendarmi – i quali, comunque, eseguono ordini – a fronte delle legittime proteste di piazza, ha molto in comune con l’altrettanto incontrollata reazione di stampa e cancellerie europee all’indomani dell’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina, rispetto a coloro che non ritenevano e tutt’ora non ritengono opportuno adeguarsi a quello che, un po’ abusatamente ma efficacemente, viene chiamato ‘pensiero unico'; che – come la parola d’onore prestata da Groucho Marx; il quale, d’altra parte, ove la stessa non fosse stata gradita, affermava di averne tante altre – tanto unico non è, essendo declinabile in varie diverse forme e sostanze.
Isterico e incontrollata hanno come comune denominatore la sorpresa: che appare evidente nelle nelle dichiarazioni, nelle forme e infine nei comportamenti che traspaiono perfino nella fisiognomica di una classe dirigente del tutto impreparata a sentire contestata oppure (o anche) svillaneggiata e destituita di autorità quella parvenza di vita economica, politica e sociale che si pretendeva accettata e dunque effettiva e che, per contro, presenta la stessa consistenza dei fondali scenici dei film western. Serve lo sceriffo armato, per tacitare chi sostenga come dietro la forma di cartapesta o di legno, il saloon non esista. Capi di stato e di governo, firme prestigiose della politica, del giornalismo scritto e in genere di quello direttamente comunicativo, il 24 febbraio dello scorso anno dettero l’idea di essere stati colti del tutto impreparati dall’iniziativa russa contro l’Ucraina (tutto, tranne che inaspettata, considerate le manovre militari e gli annunci delle settimane e mesi precedenti). Tant’è: l’abbiamo già detto e scritto; è bastato che un ex colonnello di un servizio segreto che non c’è più, di uno Stato che non c’è più – quanto meno nella struttura dell’epoca – ordinasse delle operazioni militari che, almeno all’inizio, erano piuttosto limitate, per mostrare a tutto il mondo, segnatamente agli europei, qualcosa che non era difficile né particolarmente acuto sapere già da prima e cioè che l’Unione Europea non esiste. O, meglio, vive drammaticamente in essa una delle più famose massime di Margaret Thatcher quando, a proposito della società, sosteneva che non esistesse, trattandosi tutt’al più di una sommatoria di individui; allo stesso modo, appariva palese (e le scelte politiche che hanno fatto seguito alla guerra in Ucraina ne sono stata l’ennesima dimostrazione) come l’UE non abbia nulla della società, intesa come comunanza di interessi, sforzi, intenti, progetti, quanto piuttosto un insieme di entità statali ognuna procedente per conto e interesse proprio, che si guardano in cagnersco, non di rado in aperto conflitto reciproco, tanto da essere in grado di cambiare alleanze con la stessa dovuta frequenza con cui ci si cambia la biancheria intima.
Non sapendo cosa dire e cosa fare, non hanno trovato di meglio che controattaccare, appiccicando l’etichetta di putiniano a chiunque – perfino, a titolo di esempio, al direttore del quotidiano dei vescovi italiani, persona mite e pacata – reagire con rabbia tanto bavosa, verbosa e arrogante quanto intrinsecamente priva di argomenti (è un dato di fatto: il saloon non esiste e neppure l’ufficio dello sceriffo, se è per questo).
La risposta di Macron e del suo governo, esplicitata a fasi alterne con superiore indifferenza – tipica, peraltro, di certi regnanti, per quanto quello francese sia a tempo e non ereditario – e con la brutalità della polizia.
Potevano dirsi sorprese le cancellerie europee lo scorso anno? Potevano, Emmanuel Macron e il suo staff di collaboratori e consiglieri, davvero dirsi sorpresi dalla furibonda reazione popolare e interclassista, non solo alla riforma delle pensioni, ma anche all’ancor più grave mezzo colpo di Stato (chiunque ritenga eccessivo il termine, vorrà avere la compiacenza di trovarne uno adeguato nel caso in cui il potere esecutivo aggiri quello legislativo nel totale silenzio dell’Europa, così attenta ad altre faccende evidentemente più importanti come la pezzatura delle mozzarelle o delle baguettes) sostanziatosi in un atto di puro esautoramento dell’Assemblea Nazionale? La risposta non può che essere, in entrambi i casi: no.
E la cosa, a sua volta, non può e non deve cogliere di sorpresa. A ben guardare, infatti, tanto i primi quanto i secondi avevano e hanno qualche motivo per cadere dalle nuvole, dopo che per decenni – complice una certa malefica Sinistra che ha abbracciato entusiasta la pratica del neoliberismo – la politica ha emarginato qualsiasi forma di contestazione, in nome dell’imperativo di non disturbare i guidatori pro tempore, capi di stato e di governo, autorità monetarie e bancarie internazionali. Pare di sentirli – e forse in privato e nei loro circoli ristretti l’avranno anche detto: come osano costoro non allinearsi nell’eterna lotta del Bene (l’Ucraina, leggi Europa, leggi Nato, leggi Usa) contro il Male (ieri l’Urss, oggi Putin: pure se Vladimir Vladimirovic ha ben poco del sovietico e del comunista)? Come osano questi altri mettersi di traverso all’ennesima legge che, invece di combattere la disuguaglianza andando a prendere i soldi dove tutti sanno bene essere, incide sulle pensioni e, in definitiva, sulla vita vera delle persone, di quelli che lavorano e non percepiscono rendite o bonus come tante altre famose facce che di frequente non debbono neppure preoccuparsi del consenso popolare, non essendo eletti bensì nominati da questo o quel circolo?
Non che sia un bene: non per la Francia e neppure per l’Europa, ma l’impressione è che Macron abbia, in termine poco tecnico, ‘sbroccato’. Pessima cosa, per un politico. Oltre ad avere dato corda a un detto anche un po’ vintage – orientamento molto di moda, ultimamente – secondo il quale gratta il liberale e trovi l’autoritario. E dire che, a proposito di sorprese, uno non esattamente prodigo di empatia verso l’élite finanziaria continentale come Yanis Varoufakis, soleva ripetere come durante le estenuanti riunioni del cosiddetto ‘Eurogruppo’ – entità tecnicamente inesistente se non per i media e relative truppe cammellate in servizio permanente effettivo, non avendo alcun potere in quanto semplicemente non prevista dall’atto costitutivo dell’UE – l’unico con il quale riuscisse a instaurare un dialogo fosse proprio l’attuale inquilino dell’Eliseo.
Cosa succede, nevvero – per citare un vezzoso intercalare di Sandro Pertini – a essere tanto bene abiutati ad avere come controparti, asserite opposizioni rumorose quanto un fragore di piume che si scontrano nell’aria, più occupate a tacitare il dissenso che a costruire un vero e concreto e costruttivo progetto politico alternativo…

Cesare Stradaioli

 

LEI NON SA CHI SIAMO NOI

Non posso essere d’accordo con Alessandro Sallusti, quando con aria perfino compassionevole invita a prendere atto del fatto che l’Italia “è un Paese di destra”.
L’uomo ha grandi capacità giornalistiche e un notevole talento di analisi dei fatti, quando non viene colto da improvvisi raptus – comuni a molti della sua area politica – che darebbero l’idea di cicatrici incistate nell’anima di chi abbia, più o meno fino al 1994, vissuto gran parte della propria vita sotto il tallone di una non meglio precisata Repubblica Socialista Sovietica Italiana e, in effetti, ha ben donde a compiacersi del ripetuto successo elettorale riportato dal partito guidato da Giorgia Meloni e, più in generale dalla coalizione di centro-destra.
Nella sua analisi, Sallusti trascura un dato di fatto difficilmente contestabile: l’altissima, inaccettabile in un Paese impostato sulla democrazia rappresentativa, percentuale di cittadini che non sono andati a votare. Fenomeno non nuovo in Italia e tuttavia soggetto a fondamentali cambi di caratterizzazione nel corso degli ultimi decenni; a fronte di una grande partecipazione al voto, rimaneva una componente precisamente identificabile in quella che veniva chiamata  maggioranza silenziosa. Non dava voce al proprio malcontento sia limitandosi a votare senza praticare alcuna partecipazione diretta alla vita sociale, sia boicottando le urne. In quel senso, i migliori studi sociopolitici sostenevano come quasi tutti gli elettori potenzialmente orientati a sinistra effettivamente votassero, mentre l’astensione era per l’appunto attribuibile a un elettorato moderato.
Da ormai numerose tornate elettorali si pone in rilievo un dato del tutto opposto: parrebbe che, a parte un possibile incremento di un paio di punti percentuali, di fatto la destra abbia, per così dire, fatto il pieno di voti; in altre e più sbrigative parole, oggi in Italia chi pensa a destra va a formalizzare col voto il proprio pensiero, mentre l’astensione, parrebbe essere appannaggio di chi per protesta, per delusione, per disillusione voterebbe a sinistra se solo si sentisse rappresentato in maniera appena significativa. Col che si dovrebbe pensare che, una volta (ri)costruita una formazione politica di chiara impronta progressista, ecco che il premio elettorale arriverebbe e sposterebbe in maniera significativa gli equilibri di potere. “Catastrofe? Non sono così ottimista”, disse Roberto Vacca nel corso di un’intervista rilasciata dopo l’uscita del suo testo più importante e noto “Il Medioevo prossimo venturo”: possiamo sostituire il sostantivo con la valutazione di cui un paio di righe sopra.
L’Italia verosimilmente non è di destra, così come non è fascista; non è antifascista e nel suo non essere di destra, però non è neppure progressista. In Sicilia si usa il termine terzo, a indicare chi non sia né mafioso né minimamente offeso dalla presenza della mafia: il cittadino medio italiano è, per l’appunto, terzo; non ha il coraggio di essere fascista (e ormai il tempo sta terminando il proprio lavoro teso all’estinzione di chi visse il Fascismo, la guerra e la Resistenza, sicché neppure di nostalgie si può parlare, non potendo provare la mancanza di qualcosa che non si è vissuto in prima persona), né ha l’afflato umano e culturale per essere genuinamente progressista, nel significato più pieno e proprio del termine, cioè chiunque pensi costantemente al cambiamento in luogo di conservare ostinatamente uno status quo, più spesso iniquo, divisivo e antiegualitario. Non ama il cambiamento ma è profondamente infastidito quando gli si proibisce qualcosa in nome di una tal tradizione; tutt’altro che stupido (quanto sbagliano le loro valutazioni in proposito, molti commentatori esteri), sa benissimo che Berlusconi era quello che era e che il messaggio – chiarissimo, in chi voleva vederlo – era; fno a quando ci sono io, voi siete al sicuro e pertanto ho bisogno del vostro voto. Con me sarà possibile gettare le cartacce per terra, saltare la fila, perfino sarà consentito prendersela con la belva da affamare, quale era lo Stato secondo Ronald Reagan e i Chicago Boys, con la stessa faccia di merda con la quale si pretende la scuola dell’obbligo (così c’è qualcuno che si occupa di mio figlio), la cassa integrazione, i ricoveri senza che nessuno chieda prima la capienza della carta di credito e che l’immondizia venga regolarmente portata via.
Magra consolazione, a ben vedere, quella di contraddire un personaggio come Sallusti che, ben più importante di un giornalista qualsiasi, come molti italiani che votano a destra si guardano bene dal rinunciare all’assistenzialismo statale e a quel minimo di welfare del quale anche il presidente di regione più liberista non può fare a meno se tiene alla percentuale di votanti (attenzione: non di voti, che è cosa tutt’affatto diversa) che gli consente di mantenere il titolo che riveste. Essere ottimisti è materia molto amara.

Cesare Stradaioli

COSA PENSARE

Scrivo un po’ in giro a proposito dell’esito favorevole a Elly Schlein delle cosiddette ‘primarie’ interne al Partito Democratico.
Cosa ne dobbiamo pensare? è il testo di una risposta. A mia volta osservo: che il Presidente del Consiglio e il capo dell’opposizione all’attuale governo di destra sono donne, entrambe al di sotto dei 50 anni e una infraquarantenne.
A prescindere dal giudizio di valore sulle persone, il sesso e l’età – fattore, quest’ultimo, nel nostro Paese perfino più importante del primo – sono già una buona base di partenza, è la mia opinione.

Cesare Stradaioli

IL VENTO E LA TEMPESTA

E si stupiscono, pure.
Sono per lo meno quarant’anni che l’educazione civica non viene insegnata nelle scuole se non a pezzi e bocconi e talvolta per la buona volontà di qualche insegnante; si può con ragionevole approssimazione affermare che quasi mai negli anni più importanti per la formazione di una persona e, dunque, di un cittadino mediamente consapevole venga letta, commentata e capita la nostra Costituzione; appare, infine, tristemente ragionevole ritenere – ma gli archivi degli studiosi di statistica traboccano di analisi in proposito, raramente lette e portate alla debita attenzione – come la quasi totalità dei nostri connazionali non conosca i principi fondamentali della Carta che portò l’Italia fuori del buio del fascismo, dell’alleanza con i nazisti, del tradimento di un re indegno, tanto quanto la vergognosa casata reale cui apparteneva e, infine, dalla guerra.
Sempre nel solito ‘Paese normale’, definizione che ormai è pronta per essere consegnata ai sotterranei delle biblioteche, sarebbe materia di esame da primo anno delle scuole elementari, perché è da lì che un bambino deve cominciare a capire che non ci si possa fare giustizia da sé, che l’autorità ha un suo significato, che le regole di convivenza sono a carico di tutti e a tutti è fatto carico rispettarle: crescendo, avranno tempo, quel bambino e quella bambina di comprendere che le leggi, a maggior titolo la Costituzione, sono insiemi di norme scritte da sobri nel caso che ci si ubriacasse e si perdesse il lume della ragione. Nel frattempo, sono necessari i mattoni sui cui si baserà quel processo cognitivo e di volontà.
Nel nostro Paese la Costituzione della Repubblica Italiana è uno degli scritti più nominati e meno letti e questo spiega una grandissima parte dei mali che lo affliggono: niente e nessuno esclusi. Soprattutto dalla responsabilità che ciò stia avvenendo.
Perché se un cittadino non sa che la scuola privata è finanziata senza oneri per lo Stato; che la Repubblica promuove la rimozione delle diseguaglianze sociali; che le forze armate fanno capo a un ministero chiamato non per caso ma per specifica volontà “Della Difesa” (e non, che so, della Guerra che, infatti, viene esplicitamente ripudiata); che l’attività imprenditoriale privata è bene accolta e incoraggiata purché non confligga nel suo operare con gli interessi pubblici; che i decreti emessi dal governo devono avere carattere di necessità e urgenza, onde evitare che prendano il posto del Parlamento; che quello che agli ignoranti, agli eversori, a quelle truppe cammellate della politica e del giornalismo sembra essere (e così intendono che sia percepito) un farraginoso metodo di formare le leggi in realtà fu scientificamente pensato proprio per evitare che qualcuno di quegli imbecilli foraggiati dagli agrari emiliani di turno prendesse il potere con un colpo di mano o che si realizzasse la cosiddetta ‘dittatura della maggioranza’ – circostanza che indusse Jean-Jacques Rousseau a dire che gli inglesi sono liberi una volta ogni quattro anni, quando vanno a votare; che la permanenza della parola ‘razza’ nel passo in cui viene stabilitò che tutti i cittadini hanno pari diritti, dignità e prerogative, lungi dall’essere una clamorosa gaffe da parte dei compilatori, è stata posta in rilievo proprio che rimarcare quello che avrebbe dovuto essere un passaggio concretamente ed effettivemente epocale dal 27 dicembre 1947 in avanti, vale a dire fra l’altro la presa di distanza da un certo linguaggio; che ci vollero dieci anni affinché fosse istituita la Corte Costituzionale, con il tremendo fuoco di sbarramento di una Magistratura, soprattutto quella superiore, formatasi durante il fascismo e ancora saldamente seduta a emettere sentenze in nome di un popolo italiano che avrebbe dovuto essere del tutto diverso. Se una percentuale accettabile di cittadini non sono a conoscenza per lo meno delle quattro acche appena elencate, allora costoro non possono essere definiti tali, bensì semplicemente gente di passaggio, pronta per essere usata come carne elettorale o – si può anche fare a meno di votare – transito di cibo per i detentori dei mezzi di produzione.
Questo è, allo stato attuale delle cose, quanto: e considerato il vento seminato, che qualcuno, vergognosamente anche a Sinistra (o sedicente tale) si stupisca dei disastri provocati dalla conseguente e inevitabile tempesta, ebbene ciò rende la misura della povertà morale e politica del tempo che ci tocca vivere.

Cesare Stradaioli

LE PAROLE DA USARE

Le parole ci sono e vanno usate.
Dopo che per oltre un secolo gli Stati Uniti – e con loro altre potenze occidentali quali Francia e Gran Bretagna – hanno sistematicamente condotto azioni sporche con mezzi militari e spionistici per sabotare e rovesciare governi e uomini politici di sinistra in tutto il mondo, appoggiando allo stesso tempo regimi oppressori e fascisti e con questo rendendosi responsabili e complici di decine e decine di anni di dittature, dell’uso dell’assassinio e della tortura contro gli oppositori e del peggioramento della vita di centinaia di milioni di persone, il tutto utilizzando a piene mani mercenari, gruppi paramilitari e squadroni della morte assortiti, sentire Washington e il codazzo di truppe stampa cammellate indignarsi e stracciarsi le luride vesti di finti libertari per il fatto che la Russia di Putin utilizza gruppi quali Wagner durante la guerra con l’Ucraina, induce a pensare che in certe occasioni ci vuole davvero una gran bella faccia di merda.

Cesare Stradaioli

IL PARADOSSO DI BERTOLT BRECHT

Questione lungamente dibattuta e alla fine risolta: è più facile votare a destra piuttosto che a sinistra. Il voto è attività squisitamente strumentale, non di rado diversa e distante dalla convinzione politica di chi entra nella cabina elettorale e poiché l’innovazione è, per sua stessa natura, più impegnativa e problematica di un piatto allineamento allo status quo (quale che sia la sua cifra politica: l’Emilia Romagna, tanto per fare un esempio), nel nostro Paese prevale storicamente un orientamento politico che per comodità si può definire di centro-destra. Possono non piacere le radici rurali e clericali ancora ben salde in Italia, ma quelle sono e con quelle è necessario fare i conti, anche considerando il fatto che i due caratteri erano fortemente prevalenti fino a non più di qualche decennio or sono.
In un rapporto sul nostro Paese indirizzato al Presidente Truman verso gli inizi degli anni ’50, l’addetto culturale dell’epoca presso l’ambasciata statunitense a Roma osservava, fra le altre cose, la forte presenza di un partito comunista, notevolmente organizzato e, tuttavia, limitato a una cerchia non proprio ampia di cittadini, per la maggior parte di livello culturale e titoli di studio di rilievo; il che, già all’epoca descriveva un certo elitismo politico della sinistra. Vedi le radici di cui sopra.
Peraltro, che il proselitismo, l’associazione, l’iscrizione, la partecipazione e, infine, il voto, avessero per i partiti di sinistra come obbiettivo le classi subalterne, di massa per quanto politicamente ed economicamente emarginate, è cosa perfino ovvia: solo chi desiderava o necessitava di un radicale cambiamento della propria e altrui vita poteva essere interessato a orientarsi in quella specifica direzione. Pare che sia giunto il momento di farsi qualche domanda – debitamente aggiornata – su chi siano o possano essere, oggi e per il prossimo futuro, i destinatari di un appello da sinistra. Che fare? è e rimane sempre una domanda doverosa che, però, andrebbe prima o dopo seguita dal sostituire il punto di domanda con qualcosa se non di esclamativo, quanto meno di affermativo. Un po’ come quando Filippo Ottone esortava Fabrizio Barca a uscire dalla palestra: in pista, prima o poi, bisogna pur scendere.
Che prospettive elettorali può avere una formazione di Sinistra, progressista, solidale, portatrice di un progetto politico che prenda le distanze dal finanzcapitalismo, brillante definizione che dobbiamo a Luciano Gallino, da un modello socio-economico che ha nella disuguaglianza la manifestazione non già di una patologia, bensì la sua essenza stessa, ragione del suo esistere? In un momento storico in cui amplissimi settori delle fasce sociali che dovrebbero essere il suo riferimento – essendone essa stessa a propria volta punto di coesione – considerano con aperta ostilità e disvalore concetti quali legalità, solidarietà, uguaglianza, sostenibilità, internazionalismo, antifascismo? Con quali argomenti si può presentare, in vista di un ritorno elettorale (dato che in fin dei conti, in un sistema di democrazia rappresentativa, quello è un punto centrale) un serio e inequivoco progetto politico, quando gli stessi nostri concittadini rivendicano un non meglio specificato né specificabile diritto a riavere un modo di vivere del tutto a discapito dei più deboli, dei più fragili, degli ultimi e senza finalmente manifestare alcuna remora nel dirlo apertamente?
Riguardo alla Sinistra, non si tratta solo di personale politico da rinnovare – il ritiro a vita privata, accompagnato da irrevocabile esclusione da qualsiasi ambiente politico, appare essere unico, primo rimedio alla povertà morale e culturale emersa negli ultimi trent’anni – quanto piuttosto di rendersi conto chi sia l’interlocutore; non se il messaggio arrivi comprensibile ma che sia condivisibile. Se il ceto medio, il pubblico impiego, il lavoro dipendente, le fasce emarginate anche quando dotate di un’occupazione, condividono in grandissima misura i messaggi della destra e della classe che controlla e dirige la produzione, quali odio verso i migranti, mortificazione del diritto al lavoro e della dignità che non può esserne disgiunta, disprezzo della solidarietà sociale, sistematica disapplicazione della Costituzione in punto di redistribuzione della ricchezza e della rimozione degli ostacoli alle pari opportunità, crescente metastasi dello strapotere privato di insegnamento, sanità, energia, trasporti, gestione della rete; se un numero sempre crescente di individui vuole un cambiamento ma solo nel proprio ambito personale o familistico ovvero – è la stessa cosa – se ne disinteressa disertando le urne; se la disillusione genera solo stanchezza, cinismo e messa in vendita al migliore acquirente della propria dignità e libertà purché sia appagato il desiderio di essere lasciati in pace nel proprio orticello e al diavolo tutti quanti, allora il problema non è di far capire cosa si vuole, ma intraprendere un cammino tanto lungo e faticoso quanto inevitabile (e per certi versi, salvifico) che abbia come obbiettivo fermare questa oscena corsa all’indietro in ambito culturale, economico e umano che sta vivendo il nostro Paese, al fine di riportare al centro dell’esistenza di ciascuno l’idea che le vite delle persone non siano dedite e finalizzate agli altrui profitto, rendita e accumulo, passando per l’emarginazione, la discriminazione e il disfacimento del consorzio civile, bensì al cambiamento, o almeno al fatto di desiderarlo, cosa che dobbiamo a noi stessi e anche a coloro che non possono neppure immaginarselo.
Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito al concretarsi di paradossi al limite del grottesco; quello che si prospetta oggi alla Sinistra è quello brechtiano.
Non il sistema elettorale, non i messaggi politici e neanche i partiti: bisogna davvero cambiare gli elettori.

Cesare Stradaioli

DEMOCRAZIA COME GIUBBOTTO ANTIPROIETTILE

Ci sono frasi, affermazioni, prese di posizione alle quali, dopo un certo tempo e un considerevole numero di ripetizioni, quasi ci si affeziona, al punto da quasi scoraggiare ogni possibile replica. La più recente – è un po’, per il vero, che non se ne sentiva accennare – è di poche ore fa, l’uscita del Corriere della Sera odierno, l’affermazione di Aldo Cazzullo, una delle sue firme più prestigiose: nel compiacersi per la qualificazione della nazionale del Marocco alle semifinali del mondiale di calcio in Qatar, mette in guardia sulle bandiere palestinesi che occhieggiano fra quelle marocchine allo stadio; non si contesti Israele che, in quella disgraziata zona del mondo nota come Medio Oriente, è l’unica democrazia.
A memoria personale, furono i giovani (altro termine che, alla pari di democrazia, avrebbe bisogno di una seria rivisitazione: urge togliere orpelli e ragnatele) della FGCI i quali, più o meno all’alba degli anni ’80, a esprimere un concetto analogo, che a lungo fu poco condiviso da altri – il che vorrà pur dire qualcosa, visto il successo riscosso – secondo il quale nel giudicare Israele bisognava pur sempre tenere conto del fatto che fosse, per l’appunto e già allora, uno Stato democratico. In altre parole: piano con le critiche e guardate gli altri, che sono tutti sultanati, regimi autoritari e masnade tribali. A ricordarla tutta, va detto che per un certo tempo questa affermazione li lasciò un po’ al margine della vita politica italiana, condizione alla quale, a quanto pare, si sottoponevano di buon grado, forse come preparazione al radioso futuro di dissoluzione. Israele veniva difesa da una parte non proprio maggioritaria della Sinistra, mentre la destra ruspante ovviamente non poteva avere buone vibrazioni con quelli che qualche gagliardo nostalgico ancora definiva ‘giudei’gli ebrei: il sommo opportunismo di Gianfranco Fini era ancora di là da venire, considerato quello che diceva all’epoca a proposito del fascismo e di Mussolini. Grandi atleti, i politici italiani, capaci di piroette degne di una medaglia olimpica nel pattinaggio artistico.
La Sinistra più, per così dire, politicamente corretta, neanche volendo poteva rimanere cieca e sorda ai massacri cui erano sottoposti i palestinesi e alle palesi violazioni dei diritti umani messe in atto da Israele; erano anni duri: assassinii, attentati, bombe, deportazioni. Qualcuno di una certa età ricorderà nel 1976, all’indomani della strage di donne, bambini e anziani compiuta nel campo profughi libanese di Tal al Za’tar a opera degli squadroni cristiano-maroniti, vero e proprio braccio armato in zona di Tel Aviv (dietro le quinte: non sta bene essere notati a cena con quelli che fanno i lavori sporchi) un articolo comparso su la Repubblica. In quanto editoriale, promanante da Eugenio Scalfari in persona personalmente, come direbbe un personaggio minore di Camilleri, recava il formidabile titolo: Se poi dirottano un aereo – inevitabile corollario: dopo non lamentatevi, visto quello che è successo.
Malgrado tutto, che Israele fosse una democrazia divenne sempre più una specie di schermo solare, quasi il riflesso pavloviano che era dentro ognuno di coloro che, non appena si vedeva o si sentiva qualcuno (magari Amnesty International e qualche free-lance statunitense) mettere in dubbio certi metodi applicati dall’esercito e dai coloni integralisti contro i civili palestinesi, al pari del cane che sentiva la campanella per il cibo, scattava sulle quattro zampe. In una parola, per sintesi: un salvacondotto. Proviamo l’ennesima replica.
C’è uno Stato autoritario, guidato da una giunta militare di quelle solite, che rinchiude in campi profughi un’intera popolazione, a centinaia di migliaia. Altri appartenenti a questa popolazione, ristretti in altre regioni più povere e prive di risorse, per lavorare in città devono quotidianamente passare sotto le forche caudine di posti di blocco dell’esercito. In genere si tratta di assegnazioni punitive e anche per questo quelli in divisa tendono a essere nervosi. E quando succede che alcuni gruppi paramilitari lancino razzi (per solito quasi inoffensivi), subito dopo l’esercito scatena una rappresaglia che, in termini di morti e feriti e poi case, scuole e attività lavorative distrutte, è invariabilmente cento volte maggiore dell’offesa recata. In aggiunta, civili pesantemente armati di testi (a loro) sacri e di armi automatiche, progressivamente e con il beneplacito del governo, si insediano in ulteriori zone sottraendole alla popolazione che le abitava da generazioni. Infine, quello Stato possiede l’arma nucleare e sistematicamente delle raccomandazioni e delle condanne dell’Onu (di cui fa parte) fa l’uso comune che ha a che vedere con mattutine pratiche igieniche. Della Corte Internazionale di Giustizia non fa parte né la riconosce e quindi gli eventuali scrupoli neanche si pongono.
Ne abbiamo un altro, con un presidente e un parlamento eletto con libere consultazioni, che è dotato di un sistema politico con i debiti contrappesi, codici civili e penali, magistratura e stampa ragionevolmente libere entrambe, una Corte Costituzionale e tutto quello che serve affinché uno Stato possa fregiarsi della qualifica di democratico. Se non che, questa nazione, accreditata diplomaticamente pressoché da quasi tutte le nazioni del mondo, fa le stesse cose che fa l’omologa di cui sopra.
All’atto pratico – è questa la domanda che andrebbe fatta a tutti coloro i quali, se non come l’amico dell’uomo di Pavlov, allo stesso modo di un pugile suonato balzano all’inpiedi non appena qualcuno suona il gong di critica a Israele – è da chiedersi e chiedere: a parità di comportamento, non è peggio che certe porcherie le faccia una democrazia?

Cesare Stradaioli

VITE SVENDUTE

La storia, nomi e luoghi a parte, non è neppure nuova: due giovani sono all’ergastolo. La conoscenza degli atti giudiziari, per certi versi è superflua e lo sarà ancora di più se e quando la Cassazione dovesse sancire l’irrevocabilità della sentenza: se possibile, il fatto che i due siano fratelli, in qualche modo rende la vicenda ancora più triste e amara.
Ora, la cosiddetta devianza sociale per ovvi motivi si declina in un numero pressoché indeterminato di ragioni e comportamenti, se con il termine racchiudiamo – omettendo per un momento qualsiasi motivazione personale – qualsiasi comportamento che violi le norme penali. Togliere una vita è un gesto che può avere svariati presupposti e, a prescindere dalla sua gravità oggettiva, va analizzata e, se del caso, catalogata con attenzione, poiché ci può essere un qualcosa, una spinta razionale o irrazionale che, in un comportamento non necessariamente portato a quel gesto, in sé può essere perfino più disprezzabile e angosciosa.
I due fratelli sono stati riconosciuti colpevoli in grado di appello per avere cagionato la morte di un ragazzo: sembra che, al culmine di una sequela di percosse, l’uccisione sia stata conseguenza di un singolo calcio; che, evidentemente, ha convinto i giudici a ritenerne responsabile a livello di concorso anche quello dei due che quel calcio materialmente non ha dato. E’ verosimile che, nel momento in cui hanno deciso di aggredire la vittima, non avessero il proposito di giungere all’omicidio ed è questo che – per paradossale che possa sembrare e in parte lo è – rende il loro comportamento iniziale ancora più infame: il semplice fatto (l’aggettivo va sottolineato per evidenziarne il lato grottescamente disumano) di mettersi in due, superpalestrati, come si suol dire ‘carichi’, a esercitare prepotenza fisica nei confronti di un ragazzino che pesava la metà di ciascuno di loro, del tutto inoffensivo e SOLO, rappresenta l’ennesimo esempio di quanto dovremmo tutti preoccuparci a proposito del degrado umano, prima che economico, che sta vivendo la società in cui troviamo.
Che il povero ragazzo sia morto è un qualcosa di ulteriore: fosse anche sopravvissuto, la cronaca avrebbe comunque registrato uno dei tanti episodi, non molto meno gravi di un assassinio, che rendono manifesta l’oscenità e la bruttura verso cui sta precipitando il nostro Paese. Logiche e inevitabili conseguenze – guai a chi se ne stupisca: sarebbe una palese ammissione di complicità, anche solo idiota – di decenni da un lato all’insegna della mortificazione della scuola e delle più elementari pratiche di convivenza civile e dall’altro lo sviluppo di quel mostruoso assetto mediatico composto da una indefinita serie di trasmissioni televisive, andate da tempo oltre il limite della decenza e dell’imbesuimento, che formano un tutt’uno con una serie di ripetuti e ossessivi inserti pubblicitari, invasivi al punto da avere reso i programmi del palinsesto di ogni singola emittente una specie di intervallo fra due messaggi commerciali (miracolo dell’economia liberista e libera da vincoli normativi e scrupoli morali: invertire l’ordine genetico delle cose), nei quali trovano compimento e visualizzazione i più vieti e indecenti spettacoli di miserabili disgraziati pagati per collocarsi a livello inferiore alle bestie da circo o da zoo ovvero starnazzanti megafoni di sciagurati inviti all’acquisto di qualsivoglia bene, per lo più inutile se non dannoso.
Il letamaio che ne risulta è un miscuglio di messaggi, indistinguibili l’uno fra gli altri, innervati di machismo, superomismo, suprematismo, disprezzo dell’universo femminile che batte per distacco la più vieta forma di misoginia; modelli di vita e comportamernto che provocano i più bassi istinti umani per poi dare loro libero sfogo, in uno schifoso – le parole ci sono e vanno usate – minestrone mediatico fatto di sopraffazione, violenza verbale e fisica, bavosi ‘guai ai poveri’ sputacchiati da mestieranti comprati e venduti per tre palle a un soldo. Un complesso che pervade la vita di chiunque, la insegue, la incalza in ogni momento di vita di relazione e lavorativa, che penetra nell’ambito sociale anche di chi ne rifugge modi e contenuti e vorrebbe esserne esente – cosa pressoché impossibile, a meno di scegliere una vita rigidamente monastica – e che ha quasi del tutto sostituito i rapporti sociali che dovrebbero in qualche modo essere presenti in un consorzio civile degno di tale qualifica.
Disgraziati, in altro modo, sono anche quei due poveri assassini. Se la terribile esperienza che li attende portasse a cambiare le loro rispettive vite; se in carcere fossero in grado di diventare uomini appena migliori di quelli che sono ora; se in ragione di ciò avessero l’opportunità di riacquistare la libertà nei modi e termini previsti dalla legge anche in presenza della massima condanna prevista dal nostro ordinamento, non di meno, anche in questo caso sapremmo di due vite in buona parte buttate, malvissute, sprecate anche e soprattutto a causa di una società in gran misura marcia, corrotta e corruttrice, viziata e violata da un sistema economico anti-umano, più che disumano. Che oltre a produrre ingiustizia e disuguaglianza sociale – anzi, proprio in conseguenza di ciò – crea i presupposti di altre vite perse, distorte, condizionate da bisogni personali fasulli, inventati a uso e profitto di coloro che fanno del potere economico un’arma di condizionamento di milioni di vite e destini personali. Gli stessi che, ogni qual volta emergono nelle cronache fatti come quello che ha sicuramente distrutto una vita e ne ha probabilmente tarato per sempre altre due (con relative famiglie), tramite i mezzi di informazione e i personaggi di cui dispongono, inducono a credere che si tratti di comportamenti estemporanei e patologici, quando in questo mondo dominato dalla persuasione pubblicitaria non sono altro che punte di iceberg di situazioni del tutto comuni e fisiologiche.

Cesare Stradaioli