IL PARADOSSO DI BERTOLT BRECHT

Questione lungamente dibattuta e alla fine risolta: è più facile votare a destra piuttosto che a sinistra. Il voto è attività squisitamente strumentale, non di rado diversa e distante dalla convinzione politica di chi entra nella cabina elettorale e poiché l’innovazione è, per sua stessa natura, più impegnativa e problematica di un piatto allineamento allo status quo (quale che sia la sua cifra politica: l’Emilia Romagna, tanto per fare un esempio), nel nostro Paese prevale storicamente un orientamento politico che per comodità si può definire di centro-destra. Possono non piacere le radici rurali e clericali ancora ben salde in Italia, ma quelle sono e con quelle è necessario fare i conti, anche considerando il fatto che i due caratteri erano fortemente prevalenti fino a non più di qualche decennio or sono.
In un rapporto sul nostro Paese indirizzato al Presidente Truman verso gli inizi degli anni ’50, l’addetto culturale dell’epoca presso l’ambasciata statunitense a Roma osservava, fra le altre cose, la forte presenza di un partito comunista, notevolmente organizzato e, tuttavia, limitato a una cerchia non proprio ampia di cittadini, per la maggior parte di livello culturale e titoli di studio di rilievo; il che, già all’epoca descriveva un certo elitismo politico della sinistra. Vedi le radici di cui sopra.
Peraltro, che il proselitismo, l’associazione, l’iscrizione, la partecipazione e, infine, il voto, avessero per i partiti di sinistra come obbiettivo le classi subalterne, di massa per quanto politicamente ed economicamente emarginate, è cosa perfino ovvia: solo chi desiderava o necessitava di un radicale cambiamento della propria e altrui vita poteva essere interessato a orientarsi in quella specifica direzione. Pare che sia giunto il momento di farsi qualche domanda – debitamente aggiornata – su chi siano o possano essere, oggi e per il prossimo futuro, i destinatari di un appello da sinistra. Che fare? è e rimane sempre una domanda doverosa che, però, andrebbe prima o dopo seguita dal sostituire il punto di domanda con qualcosa se non di esclamativo, quanto meno di affermativo. Un po’ come quando Filippo Ottone esortava Fabrizio Barca a uscire dalla palestra: in pista, prima o poi, bisogna pur scendere.
Che prospettive elettorali può avere una formazione di Sinistra, progressista, solidale, portatrice di un progetto politico che prenda le distanze dal finanzcapitalismo, brillante definizione che dobbiamo a Luciano Gallino, da un modello socio-economico che ha nella disuguaglianza la manifestazione non già di una patologia, bensì la sua essenza stessa, ragione del suo esistere? In un momento storico in cui amplissimi settori delle fasce sociali che dovrebbero essere il suo riferimento – essendone essa stessa a propria volta punto di coesione – considerano con aperta ostilità e disvalore concetti quali legalità, solidarietà, uguaglianza, sostenibilità, internazionalismo, antifascismo? Con quali argomenti si può presentare, in vista di un ritorno elettorale (dato che in fin dei conti, in un sistema di democrazia rappresentativa, quello è un punto centrale) un serio e inequivoco progetto politico, quando gli stessi nostri concittadini rivendicano un non meglio specificato né specificabile diritto a riavere un modo di vivere del tutto a discapito dei più deboli, dei più fragili, degli ultimi e senza finalmente manifestare alcuna remora nel dirlo apertamente?
Riguardo alla Sinistra, non si tratta solo di personale politico da rinnovare – il ritiro a vita privata, accompagnato da irrevocabile esclusione da qualsiasi ambiente politico, appare essere unico, primo rimedio alla povertà morale e culturale emersa negli ultimi trent’anni – quanto piuttosto di rendersi conto chi sia l’interlocutore; non se il messaggio arrivi comprensibile ma che sia condivisibile. Se il ceto medio, il pubblico impiego, il lavoro dipendente, le fasce emarginate anche quando dotate di un’occupazione, condividono in grandissima misura i messaggi della destra e della classe che controlla e dirige la produzione, quali odio verso i migranti, mortificazione del diritto al lavoro e della dignità che non può esserne disgiunta, disprezzo della solidarietà sociale, sistematica disapplicazione della Costituzione in punto di redistribuzione della ricchezza e della rimozione degli ostacoli alle pari opportunità, crescente metastasi dello strapotere privato di insegnamento, sanità, energia, trasporti, gestione della rete; se un numero sempre crescente di individui vuole un cambiamento ma solo nel proprio ambito personale o familistico ovvero – è la stessa cosa – se ne disinteressa disertando le urne; se la disillusione genera solo stanchezza, cinismo e messa in vendita al migliore acquirente della propria dignità e libertà purché sia appagato il desiderio di essere lasciati in pace nel proprio orticello e al diavolo tutti quanti, allora il problema non è di far capire cosa si vuole, ma intraprendere un cammino tanto lungo e faticoso quanto inevitabile (e per certi versi, salvifico) che abbia come obbiettivo fermare questa oscena corsa all’indietro in ambito culturale, economico e umano che sta vivendo il nostro Paese, al fine di riportare al centro dell’esistenza di ciascuno l’idea che le vite delle persone non siano dedite e finalizzate agli altrui profitto, rendita e accumulo, passando per l’emarginazione, la discriminazione e il disfacimento del consorzio civile, bensì al cambiamento, o almeno al fatto di desiderarlo, cosa che dobbiamo a noi stessi e anche a coloro che non possono neppure immaginarselo.
Nel corso degli ultimi decenni abbiamo assistito al concretarsi di paradossi al limite del grottesco; quello che si prospetta oggi alla Sinistra è quello brechtiano.
Non il sistema elettorale, non i messaggi politici e neanche i partiti: bisogna davvero cambiare gli elettori.

Cesare Stradaioli