IL POTERE CHE CONVIENE A CHI CE L’HA

I poteri dell’amministratore delegato di una società come l’ENI sono paragonabili a quelli di un primo ministro di una nazione non proprio di piccolo taglio. Volendo, si potrebbe dire che un consiglio di amministrazione concreti un esercizio di effettività e governabilità – con il suo sinonimo per gli analfabeti della politica: stabilità – che trova pochi riscontri: se il delegato non si manifesta all’altezza dell’incarico ricevuto, se ne va e ne viene nominato un altro, al netto di ricorsi, campi larghi e cineserie assortite. Quando si dice democrazia diretta.
Ora, le volte in cui Claudio De Scalzi, potente quanto schivo alla notorietà – è lì, il suo potere – prende la parola, di solito succede qualcosa di rilevante, a prescindere dalle opinioni personali di ciascuno. Le quali, però, pur sempre contano. Per cui, se in una delle sue più recenti dichiarazioni, afferma che la cosiddetta transizione ecologica (qualsiasi cosa voglia dire il termine: già transitare implica un consumo di energia, che sia equina o nucleare concettualmente cambia poco) si farà esclusivamente se vi saranno dei profitti, fa un po’ specie udire a sinistra – anche qui: qualsiasi cosa significhi la definizione – espressioni di sorpresa o di malcelato disappunto. Ohibò, lor signori, cosa sono quelle facce? Ha per caso, l’uomo forte dell’ENI, detto qualcosa di nuovo?
Egli è delegato soprattutto a una cosa, depurando il tutto da doppi e tripli sensi: garantire agli azionisti investitori (quelli che l’hanno messo dove sta e che se non è all’altezza eccetera eccetera) un conveniente e costante flusso di dividendi. In altre parole: che ne valga la pena e che non ci siano sorprese a lungo termine. E’ lì per quello: il resto sono svolazzi di contorno. Sicché sentirgli dire che una qualsiasi cosa, dovesse anche consistere nel ridipingere di lilla stile pandoro Bauli le pareti della sede centrale, si può e si deve fare a condizione che generi utili, dovrebbe portare chiunque dotato di un minimo di ingegno a dire: così si fa, l’amministratore delegato!
Così funzionano quegli agglomerati di persone e capitali, conosciuti come società per azioni; quelli che producono automobili, dentifrici, che gestiscono telefonia e traffico su gomma di qualsiasi prodotto, alimentare e non; quelli che investono per guadagnare, non per perderci o per chiudere in pari – avrebbero altre soluzioni; da qualsiasi cosa, dalla compravendita di diamanti, cabinati di lusso e riscossione dei crediti di enti pubblici che saremmo tutti noi e che regaliamo parte per niente irrilevante del ricavato – le imposte, le tasse, le multe, le pene per infrazioni al codice della strada – a persone o società che magari si trovano in Indonesia o che a Parigi hanno solo una sede con un tavolo e un computer. Sono quelli ai quali la Sinistra mondiale ha dato onori e gloria, denari e potere, lasciando che sia qualcun altro a rigovernare la cucina e mettere a posto il salotto.
Sono quelli che hanno convinto i rappresentanti politici di quella cosa di prima che significa qualsiasi cosa, a convincere i propri elettori, i loro referenti, le persone e le associazioni che avrebbero dovuto rappresentare e che per difendere i cui interessi avrebbero dovuto battersi con tutte le loro forze, ad accettare il dogma che prima di tutto le cose devono andare bene a quelli che ci mettono i soldi e, in secondo luogo e probabilmente più grave, la smisurata panzana secondo la quale esistono proposte e realizzazioni concrete che convengono a tutti.
Niente, a questo mondo, conviene a tutti, neppure nel minuscolo orticello che è il nostro Paese – che, nel suo piccolo, conta pur sempre sessanta milioni di abitanti: c’è sempre qualcosa che conviene di più a qualcuno e pochissimo o per niente a tutti gli altri. Rimane, pertanto, la domanda: perché tanto stupore?

Cesare Stradaioli

DETTI E NON DETTI

Sul bancone di uno dei più noti ristoranti di Muggia, tempo fa si trovava un cartello su cui compariva la seguente scritta: LA FRASE IL CLIENTE HA SEMPRE RAGIONE E’ STATA INVENTATA DA UN CLIENTE. Il sottinteso, piuttosto chiaro, era che l’adagio non fosse necessariamente rispondente al vero e che i ristoratori ne prendevano bonariamente – ma puntutamente, secondo il carattere slavogiuliano del luogo – le distanze. Sia vero o meno che il detto abbia quell’origine, è poco importante: facciamo tutti finta che il cliente di turno sia sempre dalla parte del giusto, soprattutto noi clienti che, in quanto tali, siamo necessariamente la stragrande maggioranza rispetto a chi ci porta cibo e bevande o ci venda tessuti o automobili.
Allo stesso modo, oggi come in passato, andrebbe rivisitata la celebarrima e più che abusata locuzione SI VIS PACEM, PARA BELLUM. Frase che ognuno di noi si sente ossessivamente ripetere da quando impara a leggere e che, per quanto sia ignoto colui che ebbe la brillante idea di diffonderla – magari, al tempo, pure con una certa fondatezza – ha sempre avuto quell’aura di sacralità e di inevitabilità, quanto solo le manifestazioni metereologiche o le dinamiche predatorie dei prezzi nell’economia di mercato possono vantare. Chi l’abbia vista non può scordare una delle tante celebri vignette di Altan, raffigurante un tizio che dice: “Si riarmano per non fare la guerra: come quelli che bevono birra per non ruttare”.
Il costante, compulsivo ricorso all’uso delle armi per guadagnare la pace, destino che sembra travalicare le volontà umane, nella sua coazione a ripetere per lo più ad minchiam (parafrasando il compianto professor Scoglio), porta necessariamente a considerare, specie in tempi come questi, come l’elegante citazione latina se non è stata coniata da un generale, certamente viene mantenuta bene in vita nell’educazione e nell’inconscio di chiunque da qualche militare di altissimo grado e soprattutto da coloro i quali le armi, di ogni tipo, le fabbricano e dalla cui vendita ricavano spaventosi – in tutti i sensi – profitti.
No. Se vuoi seriamente la pace, creane i presupposti. Va rigettata, una volta e per sempre, la colossale e sporca panzana della necessità di avere più bocche da fuoco, più cannoni, più bombardamenti, più esser umani dentro i tanks o a strisciare sul fango; si dovrebbe essere stupefatti di come, ancora oggi, ci sia gente che crede all’esportazione della pace come della democrazia. Purtroppo, fino a quando ci saranno miserabili corifei e imbrattacarte prezzolati, sufficientemente dotati di faccia di merda, in misura inversamente proporzionale al proprio orgoglio di professionisti per poter insistere a sostenere e diffondere schifezze del genere, il detto avrà ancora lunga vita.
Spetta a ciascuno, mettere il proprio mattone. Tanto per restare nella latinità, per quanto artificialmente ricreata a Stratford upon Avon, che si possa e si debba procedere alla pace usando la forza della ragione, non è cosa conservata nelle stelle, ma in noi stessi.

Cesare Stradaioli

FUORI I NOMI

L’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine costituisce, nella sua regolamentazione che ne conferisce legittimità, uno dei cardini del consorzio civile: nessuno, con un minimo di ingegno, si puà figurare uno Stato senza un corpo di polizia. Quale polizia e come vada governata, è la questione fondamentale che deve porsi chiunque dopo gli indecenti fatti di Pisa e Firenze.
Il manganello o le manette, oggetti che violano l’integrità e la libertà delle persone, sono in dotazione ai tutori dell’ordine e ciascuno di essi ne risponde in prima persona; tuttavia, escludendo episodi (tutt’altro che infrequenti) nei quali l’uso della forza o la limitazione della libertà vengono posti in essere per autonoma e illegittima decisione del singolo pubblico ufficiale, l’uso di detti oggetti dipende da una catena di comando che risale, nel nostro Paese, al Ministero deglio Interni, della Difesa e delle Finanze. Sicché, se è il singolo agente a colpire giovani manifestanti che liberamente esercitano il proprio diritto di scendere per strada – il termine ‘manifestazione non autorizzata’ non risponde al vero: non è necessaria alcuna autorizzazione; se mai, possono essere posti dei divieti, per gravi e comprovati motivi di ordine pubblico – gli ordini provengono dall’alto secondo una ben definita scala gerarchica. E se il Ministro degli Interni, che ha un passato di Questore, sostiene che i deprecabili ordini non provenivano dal proprio dicastero, abbia la compiacenza di comportarsi da servitore delle istituzioni quale sostiene di essere e dia le dimissioni irrevocabili; perché, delle due l’una: o non dice la verità oppure non è in grado di controllare e, come si diceva sopra, governare i propri sottoposti. Scelga lui.
E’ troppo facile prendersela col singolo poliziotto – o col singolo carabiniere o il singolo finanziere: per quanto un agente possa essere padre o madre di figli che hanno la stessa faccia, gli stessi ideali e gli stessi desideri di quelli che lui/lei, bardato/a come se fosse in guerra affronta sapendo di avere dalla propria la grandissima responsabilità della legittimtà a usare la forza; o anche non lo sia, e comunque possa e se del caso debba disattendere l’ordine di picchiare in testa ragazzi protetti solo dalla voglia di cambiare questo mondo che fa schifo anche a noi che gliel’abbiamo costruito attorno, pur sempre qualcuno quell’ordine l’ha dato.
Bene: fuori i nomi. Subito, non fra quindici anni, a prescrizione intervenuta, di fronte alla terza o quarta commissione parlamentare.

Cesare Stradaioli

ODIATO, TROPPO ODIATO.

E’ ufficialmente aperta la gara di tiro a segno nei confronti di Benjamin Netanyahu.
Quelle che, non appena la conta degli assassinati a Gaza superava il migliaio – quantità inferiori di palestinesi uccisi non fanno nemmeno statistica – erano timide voci e qualche bonaria reprimenda, adesso sono diventate il mantra ufficiale di gran parte dei mezzi di comunicazione, ormai unici e autorizzati creatori di consenso, avendo da tempo sostituito le figure politiche, con una progressiva e inesorabile inversione di ruoli (non portano nemmeno più la voce, SONO la voce della politica): il cattivo è lui, tutto quello che succede a Gaza è colpa sua, come lo è stata la grande dormita (versione davvero poco credibile: più verosimile un attendista vediamo fin dove arrivate, tanto poi rispondiamo) del 7 ottobre.
E così via, all’indietro a risalire agli inizi della nefasta carriera di un omuncolo senza alcuna qualità né titolo, se non quello di essere fratello di un eroe nazionale, ufficiale dei corpi speciali caduto nell’operazione che a Entebbe portò alla liberazione di ostaggi chiusi in un aereo della EL-AL sequestrato da un commando di palestinesi. Il tutto, saltando allegramente il fatto che l’attuale primo ministro di Tel Aviv è a capo di un partito che, da solo o in coalizione, ha più volte vinto le elezioni; il che dovrebbe profilare quanto meno un minimo sindacale di corresponsabilità da estendersi a milioni di suoi connazionali, i quali certamente non l’hanno scelto per le sue capacità diplomatiche e di mediazione nei conflitti.
Ultimo arrivato, ben dopo Joe Biden – e ce ne vuole, per farsi precedere da un anziano già lentissimo da giovane, presidente della nazione che da sempre appoggia lo stato ebraico – David Assael il quale, dalle pagine di ‘Domani’, si aggiunge a una particolare, nutrita schiera di giornalisti, intellettuali e docenti. Prestigiose e note firme le quali, a cominciare dalle operazioni belliche russe in Ucraina, per giungere alla strage di civili in atto a Gaza, sembrano avere perso il senso del giudizio, travalicando senza vergogna la libertà di pensiero e il diritto ad avere un opinione.
Da tempo illustre opinionista del quotidiano di Debenedetti, capace in passato di considerazioni decisamente sbilanciate pro-Israele e, non di meno, dotate di profondità e assolutamente meritevoli di confronto senza partito preso Assael, puntando il dito contro il primo ministro israeliano, riuscendo peraltro nell’impresa di non nominare neanche una volta le comunità di fascisti e razzisti altrimenti noti come coloni (che fanno quello che vogliono nella totale impunità, compresa la non trascurabile circostanza di aprire il fuoco vestendo divise dell’esercito ufficiale, il che meriterebbe loro la fucilazione seduta stante, se presi prigionieri), si autoassolve in maniera spudorata.
Non ne ha il diritto: nessuno ha il diritto di scaricare tutte le responsabilità su un politico indubbiamente non all’altezza del ruolo che pur sempre ricopre da molti anni. Così come nessuno ha il diritto di ignorare pubblicamente (in privato un può dire grosso modo le peggiori fesserie: non ne risponde che alla propria coscienza o, al più, alla pazienza delle persone che lo frequentano) un dettaglio noto a chiunque abbia studiato la Storia: da che esistono le forme-Stato per come le conosciamo, dietro a un singolo uomo, che si chiami condottiero, presidente, fuhrer, luce dei popoli, dittatore, capo indiscusso, c’è SEMPRE un comparto militare strettamente connesso a quello finanziario, facente capo a una ristretta cerchia di persone che decidono se, quando e quanto il leader pro tempore debba e possa rimanere dove si trova.
Non se la cavano così, nessuno di loro: la pratica di prendere il capro, malmenarlo e cacciarlo dal villaggio, cosicché gli dei capiranno e tutto sarà perdonato, è sporca, falsa e puttana e qualifica da sé chiunque la evochi o la metta in atto. Altri, ben prima e ben peggio di Netanyahu portano la responsabilità di una pulizia etnica iniziata decenni or sono. Troppo comodo – e troppo tardi – prendersela con il babau di turno, che non è capace neppure di non farsi detestare.

Cesare Stradaioli

CATTIVI PENSIERI INDOTTI

Il sospetto è che ci sia qualcosa di sporco, dietro l’ossessivo richiamo al 7 ottobre, ogni qual volta qualcuno si metta di traverso all’operazione armata (il termine ‘guerra’ ancora una volta è usato a sproposito, non risultando i civili palestinesi essere dotati di armi, leggere o pesanti che siano, né di divise da inquadrarsi in qualche gerarchia militare) che Israele sta portando avanti, pressoché indisturbato, a meno di non voler intendere come disturbo il fragoroso scontro di piume ad alta quota, costituito da marce, proteste, prese di posizione in ordine sparso, note diplomatiche e – sporadicissimi e largamente paludati – articoli di stampa a fronte di decine di migliaia di vittime e un verosimile milione e più di sfollati.
I brutti pensieri generati da questo sospetto non provengono solo dal carattere di ciascuno, poiché l’ambiente esterno, che ovviamente ricomprende anche tutti gli altri esseri umani, ha un ruolo decisivo in tutti coloro che non abbiano optato per una vita rigidamente monastica e solitaria. Si annusa un che di strano, di vagamente stonato nel continuo riferimento al massacro perpetrato da Hamas e ciò si concreta nel fatto che, sia da fonti ufficiali e diplomatiche israeliane, sia da singoli interventi e anche dal compatto movimento mediatico a favore di Tel Aviv sempre e a prescindere, non venga richiamata solo la data – cosa più che comprensibile e legittima – quanto la sistematica conta delle vittime, degli ostaggi ancora in mano ai rapitori e della loro qualità di israeliani, con l’aggiunta dell’aggettivo-sostantivo ebrei.
A voler fare un esempio per chiarire il concetto, non pare che fin dall’immediato dopoguerra, ogni puntuale riferimento alla Lotta di Liberazione e cioè al 25 aprile, oppure allo scellerato intervento in guerra da parte dell’Italia e cioè il 10 giugno, abbia automaticamente portato con sé il numero dei morti, torturati e dispersi fra i partigiani e i soldati italiani: non sembrava necessario, poiché le date e la memoria erano o avrebbero dovuto essere più che sufficienti, tanto quanto era superfluo dare una nazionalità a quegli sventurati.
La conta e la qualifica delle vittime e degli ostaggi del 7 ottobre non può non far sorgere un terribile quanto cattivissimo pensiero, che per ora rimane tale: che un assassinato, che un sequestrato ebreo israeliano valga enormemente di più di un palestinese massacrato, espropriato della propria terra, vittima della pulizia etnica in corso a Gaza.
Abbiamo, per decenni, pazientemente sopportato, come detta il nostro senso di umanità e la coscienza, tutti gli scrutini di antisemitismo che seguivano le volte in cui abbiamo criticato la politica di Israele: è sacrosanto il diritto di avere gli stessi brutti pensieri che hanno mosso chi riteneva opportuno farci quelle offensive domande.
Quelle domande, sempre la stessa, hanno avuto regolare risposta. Farebbe un enorme piacere che qualcuno confutasse il nostro dubbio.

Cesare Stradaioli

LETTERA A UN’AMICA EBREA

Cara D,
io che esorto a non farsi opprimere dal senso di colpa nei confronti di un popolo, variamente sparso per il mondo, dal momento che altri – non noi! – hanno predisposto e tentato di porre in essere la soluzione finale, essendo proprio questo rifiutare di farsi carico di colpe altrui a mio modo di vedere una concreta forma di rispetto per le vittime e per i loro discendenti, ebbene proprio io vivo per un istante l’incertezza di definirti in base alla religione ai cui precetti sei stata educata, quasi sentissi il bisogno di aggiungere ‘non ti chiamo ebrea come fanno gli antisemiti’…
Tant’è: l’inconscio avrà pure una sua ragione di essere e di esistere, avendo oltre a tutto la stessa caratteristica che Lenin individuava nei fatti e cioè la testa dura.
Detto ciò, prima o poi ti avrei scritto quello che stai per leggere e – ci conosciamo da quando eravamo ragazzini – so che mi credi, quando ti dico che quanto ho da dirti costa una certa sofferenza.
E bene: alla luce di quello che sta succedendo dal 7 ottobre 2023 e mi riferisco non solo e non tanto agli ordini militari che vengono eseguiti – c’è sempre qualcuno che ordina e, varieranno pure latitudine e longitudine, ma a me pare che ovunque ci sia qualcun altro che, tenendo famiglia o un posto di lavoro, obbedisca e dorma bene la notte – quanto alla patina di indifferenza, di totale mancanza di empatia, mischiata a un senso di disumanità che offende o dovrebbe offendere chiunque, come me come noi, sia cresciuto immerso in una cultura giudaico-cristiana. Quanto accade – o non accade o non viene detto e se viene detto non viene sentito – mi obbliga, mi forza a concludere che tu e tanti altri ebrei che non hanno notorietà e tutti quelli che avendola (penso a personaggi come Gad Lerner o Moni Ovadia: i primi che vengono in mente) esprimono ferma condanna per la politica criminale e assassina portata in avanti da chi governa in Israele, non contiate nulla.
Non più, se pure prima contavate qualcosa e qualcuno pure contava. Le vostre voci sono spente, i vostri pensieri non concretano alcunché, la vostra disperazione – che sono certo sia vera e dolorosa – è sterile, le marce di chi fra di voi marcia vengono autorizzate e perfino riprese e rilanciate dai media e, ciò malgrado, non tolgono nulla alla cieca e furibonda volontà di sterminio e nulla aggiungono a chi vi si oppone.
Esistete – perché esistete: su questo non vi è dubbio. Ma nel momento in cui, anche e soprattutto voi ebrei praticanti e non, osate spendere una parola che confischi a CHIUNQUE il diritto di massacrare civili inermi (operarando di fatto un qualcosa che se non si può definire pulizia etnica, allora bisogna tornare indietro e chiedere scusa agli ustascia croati e ai cetnici serbi), non appena provate ad alzare la voce, ecco che non vi si sente più. Non vi sentono più. Smettete di esistere: fin quando non tornate a occuparvi di quello per cui siete rispettati e benvoluti, nel privato e in pubblico. Parlate fra di voi: parlate con noi, parliamo con voi, ma sono frasi senza una voce, senza una lingua. E mentre parliamo e ognuno vive, dal proprio punto di vista, la sofferenza di vedere quello che succede a Gaza, siamo tutti consapevoli e inascoltati della nostra, ma soprattutto della VOSTRA inconsistenza. 
Sarà poco elegante anche solo pensare qualcosa come se non ascoltano voi… ? Può essere, ma mentre cerchiamo di mantenere un certo tono – lo stile conta pur sempre qualcosa – dobbiamo renderci conto che, allo stato delle cose, parlare o rimanere in silenzio produce il medesimo effetto e che una tale, tremenda consapevolezza è quanto di più inelegante a questo disgraziato mondo si possa immaginare.

Cesare

 

 

 

I FATTI DEGLI ALTRI E QUELLI DI TUTTI

Credo che il punto nodale della vicenda della nostra connazionale detenuta in Ungheria in attesa di giudizio sia più semplice di quella che viene prospettata e che sia altrove.
Fermo restando che un trattamento contrario a principi di civiltà e di mera conduzione di un istituto carcerario (qualsiasi agente di polizia Penitenziaria è consapevole del fatto che un detenuto è, prima di tutto, un cittadino privato della libertà e affidatogli perciò in custodia, con tutte le responsabilità legali e umane che ne derivano) può essere segnalato e denunciato da chiunque – ivi compreso il dicastero pro tempore della giustizia del nostro Paese, dove vige il regime del 41bis e nel quale si danno numerosissime situazioni intollerabili al punto da arrivare a uno spaventoso numero di suicidi ogni anno – va detto che le modalità di trattamento intra ed extramurario di un detenuto sono e devono rimanere di esclusiva competenza del Paese interessato.
Il che, ovviamente, non significa che a livello di diplomazia e di rapporti fra Stati e governi non si possano e si debbano dare interlocuzioni e contatti al fine di prendere in esame variazioni alle suddette modalità; sicché, è sì compito del titolare del Ministro degli Esteri muovere i passi opportuni con le autorità magiare per vigilare la situazione detentiva di Ilaria Salis ma, allo stesso tempo, è facoltà e anche obbligo in capo all’esecutivo di convocare la rappresentanza diplomatica di Budapest accreditata e pretendere spiegazioni in proposito. Sempre avendo presente che un detenuto, in attesa di giudizio o definitivo, che viene portato all’esterno è per forza di cose sottoposto a controlli e vigilanza maggiori di quelli che subisce normalmente: non solo in Ungheria, purtroppo, una persona ristretta in carcere, una volta temporaneamente all’esterno, viene incatenata mani e piedi.
Il punto è che il panorama politico europeo in genere e ungherese in particolare, presenta non già solo rigurgiti (che ci sono sempre stati) ma concrete e rappresentative manifestazioni di gruppi e partiti neofascisti e neonazisti – il nostro Paese, quanto meno rispetto alla prima qualifica, non va esente – estesi e attivi al punto tale da fare sorgere quanto meno un paio di domande; quanto alla prima, essa parte da un sospetto: siamo sicuri che se la signora Salis, in ipotesi simpatizzante neonazista, avesse picchiato un manifestante di sinistra, sarebbe ancora in cercere da quasi un anno in attesa di giudizio? La seconda domanda è la seguente: ci si deciderà, prma o poi, ad agire in maniera forte e chiara (qualsiasi possa essere l’interpretazione di tali termini, anche ripensando al paragone che fa Woody Allen fra l’ironia e le mattonate sui denti) per arginare e finalmente fermare questo fenomeno di imbarbarimento dilagante nelle società occidentali – figlio di mille padri – che, a titolo di esempio proprio in Ungheria, induce i difensori della nostra connazionale, una volta dovesse ottenere gli arresti domiciliari – status che richiede comunque una vigianza da parte delle forze dell’ordine – a dubitare addirittura della sua stessa incolumità?
Bertolt Brecht parlava di ventri di bestia ancora potenzialmente in grado di generare figli orrendi; passata l’emergenza bellica e antifascista, per decenni fu riservato a tale profezia un giudizio fradicio di enfasi, ritenuta com’era passatista, fuori tempo e fuori luogo. Non ebbe destino migliore l’agghiacciante riflessione di Primo Levi, su qualcosa che, in quanto già successo, poteva succedere nuovamente.
E bene, il termpo e il luogo sono ora e qui, non chissà quando e chissà dove: adesso, nella nostra bella e civile Europa, schiava del neoliberismo e sedicente vergine scevra da guerre che demanda ad altri, mentre il nemico non marcia più alla nostra testa ma vive e si attiva politicamente nei NOSTRI Paesi, prendendosi lo spazio generosamente concessogli, alla stregua del passeggio di un cane da guardia, da un’ideologia di mercato cugina stretta del Fascismo e lasciatogli da una Sinistra sciagurata, che da decenni passa il proprio tempo in una fumeria d’oppio, beandosi del proprio benessere e delle zone a traffico limitato. E tutto questo mentre i gruppi neofascisti e neonazisti sfilano nei quartieri popolari a prendersi la simpatia e il voto di chi dovrebbe orientarsi altrove, se solo un orizzonte ci fosse.

Cesare Stradaioli

CONTRO QUESTA EUROPA

Sarebbe ora di smetterla di avere paura di usare le parole che vanno usate: questa Europa, questa Unione Europea, questo simulacro di casa comune dotata di un tetto (che pure ha diverse tegole smosse) ma con finestre senza vetri e fondamenta appena abbozzate – l’equivalente architettonico dell’aver formato un consorzio economico di Stati diversi per forme di governo, partendo dalla moneta unica – non è l’Europa di cui hanno parlato per decenni a me come a tutti i cittadini italiani e continentali e certamente non è l’idea di Europa che avevano i detenuti politici di Ventotene i cui nomi, alla stregua di una confezione di kleenex, vengono normalmente tenuti in un cassetto e utilizzati alla bisogna per nettare questo o quell’orifizio.
C’è, fra gli altri e forse più degli altri, un aspetto francamente insensato e grottesco in questo ircocervo, animale sconosciuto tanto alla scienza che si occupa di biologia quanto a quella politica, creato in vitro da maldestri apprendisti stregoni: la Commissione Europea, organo esecutivo della UE e promotore del processo legislativo, per statuto e per ispirazione fa capo a un Presidente. E’ curioso come perfino nella tempesta di opinioni (per lo più idiote e fuori luogo) scatenata dal referendum britannico del 2016, non si siano sentite voci, considerazioni, valutazioni di sorta a proposito di come un cittadino belga, olandese, danese, spagnolo e svedese, appartenenti a nazioni monarchiche da che esistono, come del resto la fuoriuscita Gran Bretagna (ci sarebbe anche il Lussemburgo, che è un Granducato) possa sentirsi vivendo regolato in ogni aspetto della propria vita, all’interno di un insieme di Stati tecnicamente a guida repubblicana, scaturente da elezioni e non da successione ereditaria. A maggior ragione per il fatto che, a quanto sembra, in ognuna di queste nazioni un partito che abbia nel nome e nel programma l’instaurazione della forma repubblicana, dal punto di vista delle percentuali elettorali generalmente si situa da qualche parte fra lo zero e quasi niente e lo zero e qualcosa. Per non parlare del fatto che alcuni di questi Stati sono a impostazione presidenziale ovvero parlamentare: avendo così una Repubblica come quella francese in cui il Presidente è un Re a termine (alzi la mano chi sa il nome del primo ministro pro tempore) e una monarchia come quella olandese che regna volutamente nell’ombra di una discrezione tipica del luogo.
Questa Europa è un accrocchio di popoli che, quando non sono divisi al proprio interno da secolari e quasi insuperabili antipatie o rivalse, qui e là si detestano cordialmente oltre confine, truffano il consorzio realizzando extra gettiti dall’export (cosa non consentita dal regolamento di condominio) o affittano parte delle proprie case – sottotitolo: legislazioni fiscali particolarmente ghiotte alle multinazionali e a danno degli altri membri dell’allegra combriccola; cosa anch’essa vietata, prima che da un’apposita norma, da un minimo sindacale di senso di appartenenza comune.
Questa Europa non è altro che un forzatura della Storia e come tutte le forzature tende ad avere vita breve e travagliata. Sempre che sia consentito parlare di vita, in relazione a un insieme di Stati i quali, a prescindere dalle storture e dalle stranezze di cui sopra, non sono in grado di realizzare un barlume di linea comune e condivisa in politica estera e accoglienza, tanto per menzionare due aspetti fondanti di un vero Stato o di una vera unione.
Questa, che per comodità di linguaggio chiamiamo Europa e che oggi come oggi rappresenta solo un’entità geografica, è riuscita unicamente tramite l’uso della forza – basti pensare, a titolo di esempio, alla guerra scatenata contro la Grecia e il suo governo legittimamente eletto e confermato da un referendum popolare – a imporre (approvare è parola che presuppone una consultazione) un contorto guazzabuglio di norme bancarie e finanziarie, appositamente sconosciute e incomprensibili ai cittadini, essendo per propria natura strettamente riservate agli addetti ai lavori. Osservando questa Europa, ascoltando ed esaminando le interminabili e ripetitive falsità che a suo proposito che vengono espresse, si impongono due riflessioni.
La prima concerne l’inutilità del ripetere cose ovvie e, per paradossale che possa sembrare, pacificamente date per assodate. Per tutte, la considerazione per la quale uno Stato nasce federale o non lo potrà mai diventare, pena compiere per l’appunto una forzatura storica. Cosa detta, ridetta, risaputa: principio presente in qualsiasi testo di Dottrine Politiche. L’assoluta inutilità dell’aver fatto presente, in più livelli e situazioni, un tale principio, è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Non ci potrà mai essere un’Europa federata, al netto dell’insuperabile questione repubblica/monarchia, a proposito di forma statuale. Bene, passiamo oltre. La discussione scaturita da tale riflessione ha preso circa un quarto d’ora di tempo: dopo di che è stata accantonata; bisognava occuparsi del tetto, le fondamenta verranno. Forse anche mai.
La seconda riflessione potrebbe anche avere un aspetto positivo: non può non riuscire nel proprio scopo qualcosa che non esiste. Sicché, sembra anche ozioso argomentare intorno a un possibile fallimento, dati i presupposti. Se non che, l’aspetto positivo, o non necessariamente negativo, sbiadisce in fretta. Da decenni tutto prosegue in una sorta di quieta inerzia: se invece di inerzia fosse almeno disperazione, come cantava Roger Waters, se ne potrebbe trarre spunto per un movimento opposto di ribellione. Mettersi contro l’inerzia è quasi impossibile, dal punto di vista della fisica e in politica vale lo stesso discorso. Tutto – un qualcosa di sostanzialmente indefinito – procede senza niente, più che senza scosse; nessun progetto politico, economico, sociale, nessun piano comune riguardo la scuola, l’energia, la difesa, l’industria, l’agricoltura, il turismo, la solidarietà interna e internazionale. Per questo l’Europa, questa Europa non esistendo in vita, non può fallire: dichiarare fallita un’esperienza, che sia politica o imprenditoriale, presuppone che qualcosa di preesistente abbia mancato di realizzarsi.
Se non altro la valuta chiamata euro, che secondo molti altro non è che il marco tedesco sotto mentite spoglie, proprio per il suo essere qualcosa, qualcosa rappresenta; il meglio, se si può utilizzare questo termine, che si possa dire di questa Europa, è il suo destino di essere una provincia degli Stati Uniti e in questo senso verrebbe da dare ragione a coloro che nel Regno Unito votarono per uscirne: se devo dipendere da Washington, tanto vale farlo senza regolamenti astrusi e cretini, imposti da periodiche dichiarazioni tanto tonitruanti quanto vuote di vecchi rottami con la pancia e donne eleganti e appositamente phonate e senza stupidi circhi elettorali, meno rappresentativi di una sagra parrocchiale.

Cesare Stradaioli

4 dicembre 1993

Ricordando qualcuno scomparso da anni, quale che ne sia stata la causa, ci si imbatte di frequente nello stilema “Cinque anni senza Tizio”, “Dieci anni senza Caio” eccetera. Preposizione priva di profondità, se non rapportata a qualcosa di specifico – il qualcuno è soggettivo. Nel concreto, più spesso sono familiari e amici a essere rimasti ‘senza’ la persona che non c’è più: la quale, in buona parte dei casi, era sconosciuta al di fuori della propria cerchia relazionale e ha assunto maggiore notorietà per le cose dette e/o fatte in un determinato e solitamente non lunghissimo tratto della propria esistenza.
Il 4 dicembre decorreranno 30 anni dalla morte di Frank Zappa, personaggio rispetto al quale molti, a decine forse centinaia di milioni, possono dire di avere vissuto questi ultimi tre decenni ‘senza’. Per tutto quanto ha musicato, detto e creato nei precedenti trenta e più e per tutto quello che avrebbe potuto esprimere in quelli successivi; per tutta la musica che non abbiamo avuto, per tutte le idee e le sue prese di posizione mai scontate su cui non abbiamo avuto modo di riflettere e discutere, per tutto quanto avrebbe potuto rappresentare ancora oggi – poco più che ottantenne.
Musicista innovativo come pochi, pensatore diretto fino alla brutalità, agitatore culturale, punto di riferimento, voce ascoltata e rispettata, figura detestata e ammirata, intrinsecamente incapace di fare o esprimere qualcosa di banale o di trascurabile, sempre pronto alla sorpresa, a creare sconcerto, trasversale, irriducibile, inevitabilmente e – davvero – ostinatamente contro. Trent’anni senza qualcuno di cui abbiamo impresse nella memoria immagini irriverenti, raramente sorridenti, ma del quale conserviamo soprattutto quello che ha messo su pentagramma o improvvisato dal vivo.
Invecchiando forse avrebbe dedicato un po’ meno tempo alla musica, come aveva già cominciato a fare alle prime avvisaglie della malattia e magari avrebbe più di frequente espresso le proprie opinioni, in forme maggiormente estese e più argomentate dei formidabili epigrammi (uno per tutti: Parlare di musica è come danzare di architettura) che si lasciava dietro.
Per questo, il tempo che passa non lenisce il rammarico e il senso di mancanza per tutto quanto ci è stato portato via troppo presto e in tanti fa sentire di essere rimasti, per sempre, senza Frank Zappa.

Cesare Stradaioli

QUANDO?

E’ il senso di colpa: da lì si parte e lì si deve ritornare, se si vuole capire. L’enorme, infinito, mai superato senso di colpa che l’Europa prova nei confronti degli ebrei in genere e di Israele in particolare. Per l’Olocausto, per secoli di antisemitismo, di disprezzo, di rancore, di avversione, di sospetto. Si deve per forza di cose pensare – non viene in mente alternativa degna di nota – che sia questo che porti al fatto che oggi, novembre 2023 a Israele, ai suoi governanti, al suo esercito e, perdio! al suo popolo, siano concesse e perdonate cose che a nessuno altro verrebbe concesso e perdonato, neppure al gran protettore che sta al di là dell’Atlantico.
Discutere intorno ai numeri dei morti, dei feriti e di chi viene tenuto in ostaggio non è utile se non ad alimentare la macchina dell’informazione, che non informa un bel niente: qualsiasi ragazzetto dotato di mezzi tecnici appena adeguati è in grado, anche senza essere iscritto all’ordine dei giornalisti, di informare cosa stia succedendo – da decenni – a Gaza e in Cisgiordania. Discutere con chi rivendichi la terra in cui si trova, sostenendo che essa sia stata data in eredità da dio, non è un esercizio inutile: non è nemmeno un esercizio e poiché di qualsiasi libro ritenuto sacro si tratti, pur sempre da uomini è stato scritto, tanto varrebbe sostenere che don Quijote sia una figura la cui vicenda sia stata dettata da dio come monito e guida per l’umanità, se solo Cervantes ne avesse indicato l’ispirazione ricevuta.
Ora, la polarizzazione delle opinioni non l’abbiamo inventata noi. Ma.
NOI abbiamo condannato il massacro del 7 ottobre, nello stesso modo e negli stessi toni con cui abbiamo esecrato gli attentati ai treni in Spagna o nella metropolitana a Londra, ribadendo ora come allora che non esiste lotta di liberazione di sorta che passi attraverso il massacro di lavoratori e studenti che si alzano alle 5 del mattino per salire su un mezzo pubblico ad affrontare la propria giornata.
Da LORO – chi lo sia, lo sa benissimo: non c’è bisogno di spiegare – stiamo ancora aspettando parole di condanna, di compassione, di dissociazione e di alternativa alla carneficina in corso. 
La volontà ci vuole ottimisti, in attesa di quelle parole; l’intelligenza (e la memoria del passato) ce lo vieta.

Cesare Stradaioli