L’UNIONE EUROPEA POST CARVERIANA

A Giorgia Meloni viene ascritta una certa distanza da non meglio identificate coordinate politiche assertivamente poste alla base dell’attuale Unione Europea. In modo particolare, viene evidenziata una sostanziale differenza fra alcune parole d’ordine e di chiamata alle urne espresse quando il suo partito politico militava all’opposizione dei diversi governi succedutisi negli ultimi anni e l’attuale linea politica perseguita da quando, prima donna nel nostro Paese, siede a Palazzo Chigi. Da questo punto di vista le critiche lasciano il tempo che trovano, essendo piuttosto comune e normale che, una volta presa la guida di un esecutivo, chi contrastava i precedenti debba fare i conti non solo con la quotidianità della guida di un Paese ma anche (e per certi versi, soprattutto) ma anche con progetti, azioni e accordi iniziati e presi da coloro dei quali si è preso il posto.
Di gran lunga più interessante è esaminare cosa si intenda, a seconda dei punti di vista, quando si dice – e molti, presi da una insolita foga liberatoria, lo scrivono – che Meloni ignori i principi basilare dell’economia e quelli che sarebbero i valori della civiltà europea (senza mandarle a dire, Stefano Feltri, da direttore di Domani, scrive che il Presidente del Consiglio non sa di cosa parla). I quali appaiono non sempre – anzi, quasi mai – ispirare chi ne faccia sistematico richiamo. Oh bella e ve ne accorgete adesso?
Rimangono sempre da chiarire quali siano di preciso i fondamenti dell’Unione Europea. A stento e con poche idee ma confuse concretati finora con una moneta unica (il tetto prima dei muri portanti e si vede da tempo) e una politica monetaria che pare coordinata da persone che non sembrano avere imparato alcunché dal passato neppure recentissimo, fatto di guerre economiche e militari nel senso più vero e primo del termine. Qualcuno potrebbe avanzare l’ipotesi che in vari consessi di ciechi, sordi e smemorati, qualcuno ci veda, ci senta e ricordi benissimo tutto e stia facendo esattamente quanto di più lontano dall’interesse dei cittadini ed estremamente vicino a quello di determinati circoli di potere. Il procedere in ordine sparso rispetto all’attuale conflitto russo-ucraino non ne è che l’ennesima dimostrazione.
Detto tutto ciò, il ceto politico – ampia licenza autoconcessa di usare sostantivo e aggettivo con ecumenica larghezza di vedute – attualmente al governo, sia a Roma sia in svariate amministrazioni locali può a buon diritto vantare una certa maggioranza (sempre della maggioranza di una minoranza si tratta, ma tant’è) e un discreto consenso popolare. Punto e finita lì. Per il resto, pressoché tutti i componenti del suddetto ceto, tranne qualche rarissima eccezione, sono sostanzialmente impastati di insofferenza per le regole, tratto che ne caratterizza nucleo e azione. Attitudine non esattamente positiva per chi entri in politica. E’ perfino troppo facile osservare come, essendo così ostico rispettare la legge a casa propria (i deliri antistatalisti successivi alla pandemia parlano da loro stessi), ci si può solo lontanamente immaginare come ci si possa accostare a leggi, trattati e regolamenti emessi dall’Europa, genericamente malvista a destra e alquanto poco vista bene a sinistra. Non che l’Europa faccia poi gran ché per farsi amare.
Il centrodestra al governo soffre di una gravissima contraddizione interna, direttamente ereditata da decenni di propaganda facente capo al magnate pregiudicato e pluriprescritto (con leggi ad personam): liberista a parole e, dunque, teoricamente schierato con i falchi delle banche centrali e di quella europea, oltre che con cugini volatili predatori di alcuni esecutivi che ben conosciamo, ma ferocemente statalista nella pratica. Occorre ricompensare buona parte dell’elettorato che di assistenza campa da sempre, a prescindere dalle opinioni politiche (e anche qui il sostantivo è una parola grossa). Il che li porta a tendere verso i governi autoritari decisamente più destra e meno sociale del oartito di maggioranza relativa. Come direbbe James Ellroy: pessimi, i primi compagni di letto, appena un po’ più pessimi i secondi – ma non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: la maleducazione dei secondi è più apparenza che sostanza.
Ora, tenere il piede in due scarpe è solo un’immagine figurata: fisicamente impossibile da farsi, ma c’è da dire e constatare che media vergognosi e svergognati riescono a farlo sembrare tale. Gli stessi media, le stesse firme che cadono dal pero e quando si alzano discettano, indignati perfino, a proposito del fatto  che Meloni e il suo esecutivo siano, a seconda dell’ubbia del momento a) antieuropei, b) poco liberisti (gira e rigira si torna sempre alla concorrenza e al mercato, spacciati per valori universali e dai quali non sta bene prescindere), c) populisti, qualsiasi cosa voglia dire, d) sovranisti (dobbiamo ancora vedere un capo di stato o di governo che ripudi un minimo di sovranità). Risulta peraltro arduo capire se costoro, che criticano gli altri, carverianamente sappiano di cosa parlano quando parlano di Europa, di politica, di solidarietà, di comune sentire – tutte cose che dovrebbero caratterizzare una vera Unione e non la pagliacciata che ci troviamo ad avere – dal momento che difendono QUESTO modo di essere Europa. L’impressione è che né le firme di cui sopra, né i destinatari delle loro dotte osservazioni, lo sappiano.
Alla lunga – e forse neanche tanto lunga – si paga dazio. Teste fredde quali Filippo Ottone solevano ripetere di non potersi augurare che Berlusconi governasse male; una volta terminato il mandato, lui sarebbe rimasto ricco e potente come prima, mentre il Paese sarebbe andato – dove si trova da tempo – a remengo, per usare un francesismo. A pagare lui – noi, il Paese – quel dazio.

Cesare Stradaioli