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SE NON LI’, DOVE?

E’ perfino ovvio che una forma di protesta organizzata, selezionata per temi, luoghi e tempistica, possa avvenire in una sede universitaria. Qui si misura, si verifica la cecità, la sordità – o, a voler essere meno ecumenici: la disonestà – di chi scambia gli scontri e la repressione che avvengono in queste settimane nei campus statunitensi per un qualcosa che richiami il ’68; il mitico, adorato, vituperato, strumentalizzato e infine sterilizzato movimento intorno al quale chiunque pare autorizzato a discernere – soprattutto chi non ne sa poco più di niente.
Sono giovani cittadini economicamente garantiti, che possono disporre con una certa larghezza di tempo, occasioni e entusiasmo interno, a protestare, a fare muro contro la polizia e i senati accademici che paiono vivere su un altro pianeta? E chi potrebbe, o dovrebbe avere la forza di farlo, in vece loro? Quelli che si svegliano alle 5 del mattino per andare incontro a una giornata di lavoro avvilente e senza prospettive di cambiamento, dalla quale fare ritorno, svuotati, a ora di cena? Quelli che sono talmente imbevuti di paura e di odio verso coloro che sono differenti, da avere smarrito quel minimo decente di solidarietà sociale? La protesta, quando ha un minimo di raziocinio e non si lascia fuorviare dall’ansia del contingente, è per forza di cose promossa e guidata da un’avanguardia, una fascia ristretta di persone che non solo ritengono di manifestare contro qualcuno o qualcosa a favore di qualcuno o qualcosa d’altro, ma che lo fanno anche per quelli che una cosa del genere non riescono (neanche più) a immaginarla.
O è in conflitto con la propria coscienza oppure lo è con la propria intelligenza chi non si renda conto o non voglia farlo, che gli studenti americani non stanno protestando contro i genitori autoritari, contro una società repressiva, contro il fatto cha a novembre siano in competizione tra loro un rimbambito e uno che pensa che le donne siano tutte puttane, o per avere più libertà o una paghetta maggiormente adeguata ai loro sfizi: stanno protestando contro un genocidio. C’è qualcosa di orribile che non sta succedendo a casa loro, nei loro quartieri, nel centro commerciale dietro l’angolo, nella scuola vicina assalita da quattro psicopatici pesantemente armati, bensì a migliaia di chilometri di distanza, in una zona del mondo che tre quarti dei loro concittadini non sa chiamare per nome, né collocare geograficamente e dove un esercito regolare sta facendo alla popolazione civile qualcosa che neanche la più sanguinaria banda di milizie irregolari ha fatto in cento conflitti più o meno classificati come tali, nell’ultimo secolo.
Invocare la polizia al fine di ripristinare l’ordine, come se gli studenti oltreoceano e ora anche in Europa stessero lavorando per minare le basi della società in cui vivono è indice di stupidità, di un clamoroso vuoto politico e di inventiva, di un’indisponente incapacità di analisi del presente, richiamando parole d’ordine sbirre e patriottarde, che appartengono a un passato che costoro, gli stupidi, gli ignoranti, i ciechi e i sordi – oltre ai loro compagni di merende, i disonesti – vorrebbero che non passasse mai, per poterlo brandire come arma o come vessillo, quanto più a loro pare, piace e fa comodo, a tacitare ogni voce dissonante e disturbante.
E noi che eravamo convinti che fossero fisicamente e mentalmente sclerotici i sessantenni di quando ne avevamo diciotto: il paragone con i nostri coetanei di adesso è, a dir poco, sconfortante.

Cesare Stradaioli

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