QUANDO?

E’ il senso di colpa: da lì si parte e lì si deve ritornare, se si vuole capire. L’enorme, infinito, mai superato senso di colpa che l’Europa prova nei confronti degli ebrei in genere e di Israele in particolare. Per l’Olocausto, per secoli di antisemitismo, di disprezzo, di rancore, di avversione, di sospetto. Si deve per forza di cose pensare – non viene in mente alternativa degna di nota – che sia questo che porti al fatto che oggi, novembre 2023 a Israele, ai suoi governanti, al suo esercito e, perdio! al suo popolo, siano concesse e perdonate cose che a nessuno altro verrebbe concesso e perdonato, neppure al gran protettore che sta al di là dell’Atlantico.
Discutere intorno ai numeri dei morti, dei feriti e di chi viene tenuto in ostaggio non è utile se non ad alimentare la macchina dell’informazione, che non informa un bel niente: qualsiasi ragazzetto dotato di mezzi tecnici appena adeguati è in grado, anche senza essere iscritto all’ordine dei giornalisti, di informare cosa stia succedendo – da decenni – a Gaza e in Cisgiordania. Discutere con chi rivendichi la terra in cui si trova, sostenendo che essa sia stata data in eredità da dio, non è un esercizio inutile: non è nemmeno un esercizio e poiché di qualsiasi libro ritenuto sacro si tratti, pur sempre da uomini è stato scritto, tanto varrebbe sostenere che don Quijote sia una figura la cui vicenda sia stata dettata da dio come monito e guida per l’umanità, se solo Cervantes ne avesse indicato l’ispirazione ricevuta.
Ora, la polarizzazione delle opinioni non l’abbiamo inventata noi. Ma.
NOI abbiamo condannato il massacro del 7 ottobre, nello stesso modo e negli stessi toni con cui abbiamo esecrato gli attentati ai treni in Spagna o nella metropolitana a Londra, ribadendo ora come allora che non esiste lotta di liberazione di sorta che passi attraverso il massacro di lavoratori e studenti che si alzano alle 5 del mattino per salire su un mezzo pubblico ad affrontare la propria giornata.
Da LORO – chi lo sia, lo sa benissimo: non c’è bisogno di spiegare – stiamo ancora aspettando parole di condanna, di compassione, di dissociazione e di alternativa alla carneficina in corso. 
La volontà ci vuole ottimisti, in attesa di quelle parole; l’intelligenza (e la memoria del passato) ce lo vieta.

Cesare Stradaioli

DUE VITE

Chi ebbe l’opportunità di leggerle, non dimentica le parole che scrisse Franco Fortini, in occasione di un tremendo fatto di sangue accaduto nel 1986. In totale controtendenza, come spesso gli accadeva di essere, ebbe parole di pietà nei confronti di un padre-padrone, un bestione semianalfabeta ucciso dal figlio minorenne, vittima delle sue sistematiche violenze, come del resto tutta la famiglia. Accanto alla solidarietà per il giovane – liberatosi di un orrendo peso, si accingeva ad affrontarne altri – Fortini cercò di mettere in evidenza la miserabile vita di un brutale pover’uomo, verosimilmente tirato su a violenze a sua volta e che nient’altro che violenza aveva conosciuto nella sua esistenza.
Oggi – a certi livelli di rapporti personali quell’anno sembra essere stato ieri pomeriggio – un giovane poco più che ventenne, oltre al pubblico e incondizionato ludibrio, si troverà di fronte a un processo e a un’inevitabile, pesante condanna per lo scellerato gesto compiuto. Lascerei stare ovvietà quali considerazioni intorno al fatto che la vita della ragazza è finita, mentre la sua continua: cianfrusaglie dialettiche che a nulla servono e nulla spiegano e molto, per contro, andrebbe spiegato.
Lascerei perdere anche gli strali di loschi figuri televisivi che dal piccolo schermo hanno contribuito a produrre quello schifoso brodo di coltura nel quale è cresciuto, come tantissimi altri suoi coetanei, il giovane omicida: quegli indici che, ghignanti e bavosi, puntano contro il ragazzo, dovrebbero prima di tutto essere puntati verso loro stessi. Come Fortini, io provo compassione per chi ha usato violenza, per chi non è stato capace di comportarsi da essere umano dotato di pensiero; sul cosa, come e perché, in un Paese sedicente avanzato, si sia espressa l’incapacità di rapportarsi in maniera civile con un’altra persona, bisognerebbe dire che sarebbe stato necessario pensarci prima: ed è necessario pensarci adesso per il domani, perché fatti del genere si ripeteranno. Sarebbe da evitare a tutti, magari anche ai parenti delle vittime, la sconcertante litania del dopo, l’indigesto minestrone di lutto ed esecrazione di una società che, per questo e per altri fatti del tutto diversi tra loro, vive in un perenne stato di coazione a ripetere.
Due ragazzi sono state vittime: due vite segnate. Una non c’è più, quanto meno su questa terra: chi lo ritenga opportuno, la immagini come se fosse da qualche altra parte, sotto qualche altra forma, in attesa di un non meglio specificato giorno. L’altra continua, ma in un’alternativa che, anch’essa, non può che suscitare commiserazione; al netto degli anni di carcere che dovrà scontare, se non comprenderà il gesto commesso, quel giovane uomo rimarrà il disgraziato che è: se lo comprenderà – posto che ne abbia gli strumenti adatti per farlo o che qualcuno gliene insegni l’uso – potrebbe trovarsi di fronte a uno sprofondo perfino peggiore della reclusione, specie se accompagnato dal pensiero che non venire al mondo sarebbe stato meglio. Per la società, per se stesso e per la sventurata che ha avuto la sfortuna di incontrarlo.

Cesare Stradaioli

 

UN BEL DOMANI…

Una delle poche cose certe nella situazione che coinvolge Israele, l’Autorità Palestinese e fanatismi contrapposti, insopportabile sia dal punto di vista umano sia da quello politico, è che Benjamin Netanyahu se ne andrà. Il suo nome è indelebilmente legato non solo a una politica sanguinaria, del tutto indifferente ai diritti umani di altri che non siano cittadini israeliani, totalmente prona alle strategie delle fasce più razziste, estremiste e religiose, ma anche di comportamenti eticamente riprovevoli, per usare un eufemismo.
E’ noto da almeno un decennio come l’unica, ma decisiva qualità di questo insignificante ometto (non si ricorda un solo suo discorso che avesse un respiro politicamente appena percettibile, ad li là del giudizio morale sui contenuti), sia stata quella di essere fratello di un tenente colonnello delle forze speciali, considerato un eroe per essere caduto nel 1976 durante l’operazione di liberazione di ostaggi prigionieri in un aereo dirottato a Entebbe. E questo è quanto.
Ma non credano, i solerti sostenitori di Israele in servizio permenente effettivo – il che significa complicità nell’esistenza Gaza come gigantesco campo profughi, nel massacro di civili come ritorsione, nella distruzione delle scuole di ogni grado (e poi si lagnano che i palestinesi non abbiano una classe dirigente all’altezza: de dove dovrebbero studiare, per corrispondenza?) e in tutte le altre porcherie commesse – di cavarsela avendo individuato nel babau cattivone Netanyahu, ormai disprezzato e sputtanato pressoché ovunque nella comunità internazionale, l’unica ragione di quello che sta succedendo. La politica israeliana ha radici lunghissime, complicità radicate ovunque; il tentativo di fare ricadere tutta la responsabilità della tragedia palestinese (incluso il fatto di avere Hamas come referente) su un premier che fino a prova contraria non è al potere grazie a un colpo di stato bensì dopo regolari e ripetute elezioni (le centinaia di migliaia di manifestanti suoi oppositori, dove sono quando ci sono le urne aperte?) e su una cricca di razzisti fanatici religiosi che sostengono i coloni fascisti, appare come la solita, vecchia e ritrita arma di distrazione di massa.
Da sempre Israele gode di finanziamenti a fondo perduto, sia militari sia medici, di una solidarietà in larghissima parte comprensibilmente basata sull’infinito senso di colpa europeo per la Shoah e di una sostanziale impunità per qualsiasi atto politico o militare compiuto; non riconosce alcun tribunale internazionale, delle risoluzioni ONU fa l’uso che Totò consigliava al colonnello inglese a proposito del fatto di avere carta bianca e, tanto quanto l’Iraq di Saddam, nega agli ispettori delle Nazioni Unite l’accesso e il controllo del suo arsenasle nucleare. Il ritiro a vita privata – e, forse, in qualche carcere per corruzione – di Natanyahu non risolverà un bel niente: gli succederà un altro leader del tutto sottomesso a ben altri poteri, conscio – se ha appena un po’ di giudizio – di essere il prossimo capro espiatorio in pectore, e tutto cambierà affinché nulla cambi: almeno fino a quando, auspicabilmente con le buone, Israele non verrà ricondotta o ci andrà di propria iniziativa, a più miti consigli. Diritti, come tutti gli Stati sovrani: e doveri, allo stesso modo. Niente di più e niente di meno.

Cesare Stradaioli

 

QUALE MESSAGGIO

Parafrasando Marshall McLuhan – che si riferiva al mezzo, ai media – la legge è un messaggio: ogni legge lo è. Il semplice fatto di porre una statuizione, un precetto, un divieto e relative sanzioni porta con sé un intento espresso da una volontà popolare ovvero da un ristretto numero di persone che si trovano alla guida di uno Stato, il tutto a prescindere sia dal meccanismo che porta all’entrata in vigore di una norma, sia dal contenuto della stessa.
Sulla base di questo ragionamento piuttosto elementare, non dandosi alcuna norma senza un preciso intento, è da chiedersi quale sia il messaggio sotteso a un auspicato inasprimento delle pene per l’omicidio di esseri umani di sesso femminile. Cosa ci vuole dire il Parlamento, sedicente rappresentante del pensiero e delle aspirazioni dell’elettorato, di più rispetto al precetto accettato da chiunque secondo il quale togliere la vita a una persona sia, in linea di principio, condannabile da qualsiasi ordinamento giuridico? Vediamo la norma, articolo 575 del codice penale: “OMICIDIO. Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno.” Qualche considerazione.
Il precetto è rivolto a chiunque e sanziona il togliere la vita a un essere umano. La pena edittale non sembra particolarmente draconiana, considerato che si tratta di un codice entrato in vigore nel 1931 e quale epoca storica fosse non c’è necessità di ricordarlo. Esistono le circostanze attenuanti e aggravanti: esaminiamo le seconde, in sintesi, qualificate all’articolo 61 del codice penale come comuni cioè in vigore per ogni tipo di reato; l’avere agito per motivi abietti o futili, con sevizie o crudeltà, approfittando della minorata difesa della vittima, tentando di aggravare le conseguenze del reato, commettere il reato con abuso di potere ovvero rivestendo una particolare qualifica (essere un pubblico ufficiale, avere un rapporto di relazioni domestiche con la vittima, essere la vittima minore ospite in particolari strutture, dunque con particolari obblighi di custodia e tutela). Una sola di queste circostanze può aumentare la pena di un terzo; per quante siano, comunque, la pena non può superare gli anni trenta e già qui siamo in presenza di una risposta penale piuttosto forte.
Il codice prevede poi quelle cosiddette speciali, nei casi di omicidio di genitori, figli (entrambi anche adottivi), fratello e sorella, coniuge anche separato, persona convivente e/o legata da relazione affettiva e contro il coniuge anche separato, con premeditazione, con uso di veleno (particolarmente in voga all’epoca).
Ciascuna di queste circostanze aggrava la pena da ventiquattro anni all’ergastolo (articoli 576 e 577 del codice penale).
Poiché non è nemmeno da prendere in considerazione la sola idea che la vita di una donna valga più di quella di un uomo, al punto da necessitare una risposta sanzionatoria maggiormente punitiva, non rimane da concludere che una legislazione più repressiva dei cosiddetti ‘femminicidi’, rappresenti un’urgenza, una necessità. C’è qualcuno, dotato di un minimo di ingegno e magari di informazione di cronaca, che non avverta come allarme sociale il numero di donne uccise dal compagno, marito, amico o chiunque altro si voglia? La domanda è retorica, ma volontariamente insinuativa: chiunque brandisca questo fenomeno per essere legittimato a introdurre sanzioni penali più forti sta giocando sporco, sia con gli elettori sia soprattutto con l’universo femminile e questo fondamentalmente per due motivi; anzitutto, perché si tratta di manovre scopertamente tese a ramazzare consenso elettorale e in secondo luogo perché, a dispetto di pressoché unanimi statistiche, che suggeriscono e perfino gridano la sostanziale inutilità di pene più severe in mancanza di un serio e concreto cambiamento dei sistemi educativi e sociali in questo Paese – gli omicidi, tentati o consumati non sembrano per nulla in calo –  scantonano il problema e spostano l’attenzione intervenendo sulle fogne, quando l’inquinamento è già avvenuto e continua nel suo ciclo, invece di farlo a monte, là dove il tutto si produce.
L’inasprimento delle pene raramente ottiene il risultato di avere una diminuzione di questo o quel reato: se i reati contro il patrimonio sono in aumento, ciò avviene a causa di profondi disagi in una società che da lungo tempo, a scuola e in chiesa, insegna a non rubare e furono facilissimi profeti coloro che, a fronte dell’innalzamento delle sanzioni, ammonirono sulla loro scarsissima incidenza.
Dunque, qual è il messaggio sotteso alla proposta – da qualsiasi parte provenga – di inasprire le pene per i femminicidi? In attesa che i proponenti si liberino dalle parole d’ordine, ognuno legga quello che crede: pare piuttosto evidente, però, l’intento di rimandare a data da destinarsi anche solo l’abbozzo di un cambiamento radicale del sistema sociale, economico e infine educativo.
Nel frattempo, le fogne funzionano a pieno regime.

Cesare Stradaioli

 

IL DIRITTO DI VIVERE COME FIABA MODERNA

Nel magico Mondo delle Favole, l’insieme dei Paesi cosiddetti ‘occidentali’ – categoria che racchiude gli stati in cui vige in beata solitudine l’economia di mercato – esistono narrazioni che sfidano l’immaginario più sfrenato, con una sostanziale differenza: i bambini a una certa età smettono di credere a Babbo Natale o al dentino sul davanzale che porta notturni denari in cambio, mentre gli adulti vivono un’infanzia che pare infinita, rapiti da racconti a paragone dei quali tutto l’insieme di dicerie intorno alla Befana assume l’aspetto di una robusta teoria generale.
Il racconto è semplice e deve esserlo, poiché un sovraccarico di dati, notizie, specificazioni, particolari, porta inevitabilmente alla più classica delle domande: perché? Il che, per l’appunto, avviene in qualsiasi famiglia, dato che il bambino non si accontenta che gli si dica che la Befana o il barbuto con le renne sono quello che sono a basta. Vuole molto di più e fa parte del gioco accontentarlo. La semplicità della narrazione tipica dell’economia di mercato esclude qualsiasi richiesta di chiarimento: ciò rende estremamente più facile introiettare i concetti base. Dire troppo fa correre il rischio di dire la cosa sbagliata: ci pensano le solerti guardie del neoliberismo a chiudere tutti i discorsi. Il mercato è quello che è, tanto quanto il sistema solare, chiaro netto e indiscutibile e tanto indiscutibili quanto la pioggia che rovina il pic nic programmato, sono le manifestazioni di un sistema economico essenzialmente umano, come tutte le cose dall’uomo create.
Una delle gag più significative di Angelo Cecchelin, quasi dimenticato attore comico triestino, fortemente inviso a qualsiasi forma di potere (conobbe il carcere durante il fascismo e anche nel corso della breve occupazione titina: succede, a non essere condiscendenti) non richiede traduzione; “Quando che stago mal, vado dal medico, perché el medico gà dirìto de vivere; e quando el medico me dà la riceta, vado dal farmacista, perché el farmacista gà dirìto de vivere; e quando el farmacista me dà le medicine, le butto nele scovazze, perché ancha mì gò dirìto de vivere.”
In sintesi, la narrazione. Aumenta il prezzo delle materie prime per chi acquista energia a livello internazionale; la società (pubblica e/o privata, o entrambe le cose) affronta costi maggiori, quindi inizia tutta una catena di aumenti, uno per ciascun soggetto che interviene nel ciclo del petrolio, tanto per fare l’esempio più classico, dal gestore dei noli navali per il trasporto dei greggio, al porto di arrivo, alla raffineria, all’articolato che trasporta la benzia, fino al distributore.
Ognuno di costoro spende di più e chiede di più a chi viene dopo, in base al diritto di vivere su cui ironizzava Cecchelin.
L’unico che non sembra godere del medesimo diritto, è il cittadino, il quale pure deve sopportare aumenti (del carburante per la propria auto, per i camion che portano al mercato tacchi dadi e datteri, per i mezzi pubblici, del gas a casa per il caffelatte al mattino e la minestra alla sera e così via), ma essendo l’ultimo della fila, deve tacere e pagare. Senza fare domande, che non sono ammesse.
Logica vorrebbe – lo prescrive anche la nostra Costituzione –  che essendo tutti noi parte di una società (in fondo anche al più thatcheriano classe media inglese, in caso di bisogno – proprio: gli altri non esistono – viene spontaneo chiamare la polizia o il pronto soccorso), una faccenda come il pesante aggravio di vita a causa del crescente costo dell’energia fosse equamente suddivisa fra tutte le categorie sociali. Tale logica, però, che peraltro riposa su una convenzione che parla di uguaglianza e solidarietà (anche l’affermazione che tutti gli uomini sono uguali fra loro è frutto di una convenzione, astrattamente soggetta a essere modificata o totalmente emendata da una maggioranza parlamentare pro tempore), va a sbattere contro la narrazione infantile della ineluttabilità del mercato e delle sue regole, che nella sua semplicità sovrasta la più fantasiosa, immaginifica e coinvolgente delle favole. Qualcuno (saranno in quattro-cinquecento individui a staccare cedole, dal momento in cui il greggio riempie il barile fino al pieno di benzina?) ci guadagnano un’esagerazione, moltissimi poco e quasi tutti ci perdono.
Uscito vittorioso dai reflui del ’68, il Moloch del mercato è definitivamente fuori dalle cantine del ghetto: se la carrozza che diventa zucca o la fata dai capelli turchini dispongono dei primi anni di vita (salvo eccezioni per niente rare e poco eccezioni), il mostro si prende tutto il resto dell’eststenza di ognuno e il posto del cugino o dell’amico più grande che ti aprono gli occhi sulla strega che in realtà era tuo zio travestito da megera e ul vecchio barbuto rimbambito con i colori della Coca-cola è preso da una congerie di truppe cammellate (la Sinistra europea guida un reparto particolarmente addestrato) che dal titolo di una testata, da una cattedra universitaria o da uno scranno parlamentare o comunale continuano a raccontare la stessa tiritera: è così perché è così e non ci si può fare niente.
Alla quale tiritera, però, manca il lieto fine di ogni fiaba che si rispetti: pochi, vivono felici e contenti.

Cesare Stradaioli

 

QUALCOSA DI DIVERSO

Madamine, il catalogo è questo: quasi tutte le regioni, migliaia di comuni e ora anche il governo centrale. Con annessi e connessi, vale a dire le prime più importanti nomine  nel nostro Paese: Enel, Poste, Terna, Leonardo eccetera. La Destra, la peggiore, la meno presentabile, la più cafona, ignorante, paracula (il liberismo abita altrove) è arrivata dove molti non ritenevano possibile; con una donna, per di più, il che è qualificante – essere riconosciuta in un ambiente politico e da un elettorato fortemente maschilista dovrebbe fare seriamente riflettere coloro che a Sinistra perdono tempo con l’identità di genere, mentre tralasciano la parità di retribuzioni – ed è, comunque, quello che E': non quello che NON è, parafrasando Don Winslow.
Qualche tempo fa un amico e confidente, obiettando a qualcuno che faceva osservazioni sull’infima qualità politica dei componenti la compagine governativa, rispose più o meno chiedendo all’interlocutrice se li avesse visti bene in faccia. Vanno facili le battute tranchant, di questi tempi e questa era perfino acuta: se non che, si direbbe che siano loro, lorsignori ministri e reggiborse, a non vedere noi e anche questo darebbe da pensare, soprattutto in punto di rappresentanza.
La questione, se possa essere lecito usare questo termine, è piuttosto semplice: o si gioca a questo gioco, oppure ci si chiama fuori e motivi per chiamarsene fuori ce ne sono quanti se ne vuole.
L’aggettivo ‘rappresentativa’, riferito alla democrazia di cui si cinge la fronte l’Occidente ha da svariati decenni perso qualsiasi significato concreto, perfino nei  consigli di quartiere, posto che esistano ancora; là dove sia in corso un progressivo e, al momento, non reversibile processo di concentrazione della produzione e della ricchezza in pochi ristretti circoli, la cui prima e fisiologica conseguenza si chiama disuguaglianza crescente (e questo aggettivo sì che è kelsenianamente effettivo) e la cui narrazione è normalizzata in quanto ‘normale’, è evidente come qualsiasi esigenza che provenga dal cittadino (singolo o associato) sia destinata, nella migliore delle ipotesi, a fare parte di raccolte inascoltate. Detta in sintesi: il cittadino non ha voce in capitolo praticamente su niente. Associazioni, comitati, movimenti sembrano fare parte di un catalogo di scatole da scarpe vuote; quanto al Sindacato, la sua presenza lo rende capace di indire uno sciopero di grado non superiore al sottotenente. Del resto, l’appartenenza a un’unione europea che sanziona gli “aiuti di Stato”, tracciando così una linea di disprezzo verso la natura stessa derl consorzio civile – e, per inciso, della nostrsa Costituzione – è qualcosa che si commenta da sé.
Detto tutto ciò, chi intenda partecipare al gioco e abbia forza e determinazione per opporsi a questa indecente accozzaglia di politici da operetta, che malgrado tutto provano a governare il Paese, dovrebbe avere capito che la cosa si fa in un solo modo: proponendo idee proprie e smettendola di essere subalterni a chi si trova all’esecutivo. Trainare: mai andare a rimorchio. Significa incalzare il governo ogni giorno; insistendo su qualsiasi tema, problematica, situazione; studiando attentamente il percorso – se ve n’è uno – di chi ha ricevuto l’incarico dal Colle, aderendo se del caso a tutte le iniziative ritenute positive e, sistematicamente, a ogni decreto legge o anche solo proposta in Commissione, proporre una versione alternativa, propositiva, costruttiva. Di attacco, senza tregua, senza quartiere. In altre parole: fare il governo ombra, presentando i vari dicasteri, competenza per competenza e titolare per titolare, i quale ultimo avrà la responsabiltià – per il proprio dicastero – di prendere la parola e intervenire a nome dell’esecutivo dell’opposizione.
E la piantassero di abboccare a ogni esca, a ogni arma di distrazione di massa. Questa Destra avrà molti difetti, ma qualcuno fra loro ha capito benissimo la lezione berlusconiana: porta sempre l’attenzione altrove, specie nei momenti difficili. Non essendoci più l’uomo dai mille volti, ecco che spuntano figli accusati di stupro, signore alle quali non si affiderebbe la gestione di una merceria che berciano di impresa, graduati che strascrivono, sedicenti esperti d’arte che dicono parolacce da ritardati mentali, mariti che blaterano, ministri analfabeti.
Potessi parlare ai rappresentanti dell’opposizione seriamente intenzionati a esserlo e non solo a sembrarlo, questo direi loro: non ascoltateli. Non commentateli. Non giudicateli. Non date loro spazio. Non sporcatevi le scarpe nel loro letame. Non fatevi portare a spasso. Fateli morire di inedia comunicativa. Siate VOi a prendere loro per sfinimento, non il contrario, come avviene da decenni; costringeteli a ripetersi, ad alzare la voce, a sbraitare, esasperateli evitando il dialogo sulle cretinate e riportate SEMPRE gli argomenti veri al centro del dibattito. Costoro non hanno la stoffa dei veri, onesti reazionari di un tempo i quali, qualche libro avendolo letto, sapevano come dire e non dire, fare e non fare. Questi non sanno dire niente, non sanno fare niente: VOI, fateglielo notare ossessivamente, instancabilmente, ripetutamente. Fate in modo che le vostre voci e le vostre parole diventino un refrain per chi vota e soprattutto per chi non vota.
Fate qualcosa di diverso, insomma.

Cesare Stradaioli

SE LA MERITINO, LA LIBERTA’ DI OPINIONE

Nel nostro sistema, ognuno ha il diritto di esprimere le proprie opinioni. La considerazione, in sé, è piuttosto banale, dal momento che in quest’epoca storica è pressoché impossibile vietare alcunché di scritto, sotto qualsiasi forma, sicché questa benevola concessione della democrazia rappresentativa (servirebbe un gerundio ipotetico, però) appare obbligata tanto quanto il buongiorno della buona educazione, che spesso nasconde il niente che c’è dietro.
Tuttavia, poiché i generali dell’esercito sono tutti uguali fra loro ma qualcuno è più uguale degli altri, si potrebbe dire che sì, un qualsiasi imbecille ha il diritto di rivolgersi all’universo mondo o alla cerchia di amici e parenti, sostenendo che la Terra sia piatta o che negri, donne e omosessuali andrebbero rimessi al posto che compete loro; ma la società che deve sopportare la sua presenza (siamo contro ogni forma di discriminazione; fossero al potere quelli che oggi simpatizzano con il suddetto generale, l’imbecille di cui sopra potrebbe continuare a blaterare le proprie scempiaggini: ben altri pensieri sarebbero censurati e repressi) ha il corrispettivo diritto e il più urgente dovere di rimandarlo a scuola o in qualsiasi altra situazione didattica, al fine di impartirgli quel minimo sindacale di una materia di insegnamento alquanto carente nella società in cui viviamo, vale a dire la scienza.
Che, come diceva Pupetto di Montmartre, “va premiata”.

Cesare Stradaioli

IL PIFFERAIO SULLA LUNA

Se la Destra fosse al governo si potrebbe conversare amabilmente, incrociando e confrontando le opinioni, su cosa stia facendo per il Paese. Al governo, però, non risulta essere; più aderente allo stato dei fatti sarebbe dire, che so, che la Destra si diverte, la Destra va al mare, la Destra gira il mondo – Meloni dimostra un’invidiabile resistenza alle fatiche da fuso orario – la Destra e il caos calmo, la Destra e il Tesoro del Sultano, la Destra alla ricerca della Fonte Magica e così via. Malgrado ciò, riesce a mettere in pratica (non serve una particolare abilità: l’opposizione presta supporto, tanto scellerato quanto gentile ed è gentilissimo) quello che il pregiudicato de-cavalierato è stato in grado di fare per quasi trent’anni: a Roma direbbero buttarla in caciara, ma uscendo dal regionalismo appare piuttosto efficace anche la figura per nulla retorica del calciare la palla in tribuna.
Ossia: cavarsela scatenando un assordante scontro di piume in alta quota sul fatto che venga colpito l’omino che si aggira per gli spalti vendendo birre e barrette di cioccolato. Ecco la dimostrazione di quanto l’attuale esecutivo (che non esegue un bel niente ma la formula funziona sempre e poi, parafrasando Napoleone, i politici si medagliano con le etichette, come la Coca Zero o Light) si dimostri nemico dei lavoratori: prendersela con un povero diavolo che lavora, tirandogli addosso un pallone da football, sicuramente prodotto in qualche provincia indonesiana da bambini sfruttati e certamente molestati. Uscendo dalla metafora, ormai dovrebbe essere chiaro a chiunque voglia vedere come la principale e più risolutiva fra le sconcezze realizzate dal berlusconismo sia stata quella di deviare sistematicamente l’attenzione di elettori e soprattutto antagonisti dalla realtà alle vicende giudiziarie del capo.
Ciò aveva e ha ottenuto con lode due obbiettivi, fra loro complementari e inscindibili (l’uno senza l’altro non camminava): attaccare la Magistratura con la scusa delle sue intromissioni – a volte vere: la supplenza di un Potere su un altro non è mai una bella notizia – nella politica ma, nella realtà, con l’intento di fare esattamente quello che sosteneva di subire, vale a dire ricondurla al proprio controllo; tramite questo attacco, indirizzare l’attenzione collettiva su decine e decine di indagini, perquisizioni, ordini più o meno restrittivi, processi, condanne, assoluzioni e prescrizioni (le quali ultime due, con buona pace dell’avvocato e senatore Giulia Bongiorno, ascesa alla fama per quell’esclamazione che in una sessione di esami di Procedura Penale le sarebbe costata l’allontanamento, anche in malo modo) non sono per nulla equivalenti e questo con la specifica finalità di confiscare l’attenzione intorno al malgoverno pubblico e più che egregio governo ad personam che veniva praticato. E così, il cosiddetto cittadino medio e il politico di Sinistra si trovavano subalterni alla discussione sul fatto se una giovane prostituta nordafricana fosse nipote di qualche capo si Stato o se avesse ragione l’ex consorte del Presidente del Consiglio in merito a una presunta crisi satiriaca del marito a effetto prolungato: il tutto, mentre il dissesto economico (e non solo quello) procedeva ventre a terra.
La Destra che ha portato per la prima volta una donna a Palazzo Chigi (e, lo si tenga a mente, un’altra che si arrampica sull’orologio della storia per riportarlo al Medioevo, un vero scaracchio in faccia a storici e illustri militanti dello stesso partito quali Adele Faccio o Mauro Mellini per citarne solo due), mette in pratica la medesima tattica: oggi le vicende di una signora che, essendo in debito con l’Erario di qualche milione, non dovrebbe essere ministro, ma siamo nel Terzo Millennio e sono saltati gli schemi; ieri la seconda carica dello Stato si permette di rimproverare una Procura che sta indagando su suo figlio; nel frattempo, c’è un ministro, componente della giuria di un importante premio letterario che ammette di non avere letto i libri in gara (e per fortuna che non gli è stato chiesto se, a parte quelli, in vita gli sia mai capitato di aprirne uno); un altro, bavoso e rancoroso nonché sedicente ammiratore di un cantautore e uomo di profondo pensiero, delle cui poetiche deve essergli sfuggito qualcosa, a parte il la-la-la-la-lala-lala, noto ritornello a proposito di uno che sorride ai gendarmi in sella e con le armi; non manca quello che dice colossali bestialità vagamente nazistoidi (ma in fondo, forse, non così tanto vaghe) su una non meglio chiarita sostituzione etnica – il pover’uomo si opponeva a quelli che volevano collocare il Vesuvio in Sicilia e le sue parole sono state, come di consueto, male interpretate ovviamente per ragioni strumentali, qualsiasi cosa significhi questo termine che piace molto a chi non sa cosa dire e via di questo passo.
Non è questo, il grave. Non è grave che un imbecille si alzi a dire che la Terra è piatta o che i sardi sono scimmie – su sessanta milioni di teste ce ne sarà qualcuna che non funziona: è grave che nessuno gli dia due sberle o almeno lo zittisca, possibilmente in coro. Che una compagine politica, finalmente seduta nella stanza dei bottoni si renda conto che non ve n’è l’ombra (e sta a vedere che li davano a voi…) e che disperatamente cerchi, con l’appoggio quasi incondizionato di una stampa svergognata e complice, di sviare l’attenzione dal fatto che non sa o non vuole (scelgano loro) occuparsi di lavoro, povertà, diseguaglianze, politica estera – che oggi significa no alle forniture militari – scuola, sanità pubblica, ambiente e che a tale scopo mandi avanti questo o quel soldatino (il vero padrone delle ferriere politiche ha avuto la pessima idea prima di invecchiare e poi di morire) alla stregua delle truppe d’assalto nelle battaglie del XVIII Secolo, mettendo così in pratica un metodo curiosamente simile in punto di risultati ottenuti alle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam, è solo una delle due facce della medaglia; l’altra, quella peggiore, è che l’opposizione di ogni gradazione e composizione cada nella trappola con scarpe, cappotto e cappello, perdendo tempo invece di fare quello che una vera opposizione dovrebbe fare: opporsi costruendo, proponendo, agendo, prendendo l’iniziativa uscendo dalla subalternità.
Il pifferaio suona e i topolini che rimuginano torvi fuori dal governo gli vanno dietro. Non solo non guardano la Luna: non si accorgono neppure di chi sia il dito – e di quale dito della mano si tratti.

Cesare Stradaioli

 

E ADESSO, POVERI UOMINI E DONNE?

Che gente è, questa?
Che partito è, che movimento, quale formazione è quell’insieme di individui, donne e uomini, che ballonzolano di qua e di là nel laghetto della politica italiana?
La spinta propulsiva, umana, sfacciata, corriva ma indubbiamente forte, energica, di un personaggio come Silvio Berlusconi ha dato vita a una forza di governo, locale e nazionale, che necessariamente non poteva fare a meno della sua presenza, per consolidarsi – e, sì, radicarsi, con buona pace di coloro i quali si sono intestarditi a vedere il lato ludico e buffonesco di un imprenditore lombardo, avvezzo a trattare con chiunque, poiché chiunque è, prima di ogni altra cosa, cliente, abbonato, votante – catalizzando il voto di milioni di cittadini nel corso di un trentennio.
L’uomo era da tempo gravemente malato: di fatto, già fuori dai giochi politici, per quanto apparisse evidente dall’ultima voltsa in cui è stato a Palazzo Chigi come l’unico suo interesse, una volta guastata la società italiana, piegandola ai suoi interessi politici e soprattutto mercantili, fosse quello di avere piena tutela del patrimonio di famiglia, il potere mediatico del suo impero televisivo. La sua morte, tuttavia, sembra avere gettato nel panico, temperato dallo sconforto, centinaia, forse migliaia di persone che nel suo nome e sotto le bandiere del partito-azienda da lui creato hanno esercitato e tutt’orta esercitano funzioni pubbliche e istituzionali.
Senza una guida, senza un volto, senza uno spessore, privi la maggior parte di loro di un minimo sindacale di preparazione in tema di dottrine politiche e scienza dell’amministrazione – succede, a voler gestire una formazione politica, chiamata partito o come meglio pare e piace, senza un congresso, una segreteria, una linea politica che non sia la mera presenza in video del padre-padrone – costoro vagano caracollanti per gli uffici, per le assemblee nazionali e locali e per gli studi televisivi (in radio serve conoscere la voce e nessuno di loro ne possiede una immediatamente identificabile), di fatto ignorati in Europa, come era ignorata l’inconsistente figura dell’attuale ministro degli Esteri, mal sopportati dalla destra di governo che non vede l’ora di riempire il carrello elettorale con i voti degli orfani del pregiudicato per evasione fiscale. Triste e ridicola nemesi per un partito fondato sui messaggi pubblicitari del prosciutto e dei mulini bianchi. La gente accorre dove ci sono le offerte speciali strillate dagli altoparlanti e non si può pretendere fedeltà ai prezzi variabili.
La domanda, generata da più che legittima perplessità, che poi ne fa nascere un’infinità di altre, rimane: che gente è, questa?
Sono amministratori affidabili? Sono attendibili servitori dello Stato, in grado di fare fronte ai requisiti richiesti dalla Carta Costituzionale, disciplina e onorabilità? Sono capaci, competenti, disinteressati in modo accettabile, disposti al dialogo, alla mediazione, all’incontro piuttosto che allo scontro, padroni dei propri atti e capaci di assumere responsabilità?
Come abbiano ridotto il nostro Paese in trenta anni, costringe a rispondere in maniera negativa a tutte queste domande. Già di suo predisposto a seguire l’uomo forte, gravemente carente sotto il profilo della memoria, così tanto cattolico da essere diventato pochissimo cristiano, pur sempre un elettorato ha scelto i loro nomi. Abbiamo visto presentatori televisivi, soubrette, urlatori d’asta, imbonitori, schiamazzanti bavosi, critici di qualsiasi cosa, docenti sputtanati, rivenditori di polizze vita e i risultati sono sotto gli occhi di chiunque goda di vista e olfatto appena discreti. Volendo vedere in ciascuna donna, ciascun uomo il merito, la capacità, lo spirito di iniziativa, la lungimiranza, l’interesse per la cosa pubblica, quando ognuno di loro, a immagine e somiglianza del sommo Mentore – nonché instancabile erogatore di prebende: il pover’uomo veniva disturbato da incazzose ragazze anche in piena notte, non era arrivato il bonifico – è stata mandata al potere, locale e nazionale, un’insipida compagine di ragazzini mai sufficientemente cresciuti e discretamente maleducati che adesso, sconcertati, si guardano intorno non sapendo cosa fare e come decidere.
I cantori del noto defunto sghignazzano, domandandosi come camperanno adesso gli antiberlusconiani: come ha giustamente osservato Marco Travaglio, dovrebbero preoccuparsi di come camperanno LORO, senza più il patriarca a dettare la linea e a pagare stipendi, affitti e svariati extra.

Cesare Stradaioli

BEN VENGANO I NOSTALGICI

Finiremo con dover riconoscere una certa gratitudine al presidente del Senato e ad alcuni dei suoi simili. Grazie a loro, ai loro interventi pubblici, alle loro prese di posizione e all’evidente e assolutamente consapevole assenza di qualsiasi forma di (auto)critica a proposito del loro pensiero politico e dal passato che l’ha generato, pare di poter dire che sia sotto gli occhi di tutti coloro che intendano vedere anche cose sgradite, come permanga piuttosto in buona salute una tara genetica che grava su tutti coloro che vivono all’interno di questo Paese, mal formato, male combinato e ancor peggio ristretto in confini alle volte di natura puramente geografica.
Considerazioni che trovavamo già svariati decenni fa negli scritti, fra gli altri, di Umberto Eco a proposito del perenne fascismo che vive attorno a noi, nelle nostre istituzioni, nelle persone che le guidano, nei comportamenti di tutti i giorni di coloro che hanno il nome sul campanello a fianco del nostro: predisposizione ad avere una guida unica, quello che una volta si chiamava ‘uomo forte’, pervicace tendenza all’individualismo corretto dal malanimo reciproco – che facilita due tratti fondamentali del fascista: conformismo e delazione – un baco intrinseco al nostro sistema immunitario sociale, che a buona ragione può essere definito razzismo (dovessimo ritenere razzisti solo coloro che ne fanno pacifica dichiarazione, restringeremmo il campo a Franco Freda e pochi altri seri cultori della supremazia bianca) e una tragica perdita di memoria, caratteristica negli ultimi quarant’anni fortemente incrementata dalla televisione e dalla pubblicità.
A coloro i quali, da oltreconfine, si preoccupano se per caso il fascismo non stia tornando oppure che rispetto a tale manifestazione non appaia opportuno dare un rilievo che in realtà non merita, va risposto come non sia possibile che qualcosa o qualcuno torni, non essendosene mai andato. Magistratura e apparato burocratico, corpi di polizia e militari, intere classi di docenti dalle scuole d’infanzia fino all’università, le classi agrarie e industriali; insomma le formazioni che innervano uno Stato furono appena leggermente sfiorate da quella catena di avvenimenti storici iniziata l’8 settembre del 1943, passata per la Resistenza, la fine della guerra, l’introduzione della Repubblica, per finire con la promulgazione di una nuova Carta Costituzionale, talmente antifascista nelle belle e un po’ compiaciute menti degli estensori da non portare a che l’aggettivo diventasse plastico sostantivo da racchiudere in un apposito articolo a fianco dei 139 presenti (errore di portata incalcolabile: ma i gentiluomini non sempre vedono lontano e la buona fede della più gran parte di quelle persone era fuori discussione); già negli anni ’50 un fenomeno storico e sociale frutto di un’elaborazione politica squisitamente italiana – più volte eminenti rappresentanti del III Reich ebbero a dichiarare il loro debito politico verso il Fascismo – veniva ridotto, ridimensionato, riscritto, rivisitato; il temuto revisionismo storico che viene paventato oggi aveva già mosso i propri, pesantissimi passi nemmeno trascorso un decennio dal 1945.
Non solo le atrocità del regime, le leggi razziali, il conflitto mondiale cui l’Italia prese parte, la fine delle libertà, i tribunale speciali, le condanne a morte, l’arretramento culturale e le conseguenti distruzioni sociali vennero sbrigativamente e a voce quasi unica trasferite e ascritte alle scelleratezze di un caporale semianalfabeta, dei suoi quattro scagnozzi con seri problemi di regressione anale e a un intero Paese che, da culla del pensiero riflesso pareva precipitato in un pozzo nero di disumanità; il Fascismo divenne poco più che una ragazzata, con qualche esagitato che c’era andato giù un po’ pesante, le simpatiche sfilata del sabato, tanta ginnastica, l’italianizzazione delle parole anglofile (e dire che, in qualche misura, servirebbe oggi), svariate tonnellate di figli in più che gonfiarono a dismisura la demografia di un Paese che a stento emergeva da una prima guerra costata vite e patrimoni e che provava a essere una entità industriale. La presenza, appena dietro l’angolo, del pericolo comunista faceva la propria parte nell’edificazione del dimenticatoio.
Nel frattempo, per larghissime zone della regione in cui è cresciuto chi scrive il 25 aprile era, rimase e tutt’ora è la celebrazione di San Marco e non qualcosa d’altro, i fascisti erano sostanzialmente dei fanfaroni – i tedeschi, invece, erano tutti nazisti e perciò stesso stupidi, vedi il normotipo dei film di guerra, tipica riduzione culturale americana – i treni si riteneva fossero stati fatti arrivare in orario ma la censura operante lascia dubbi in proposito, Mussolini fu uno statista ardito, forse un tantino eccessivo in determinate manifestazioni (avesse avuto tre canali televisivi, impallidirebbe il consenso di piazza Venezia) con qualche buona intenzione ma, ahilui, mal consigliato e che si affidò a cattive compagnie, il tutto senza tenere conto del fatto che l’amministratore delegato di una multinazionale qualsiasi sarebbe silurato all’istante e cadrebbe nell’oblìo manageriale se commettesse tali sesquipedali errori nella scelta di collaboratori e interlocutori: in definitiva, non lo lasciarono lavorare – l’abbiamo già sentita, questa. Avesse avuto l’arguzia di un Francisco Franco, che mantenne la Spagna cautamente e discretamente lontana dal nazismo e dalle sue peggiori esplicazioni, per poi lucrarne potere, consenso e durata nel tempo, oltre a evitare piccoli intoppi quali la partecipazione a un conflitto…
Alla banalizzazione del fascismo contribuì anche la Sinistra ufficiale: la sistematica e doverosa difesa dei principi della Resistenza, portò in primo luogo a negare l’evidenza e cioè che pur sempre di guerra civile si trattò, se le parole hanno un senso e se quel termine possa essere usato quando connazionali prendano le armi da due fazioni contrapposte e portatrici di ideali del tutto inconciliabili fra loro, con l’unica soluzione della vittoria di una delle due. Seguì poi il silenzio sulla tragedia umana delle foibe: contrasti mai chiariti, ferite rimaste aperte e/o, in ultima analisi, formidabili sensi di colpa, indussero a tacere su un fenomeno intorno al quale qualsiasi vecchio triestino non intossicato da preconcetti sa benissimo riferire (in quanto a sua volte tramandatogli dalla memoria degli anziani) come un costume esistente da secoli, che portava qualcuno a buttare qualcun altro in quegli orridi, anche per semplici dissapori familiari. Coloro che, in materia, sanno di cosa parlano, ipotizzano la presenza di migliaia e migliaia di scheletri, persone senza nome che non saranno mai recuperate e che, in gran parte stanno lì da sempre: ma la memoria alimentata solo dalla Destra, parla solo delle vittime dei soldati di Tito (non pochi comunisti, fra le prime).
Negare l’evidenza prima o poi fa in modo che la Storia presenti il conto, sotto forma di mancanza di credibilità; quanto al silenzio, nel caso delle foibe non solo coprì anche le malefatte dei fascisti italiani in Jugoslavia (non si può, logicamente, attribuire a qualcuno l’inizio di un fenomeno successivo, della cui esistenza però si tace), ma dette modo ad alcune canaglie della destra odierna di poter blaterare a campo aperto, praterie di fronte e microfoni a palla su cose in merito alle quali starebbero zitti se ne avessero la relativa dignità (la Risiera di San Sabba, a pochi chilometri di distanza, è stato l’unico campo di sterminio in Italia: qualche brava persona provi a chiedere in giro se qualcuno al di fuori della sempre amata città ne ha sentito parlare). Parlare delle foibe, mettere in rilievo i fatti storici è prima di tutto espressione di onestà intellettuale: in secondo luogo è anche buona politica che, una volta attuata con tanto di nomi, cognomi e responsabilità, cagionate delle malefatte di cui sopra, avrebbe messo le suddette canaglie nella condizione di trovarsi in mano un’arma scarica (o un pene in deiezione: nell’iconografia machista del Fascismo i due accidenti presentano notevoli analogie).
Così non è stato e, rimbalzando sulle acute osservazioni di Eco, siamo qui a dare atto che le intemerate uscite di gente più adatta al bar sport o al cazzeggio da aperitivo piuttosto che a governare un Paese (o anche solo una merceria), potrebbero essere in fin dei conti utili a capire qualcosa in più sulle persone che abitano questo Paese, su cosa pensano, come vivono, cosa, chi votano e per quali motivi. Esiste in ogni regione un detto, fra gli altri, declinato nel dialetto che si preferisce, a proposito del fatto che non esista un male che non porti in sé anche del bene. A questo è ridotto chi abbia a cuore l’Italia: affidarsi alla presunta saggezza dei popoli, più spesso ottenebrati dall’oppio religioso e da una endemica arretratezza culturale.

Cesare Stradaioli