BEN VENGANO I NOSTALGICI

Finiremo con dover riconoscere una certa gratitudine al presidente del Senato e ad alcuni dei suoi simili. Grazie a loro, ai loro interventi pubblici, alle loro prese di posizione e all’evidente e assolutamente consapevole assenza di qualsiasi forma di (auto)critica a proposito del loro pensiero politico e dal passato che l’ha generato, pare di poter dire che sia sotto gli occhi di tutti coloro che intendano vedere anche cose sgradite, come permanga piuttosto in buona salute una tara genetica che grava su tutti coloro che vivono all’interno di questo Paese, mal formato, male combinato e ancor peggio ristretto in confini alle volte di natura puramente geografica.
Considerazioni che trovavamo già svariati decenni fa negli scritti, fra gli altri, di Umberto Eco a proposito del perenne fascismo che vive attorno a noi, nelle nostre istituzioni, nelle persone che le guidano, nei comportamenti di tutti i giorni di coloro che hanno il nome sul campanello a fianco del nostro: predisposizione ad avere una guida unica, quello che una volta si chiamava ‘uomo forte’, pervicace tendenza all’individualismo corretto dal malanimo reciproco – che facilita due tratti fondamentali del fascista: conformismo e delazione – un baco intrinseco al nostro sistema immunitario sociale, che a buona ragione può essere definito razzismo (dovessimo ritenere razzisti solo coloro che ne fanno pacifica dichiarazione, restringeremmo il campo a Franco Freda e pochi altri seri cultori della supremazia bianca) e una tragica perdita di memoria, caratteristica negli ultimi quarant’anni fortemente incrementata dalla televisione e dalla pubblicità.
A coloro i quali, da oltreconfine, si preoccupano se per caso il fascismo non stia tornando oppure che rispetto a tale manifestazione non appaia opportuno dare un rilievo che in realtà non merita, va risposto come non sia possibile che qualcosa o qualcuno torni, non essendosene mai andato. Magistratura e apparato burocratico, corpi di polizia e militari, intere classi di docenti dalle scuole d’infanzia fino all’università, le classi agrarie e industriali; insomma le formazioni che innervano uno Stato furono appena leggermente sfiorate da quella catena di avvenimenti storici iniziata l’8 settembre del 1943, passata per la Resistenza, la fine della guerra, l’introduzione della Repubblica, per finire con la promulgazione di una nuova Carta Costituzionale, talmente antifascista nelle belle e un po’ compiaciute menti degli estensori da non portare a che l’aggettivo diventasse plastico sostantivo da racchiudere in un apposito articolo a fianco dei 139 presenti (errore di portata incalcolabile: ma i gentiluomini non sempre vedono lontano e la buona fede della più gran parte di quelle persone era fuori discussione); già negli anni ’50 un fenomeno storico e sociale frutto di un’elaborazione politica squisitamente italiana – più volte eminenti rappresentanti del III Reich ebbero a dichiarare il loro debito politico verso il Fascismo – veniva ridotto, ridimensionato, riscritto, rivisitato; il temuto revisionismo storico che viene paventato oggi aveva già mosso i propri, pesantissimi passi nemmeno trascorso un decennio dal 1945.
Non solo le atrocità del regime, le leggi razziali, il conflitto mondiale cui l’Italia prese parte, la fine delle libertà, i tribunale speciali, le condanne a morte, l’arretramento culturale e le conseguenti distruzioni sociali vennero sbrigativamente e a voce quasi unica trasferite e ascritte alle scelleratezze di un caporale semianalfabeta, dei suoi quattro scagnozzi con seri problemi di regressione anale e a un intero Paese che, da culla del pensiero riflesso pareva precipitato in un pozzo nero di disumanità; il Fascismo divenne poco più che una ragazzata, con qualche esagitato che c’era andato giù un po’ pesante, le simpatiche sfilata del sabato, tanta ginnastica, l’italianizzazione delle parole anglofile (e dire che, in qualche misura, servirebbe oggi), svariate tonnellate di figli in più che gonfiarono a dismisura la demografia di un Paese che a stento emergeva da una prima guerra costata vite e patrimoni e che provava a essere una entità industriale. La presenza, appena dietro l’angolo, del pericolo comunista faceva la propria parte nell’edificazione del dimenticatoio.
Nel frattempo, per larghissime zone della regione in cui è cresciuto chi scrive il 25 aprile era, rimase e tutt’ora è la celebrazione di San Marco e non qualcosa d’altro, i fascisti erano sostanzialmente dei fanfaroni – i tedeschi, invece, erano tutti nazisti e perciò stesso stupidi, vedi il normotipo dei film di guerra, tipica riduzione culturale americana – i treni si riteneva fossero stati fatti arrivare in orario ma la censura operante lascia dubbi in proposito, Mussolini fu uno statista ardito, forse un tantino eccessivo in determinate manifestazioni (avesse avuto tre canali televisivi, impallidirebbe il consenso di piazza Venezia) con qualche buona intenzione ma, ahilui, mal consigliato e che si affidò a cattive compagnie, il tutto senza tenere conto del fatto che l’amministratore delegato di una multinazionale qualsiasi sarebbe silurato all’istante e cadrebbe nell’oblìo manageriale se commettesse tali sesquipedali errori nella scelta di collaboratori e interlocutori: in definitiva, non lo lasciarono lavorare – l’abbiamo già sentita, questa. Avesse avuto l’arguzia di un Francisco Franco, che mantenne la Spagna cautamente e discretamente lontana dal nazismo e dalle sue peggiori esplicazioni, per poi lucrarne potere, consenso e durata nel tempo, oltre a evitare piccoli intoppi quali la partecipazione a un conflitto…
Alla banalizzazione del fascismo contribuì anche la Sinistra ufficiale: la sistematica e doverosa difesa dei principi della Resistenza, portò in primo luogo a negare l’evidenza e cioè che pur sempre di guerra civile si trattò, se le parole hanno un senso e se quel termine possa essere usato quando connazionali prendano le armi da due fazioni contrapposte e portatrici di ideali del tutto inconciliabili fra loro, con l’unica soluzione della vittoria di una delle due. Seguì poi il silenzio sulla tragedia umana delle foibe: contrasti mai chiariti, ferite rimaste aperte e/o, in ultima analisi, formidabili sensi di colpa, indussero a tacere su un fenomeno intorno al quale qualsiasi vecchio triestino non intossicato da preconcetti sa benissimo riferire (in quanto a sua volte tramandatogli dalla memoria degli anziani) come un costume esistente da secoli, che portava qualcuno a buttare qualcun altro in quegli orridi, anche per semplici dissapori familiari. Coloro che, in materia, sanno di cosa parlano, ipotizzano la presenza di migliaia e migliaia di scheletri, persone senza nome che non saranno mai recuperate e che, in gran parte stanno lì da sempre: ma la memoria alimentata solo dalla Destra, parla solo delle vittime dei soldati di Tito (non pochi comunisti, fra le prime).
Negare l’evidenza prima o poi fa in modo che la Storia presenti il conto, sotto forma di mancanza di credibilità; quanto al silenzio, nel caso delle foibe non solo coprì anche le malefatte dei fascisti italiani in Jugoslavia (non si può, logicamente, attribuire a qualcuno l’inizio di un fenomeno successivo, della cui esistenza però si tace), ma dette modo ad alcune canaglie della destra odierna di poter blaterare a campo aperto, praterie di fronte e microfoni a palla su cose in merito alle quali starebbero zitti se ne avessero la relativa dignità (la Risiera di San Sabba, a pochi chilometri di distanza, è stato l’unico campo di sterminio in Italia: qualche brava persona provi a chiedere in giro se qualcuno al di fuori della sempre amata città ne ha sentito parlare). Parlare delle foibe, mettere in rilievo i fatti storici è prima di tutto espressione di onestà intellettuale: in secondo luogo è anche buona politica che, una volta attuata con tanto di nomi, cognomi e responsabilità, cagionate delle malefatte di cui sopra, avrebbe messo le suddette canaglie nella condizione di trovarsi in mano un’arma scarica (o un pene in deiezione: nell’iconografia machista del Fascismo i due accidenti presentano notevoli analogie).
Così non è stato e, rimbalzando sulle acute osservazioni di Eco, siamo qui a dare atto che le intemerate uscite di gente più adatta al bar sport o al cazzeggio da aperitivo piuttosto che a governare un Paese (o anche solo una merceria), potrebbero essere in fin dei conti utili a capire qualcosa in più sulle persone che abitano questo Paese, su cosa pensano, come vivono, cosa, chi votano e per quali motivi. Esiste in ogni regione un detto, fra gli altri, declinato nel dialetto che si preferisce, a proposito del fatto che non esista un male che non porti in sé anche del bene. A questo è ridotto chi abbia a cuore l’Italia: affidarsi alla presunta saggezza dei popoli, più spesso ottenebrati dall’oppio religioso e da una endemica arretratezza culturale.

Cesare Stradaioli