Voto all’estero

Non sono favorevole a che votino gli italiani residenti all’estero. Si tratta di una presa di posizione che, ovviamente, retrodata di gran lunga rispetto alle questioni che stanno sorgendo in occasione del referendum del 4 dicembre prossimo.

Dal 2000 al 2004 ho vissuto in South Australia e fino a qualche mese prima del ritorno, la mia idea era di rimanerci se non per sempre, comunque senza un’idea precisa se e quando tornare. Non mi trovavo ancora nella condizione di diventare cittadino australiano e non credo che avrei rinunciato alla cittadinanza italiana – se mi fosse stato imposto l’aut aut -: in ogni caso, ero iscritto all’AIRE (Associazione Italiani Residenti all’Estero) e non ho votato né alle elezioni politiche né a quelle amministrative e neppure al referendum del 2003, che incorsero in quel periodo di tempo, pur avendo ricevuto tempestivamente apposita documentazione elettorale che mi avrebbe legittimato a farlo.

Non ho votato per il semplice motivo che non ritengo né giusto né opportuno che un cittadino italiano che risieda stabilmente all’estero, che quindi è socialmente, economicamente e politicamente strettamente connesso con il Paese che lo ospita (e, per converso, sconnesso dall’Italia), possa contribuire a decidere come debbano vivere gli italiani che rimangono a vivere nel nostro Paese; e questo senza nessun giudizio di merito su cosa significhi rimanere e cosa significhi partire, cosa che peraltro consiglio a tutti i giovani, quanto meno per un certo periodo, si tratta di un’esperienza che forma carattere e personalità.

A parte il fatto – e l’ho sperimentato in prima persona – che anche nella società delle comunicazioni in tempo reale e pur vivendo in un Paese evoluto e civile, la distanza non rende per nulla facile formarsi un’opinione politica corretta su questo o quel partito, movimento, singolo rappresentante istituzionale e amministrativo – si rischiano fraintendimenti, equivoci, incomprensioni, veri e propri abbagli, anche a causa di una certa stampa, va detto; a parte ciò, quand’anche un cittadino italiano stabilmente all’estero fosse informato e consapevole in maniera sufficiente per esercitare il diritto di voto (e sarebbe tutto da discutere, lo ammetto, intorno a quanti nostri connazionali raggiungano quella sufficienza), non si vede per quale motivo, da distante e magari senza avere messo piede in Italia da anni e forse senza mettercelo mai più nel futuro, costui possa decidere in campo politico e amministrativo. Insomma, non ritengo che abbia lo stesso diritto mio, che in Italia sono tornato a vivere e di tutti gli altri che non se ne sono mai allontanati se non per turismo, non fosse altro per il fatto che, poi, esiste la concreta possibilità che una certa somma di voti di italiani residenti all’estero sposti l’ago politico della bilancia di quella cifra percentuale da dare la vittoria a questo o a quel partito, a questa o quella lista, in modo tale che la maggioranza dei residenti potrebbe optare per la coalizione X, ma quella Y vince in virtù della percentuale portata dai voti degli italiani all’estero.

In periodi di grandi equilibri, di formazioni o coalizioni politiche che tendono a somigliarsi, in aggiunta a un elettorato (quello italiano) che storicamente sposta di pochissimo le proprie preferenze – l’esempio del M5S è più unico che raro – è del tutto plausibile che su un elettorato di oltre 50 milioni, con tre milioni residenti all’estero oggi aventi diritto, anche solo 500mila voti (l’1%!) possano risultare decisivi, alla conta finale. E’ accettabile, tutto ciò? E’ congruo? Io sostengo di no. Una simile ipotesi può dirsi seriamente rappresentativa della volontà popolare? Potrebbe definirsi rappresentativa di quella ELETTORALE, con ciò intendendo la massa di coloro che ricevono un certificato elettorale – in questo senso è secondario l’uso, votare o astenersi dal voto, che ne viene fatto: ma può dirsi altrettanto rappresentativa della volontà del POPOLO sovrano che abita il suolo statale, che ci vive e ci lavora tutti i giorni, che tutti i giorni porta i figli a scuola, va al mercato, partecipa alle manifestazioni sociali, beneficia di servizi, li paga (chi lo fa) tramite il prelievo fiscale, chiede di partecipare e dà voce alle proprie idee? Ancora una volta, dico no.

Perché un signore che gestisce un ristorante a Sydney, una signora che insegna italiano a Stamford, una scienziata che vive e lavora a Capetown, un ricercatore che se n’è andato a cercare (e trovare) a Pechino migliore e più accettabile riconoscimento ai propri titoli di studio, dovrebbero avere voce in capitolo e decidere anche per i loro colleghi che sono rimasti (contenti o meno) in Italia, dei loro destini politici (e, vorrei dire, quelli di qualche generazione futura, se pensiamo al referendum del 4 dicembre)?

Non sarebbe preferibile – personalmente era e rimane la mia opinione – che un residente in un tale Paese, dove cioè vive, lavora, paga le tasse, mette su famiglia, un’attività, dove concepisce le proprie idee che siano a carattere scientifico o letterario, dove insomma come individuo incide sulla realtà sociale, politica ed economica di QUEL Paese, molto ma molto di più di quanto fa – o non fa per niente addirittura in Italia – possa esercitare il diritto di voto là dove risiede? Non sarebbe più consono al concetto stesso di partecipazione?

Questo, ovviamente, spetta alla decisione sovrana di ogni singolo Stato: per quanto concerne l’Italia, io penso che il nostro Paese dovrebbe fare di tutto per evitare le migrazioni per necessità o insoddisfazione; detto ciò, braccia (e urne) aperte a chi torna stabilmente, dopo essersene andato per migliorare la propria vita o anche semplicemente per cambiarla, ma fino a quando rimane a risiedere fuori dai confini nazionali, non è opportuno che possa continuare a esercitare un diritto al quale ha rinunciato.

Cesare Stradaioli