Carta perde, carta perde.

Andrà male comunque. Quale che possa essere il risultato del referendum del 4 dicembre, chiunque abbia vinto – chi avrà perso, c’è da scommetterci, tirerà fuori due argomenti; primo, hanno a malapena votato due cittadini su tre e secondo, una materia di simile portata e complessità non poteva né doveva essere oggetto di consultazione popolare (argomento sollevato da chi scrive in tempi non sospetti e ribadito anche oggi, nonostante sembri che l’opzione preferita, il NO, vada a prevalere), vedi commenti sulla ‘Brexit’ – ne uscirà un Paese diviso, lacerato e conflittuale. Non se ne sentiva la necessità.

Era, per contro, necessaria, un’azione di governo che realmente incidesse sulla povertà, il lavoro, la messa in sicurezza di beni culturali e del territorio stesso dove abitiamo, che agisse con discrezione e intelligenza nello scenario internazionale, che desse speranza, opportunità, motivo di essere socialmente coesi e per quanto possibile uniti e solidali, anche nei confronti di coloro che fuggono da guerra, miseria, integralismo religioso.

E’ stata portata avanti a tamburo battente una riforma di scarsa utilità, da un lato (i risparmi sulla politica saranno risibili, non è vero che il parlamento italiano legifera poco e male, la stabilità di governo è, in sé, una panzana politica) e, dall’altro con l’improntitudine, l’arroganza e – bisogna dirlo – una sesquipedale ignoranza dei fondamentali della dottrina politica, scambiando (da stabilire se e quanto inconsapevolmente) l’approvazione della riforma di una gran parte della Carta Costituzionale con una legge ordinaria qualsiasi.

E’ l’argomento più spesso trattato (a livelli, diciamo, ‘alti’) da diversi e più portati al dialogo che all’invettiva fra coloro che sostengono il Sì. Significativo, a tale proposito, è l’intervento di qualche settimane fa, su ‘Repubblica’ di Angelo Bolaffi. L’illustre germanista, dopo un breve excursus sulle vicende che portarono alla caduta della Repubblica di Weimar – ovvio e conseguente il richiamo alla stabilità di governo, strettamente collegata a suo dire con l’approvazione della riforma Renzi-Boschi-Verdini – giunge a un’affermazione che, a memoria suona più o meno così: quando si fanno le leggi è inevitabile scontentare qualcuno, essendo impossibile nel mondo degli umani che una norma possa essere pensata e scritta per regolare una determinata materia di comune accordo fra tutte le componenti sociali, politiche ed economiche di un consorzio civile. In breve, chi vince le elezioni, ha da governare e, anche senza arrivare necessariamente agli metodi di ispirazione britannica, dove si teme da sempre la cosiddetta ‘dittatura della maggioranza’, quando si forma il Parlamento e si insedia un esecutivo, il loro compito (come recita la nota tripartizione, unitamente a quello giudiziario che spetta alla magistratura), è legislativo ed esecutivo. Per fare questo, per governare un Paese e costituire un corpo di rappresentanti della cittadinanza, va cercata una comunanza di vedute finché si può: dopo di che, SI DEVE legiferare e SI DEVE governare e che qualcuno, anche in forte percentuale, ne sia scontento, ebbene questo è il sale della democrazia, è l’altra faccia (per nulla oscura) della tenzone elettorale e, lungi dal costituire avvilimento degli scontenti, deve al contrario produrre in essi idee ed energie per diventare, a loro volta, maggioranza: in modo da poter e dover legiferare e governare, anche prevalendo su una minoranza – debole o forte che sia.

Ma la Costituzione non è un corpus di leggi ordinarie: una riforma di parte di essa non può essere posto alla stessa stregua della procedure legislativa ordinaria.

E’ giusto, è doveroso consultare, contrattare, condividere, esaminare, confrontare ogni aspetto e rappresentanza sociale, nel momento in cui si costruisce, per così dire, una legge; ma, a un certo punto, si deve decidere, pena la stasi, la paralisi, il vuoto politico. Sotto questo profilo non si può essere in disaccordo con coloro i quali rilevano come la nostra società sia, in qualche modo, impacchettata, ingessata, immobile – forse perché a ciò costretta da troppe leggi, sicché la necessità di uno sveltimento nel legiferare (uno degli argomenti forti del Sì) apparirebbe fasulla, a fronte di una diversa e più qualificata esigenza quale, per esempio, la migliore scrittura delle leggi stesse?; ma un conto sono, ancora una volta, le leggi ordinarie che, viene da dire, quasi fisiologicamente dividono e contrappongono: altro sono le norme di rango costituzionale.

Una Costituzione, ma anche una sua pesante riforma, non devono MAI dividere: nella loro predisposizione si deve fare esattamente il contrario di quello cui si è appena accennato, vale a dire coinvolgere il più possibile, per quanti tentativi possibili, finché è possibile. E se non è possibile, ebbene, non si faccia! Si vede che non è il momento per farlo. Difficile ipotizzare nel 1920 – per dire – una comunanza di intenti anche lontanamente paragonabile a quella che si è concretata nell’Assemblea Costituente del secondo dopoguerra; e altro che se, dopo la prima guerra mondiale, anche al solo fine di evitare il baratro fascista, non ci fosse stato bisogno di un qualcosa che assomigliasse a quella magnifica mobilitazione di saperi e di personalità. Non era il momento, non era storicamente necessario, a dirla marxianamente ed è andata com’è andata.

Il momento per riformare una Costituzione è necessario solo se unisce e per una semplice ragione, a voler semplificare: una legge ordinaria è fatta per essere cambiata (pensiamo a quelle sul comune senso del pudore che erano soggette al diverso sentire popolare o al testo unico sugli stupefacenti, modificato quattro volte in 26 anni) e il più delle volte il cambiamento è indice di crescita civile e culturale; una norma di rango costituzionale DEVE durare svariate generazioni, perché è uno dei mattoni su cui poggia l’edificio dello Stato. Oppure, a voler citare Calamandrei, perché le norme costituzionali sono fatte da sobri per quando si è ubriachi. La Costituzione non è di chi la scrive, di chi la approva, di chi vince il referendum: la Costituzione è di tutti, DEVE esserlo; o, semplicemente, non è.

Questa riforma costituzionale è stata fatta da ignoranti e arroganti – qualcuno, come chi scrive, li ritiene per lo più eterodiretti, come il non illustre ex Presidente della Repubblica che preferiamo non nominare – partiti lancia in resta come se una riforma dovesse significare prima di tutto la vittoria propria e la sconfitta di chi non ci sta, spacciando il tutto per modernizzazione e innovazione, asserendo di metterci la faccia e promettendo il ritiro se andasse male; di nuovo trattando il tutto come se a rimetterci, in qualsiasi caso, fosse il singolo politico o il gruppo perdente e non la società intera. Il dibattito è involgarito e incattivito e parlano al vento o pochi che trattano la questione, in un senso o nell’altro, con pacatezza e ragionamento.

Non è così. E non sarà così il 5 dicembre; giorno in cui, svegliandoci, troveremo un Paese ancora più spaccato, diviso, litigioso, rancoroso; in cui la tara italiota di cui parlava Leopardi, intorno alla incapacità di collaborare, alla pervicace volontà di vedere battuto l’avversario, piuttosto che vincente la nostra idea, trarrà ancora più vigore.

Il berlusconismo non è finito: prosegue sotto altre – neppure tanto mentite – spoglie. Oltre che con la consueta invasione dei mezzi di comunicazione, con la contumelia tardo-dannunzian-sgarbiana e con la disinformazione più pervasiva, prosegue con la diffidenza, il dagli al traditore, col cambio di casacca, con l’indifferenza verso tutto quello che non appartiene al mio orticello, con spaccature pressoché in ogni ganglio sociale e civile, con l’incomunicabilità. Con il chi non è con me è contro di noi, con la menzogna, con il tradimento dei politici che spacciano dati falsi, che comprano e vendono e SI vendono, non mancando mai nel nostro Paese i compratori. Con il dispregio delle regole di vita e di relazione, oltre che politiche.

Non vincerà nessuno, il 4 dicembre: perderemo tutti. E poi non si venga a dire che non era stato – da lunghissimo tempo – detto.

Cesare Stradaioli