QUESTIONI DI METODO

Come spesso accade, il problema risiede nel metodo, più che nella persona. Nella vicenda della comunità di San Patrignano, di come nacque e con quale impostazione venne gestita, ancor più contano i presupposti alla base del metodo, se pur ve ne sia uno che possa essere definito tale. La tossicodipendenza, come qualsiasi altra dipendenza, è una patologia: a sua volta, ne genera altre, ma nel complesso si tratta di un effetto. Considerarla una causa è un rovesciamento di valori, frutto di un’analisi errata nei principi: i quali, nel caso specifico, partono dal presupposto che lo sia, saltando direttamente quello che un’analisi seria è, vale a dire esame e valutazione di fatti. E’ chiaro che confondere causa ed effetto – di fatto, invertirne la logica dinamica – vizia irrimediabilmente il metodo: il quale, spesso (San Patrignano non fa eccezione) è sbagliato, a prescindere dalle intenzioni. 
Vale poco questionare su cosa significhi un documentario televisivo sulla più nota – e famigerata – comunità italiana di recupero per tossicodipendenti. In quanto diretto a una indefinita platea di ascoltatori e non a un consesso di esperti, necessariamente deve mediare: in casi come questo la mediazione, nobile pratica quando è necessaria, diventa mancanza di azzardo nel prendere posizione, sul vieto e ritrito – a dispetto di ciò, incredibilmente ancora praticato a pieno – principio secondo il quale tutte le opinioni hanno pari diritto e dignità di ascolto, indipendentemente dal loro valore e dall’attendibilità di chi le propala. Vale maggiormente la pena prestare attenzione a quella che, ancora oggi, è la considerazione comune, veicolata da una specie di pensiero unico, per la quale un tossicodipendente va curato intervenendo unicamente sul lato fisico della sua problematica. 
Ora, è opinione comune acclarata fin dai primi anni della facoltà di Medicina e Chirurgia che un corpo umano anche avvezzo da lungo tempo all’assunzione di eroina o cocaina, con debite e appropriate cure possa essere ‘curato’ e ‘deputato’ nell’arco di qualche settimana. Strabiliante come, ancora oggi venga considerato quello il vero problema, vale a dire la sanità del corpo: raggiunta la quale, il paziente può riprendere una vita normale. Come se l’assunzione di stupefacenti nascesse in una persona e vi si sviluppasse autonomamente e nella quasi esclusiva padronanza da parte dell’individuo; con questi presupposti, è agevole la logica conclusione successiva: sei tu il responsabile della tua dipendenza, che sia da droghe, psicofarmaci, televisione, alcol, caffeina, pornografia, gioco d’azzardo eccetera. 
Conclusioni simili hanno un chiaro fondamento, consapevole o meno: è più facile dare una soluzione a un problema limitandosi ad analizzarne gli aspetti superficiali. Andare oltre toglie la comodità di dare la colpa al singolo e, soprattutto, esenta dal cercare altrove le ragioni di una sofferenza. Perché quello è, chi viva una dipendenza, quale che sia: una persona che soffre. Di una sofferenza grave. Il fatto è che, per l’appunto, è agevole giungere a una prima – e di solito, unica – conclusione: soffri perché la droga di uccide, ti debilita, ti depaupera fisicamente e mentalmente. E soffri perché, al fine di procurartela rubi, ti prostituisci, ti abbrutisci. Da cosa ciò dipenda – l’idea stessa che possa dipendere da qualcosa di esterno è fuori dai radar – non solo non rientra nella cura, ma neppure in un’opera di prevenzione. 
Sono passati decenni – e non pochi – da quando cominciò finalmente a circolare un metodo di analisi diverso: non si diventa dipendenti per gioco, per vezzo o per fatalità. Il malefico mantra “si comincia con uno spinello e si finisce con l’eroina” è quello che è e niente di più: un mantra. Uno slogan buono per tutte le stagioni con il quale si circoscrive il fenomeno della tossicodipendenza a una favola della buonanotte: stai lontano dalla droga e vedrai che non ti succederà niente. Bisognerebbe stare lontano da questa società – cioè: cambiarla – ribattevano menti più aperte a inizio anni ’70, in Italia e all’estero: quella è la genesi della tossicodipendenza. Un essere umano si droga in ragione del proprio dolore di vivere: sostenere che tale dolore dipenda dalla si droga, alla luce di qualsiasi indagine sociologica di medio spessore, è un palese non sense. Tizio sta per annegare: lo salvano; hai visto cosa accade a respirare acqua, osserva il buon samaritano che lo porta in comunità. Tizio afferma di essersi tuffato per disperazione: vita grama. Ti sbagli, ribatte l’altro; ho dalla mia il rilievo scientifico, l’acqua nei polmoni ti stava nuocendo, non la società. Torna pure sano alla vita di tutti i giorni. Nessuna riflessione su come torni a vivere il malcapitato: l’importante è che la comunità funzioni. 
E’ questo il punto; andare oltre la superficie significa puntare il dito contro uno o più modelli di vita (è uno dei poteri della democrazia: non più un unico modo per soffrire, ve ne sono diversi, in offerta; a una società autoritaria è sufficiente predisporne uno solo), prenderli in esame e verificare qualcosa che, volendo, è sotto gli occhi di tutti: la gente cade nella dipendenza perché, genericamente ma semplicemente, sta male. Un male che spesso non è in grado di capire; non riesce a vederlo, ad analizzarlo per mancanza di cultura, di mezzi, di consapevolezza, di forza personale e non ha strumenti per combatterlo, né solidarietà o vicinanza o affetto. Altro non sa se non che quel qualcosa porta dolore e il dolore bisogna cercare di evitarlo, se possibile o di lenirlo, di porvi rimedio: è pratica propria di qualsiasi essere vivente. 
E’ qui che si annida l’errore nell’analisi. Ti curo ripulendo il tuo corpo; ora che sei mondato dal male – c’è un’infinità di cattolicesimo nell’idea di recupero del tossicodipendente – torna nel mondo e bada: era colpa tua, se eri malato e lo sarà di nuovo, ancora peggio, se ricadrai nel vizio. Le parole contano: dire che nel percorso di un individuo quel determinato comportamento è viziato, significa attribuirgli una diversità tale da automaticamente considerare ‘sano’, non viziato, tutto quello che c’è stato prima. Ecco l’inversione logica temporale dei fatti. Da questa impostazione – il malato non è in grado di badare a se stesso e alla propria cura: diversamente non sarebbe tale e non si troverebbe pregiudicato e in comunità – l’utilizzo della coercizione è un passo tanto successivo quanto necessario: come posso curarti, altrimenti? 
Ecco l’errore nel metodo. Che prescinde dalla volontà di chi pensa una struttura e l’organizza, ne elabora metodologie di intervento, cure, disciplina di vita e di pensiero. Soffermarsi sul personaggio Muccioli e più nello specifico cosa abbia fatto, se e cosa abbia consentito o promosso, è riduttivo e sostanzialmente sbagliato. E’ il concetto in sé di comunità, di quel tipo di comunità a dover essere messo in discussione. Come accade di frequente, la via più semplice – niente affatto facile: bisogna poi trarre delle conclusioni; ‘bisogna decidersi’, direbbe Leonardo Sciascia – è rifarsi alle parole di chi conobbe direttamente i fatti. E, nel caso di San Patrignano, quale voce più accreditata di quella di Rosa Russo Iervolino, già figura politica di primo grado e ministro degli Interni, cofirmataria del Testo Unico sugli stupefacenti, il DPR 309/90, che inasprì in maniera insostenibile le pene? La sua testimonianza è tornata alle cronache dopo la messa in onda del docufilm sulla comunità. Avendo osservato certi modi di trattare gli ospiti ed essendone rimasta colpita, lei stessa riferisce di avere chiesto al fondatore: è proprio necessario usare la violenza? Mi indichi un modo alternativo, rispose Muccioli. 
Ovviamente non ve ne sono, nel solco di quell’impostazione: quella che vede l’individuo quale primo e unico responsabile della propria dipendenza. Non sei padrone di te stesso, non sai quello che fai: tant’è che usi sostanze che ti riducono a meno di un essere umano e infine ti portano alla morte; lascia fare a noi. “Per il tuo bene”, funziona a qualunque età della vita, parlando di mantra. Eppure, nessuno penserebbe di curare con metodi coercitivi una persona affetta da una qualche forma tumorale; la meningite richiede la forza solo per limitare reazioni sconsiderate, non per imporre la cura. O, per dirla oggi, sarebbe lunare voler curare una pandemia qualsiasi mediante l’imposizione violenta dei farmaci. Eppure numerose malattie, spesso gravi, sono diretta derivazione del degrado ambientale, quasi nessuno lo mette in discussione. Che, poi, nel concreto, si intervenga concretamente su quell’impianto o sull’abuso di plastica è discorso tutt’affatto diverso; rimane la considerazione, comune nelle persone con un minimo di intelletto, dell’influenza che l’inquinamento o un certo modo di vivere hanno su tantissime patologie. 
Non così rispetto alla tossicodipendenza. Il pensiero unico in materia vede il povero tossico derelitto, che mendica o vaga ciabattando per le vie della città, quando non commette crimini, ruba, picchia i genitori o si vende agli angoli delle strade. E guai a parlare di liberalizzazione, a dispetto del fatto che è chiaro come il proibizionismo arricchisca le narcomafie, tanto quanto quello degli anni ’20 negli Usa arricchì Al Capone. Il pensiero unico non vede come centinaia di milioni di persone – incluso chi scrive – abbiano provato, anche più volte, sostanze riconducibili alla categoria delle cosiddette ‘droghe leggere’ e mai nessuno di costoro si sia mai avvicinato all’eroina. La ragione, ancora una volta, è semplice: non ve n’era bisogno. Non se ne sentiva la necessità. Vi fosse stata, non ci sarebbe stato bisogno della canna. Così come non è quel singolo bicchierino a portare all’alcolismo, se uno cerca nel fondo della bottiglia la luce nel buio della propria esistenza. 
Muccioli dette a Iervolino una risposta in sé corretta: no, non ho alternative e tu non me ne puoi dare una. Se questo è il modo di occuparsi di tossicodipendenza. Le catene, le costrizioni, le violenze di vario genere che emersero a San Patrignano non sono addebitabili a Muccioli se non in quanto mero esecutore, sia pure del massimo livello. E’ il concetto in sé, di come fronteggiare la diffusione delle sostanze tossiche di qualsiasi natura, che porta a costringere l’individuo. Iervolino deve essere stata convinta a sufficienza dalla risposta di Muccioli, visto che dette il nome a quella sciagurata normativa sugli stupefacenti che, ancora oggi, dopo vari emendamenti di senso contrario, punisce con spropositate condanne un traffico anche modesto di droga, mentre altri ben più gravi e infami reati sono perseguiti con pene e modalità alle volte perfino offensive da quanto sono ridicole. 
Rimane il rammarico, squisitamente personale, del dilemma di come sia stato possibile legare a una legge così idiota e criminogena, che è costata secoli e secoli di galera e migliaia di morti abbandonati sulle panchine o in una discarica come cani rognosi, un nome nobile quale quello di Giuliano Vassalli, giurista di grande umanità e uomo di raffinati studi legali. Succedono anche cose di questo tipo, a invertire causa ed effetto.

Cesare Stradaioli