L’ALTRO TRENO, IGNARO E QUASI SENZA FRETTA

Che lo facciano, questo treno ad alta velocità. Le proteste di questi giorni, come pure quelle degli anni passati, per quanto ragionevoli possano essere arrivano fuori tempo massimo, dal momento che una procedura di approvazione pur sempre c’è stata. Qualcuno, vagamente autoreferenziale, sostiene di vedere più lontano degli altri: dalla sua, voci ricorrenti insistono nel ripetere che, alla fine della fiera, quest’opera non si farà. Come tante altre nel nostro Paese, rimarrà a livello di inizio.
Temo che il mancato completamento sia, quando le somme verranno tirate fra qualche anno, la soluzione da evitare. Considerato il grado di faziosità che connota questo Paese, voci a sostegno dell’opera in quel caso potranno – direi anche legittimamente – rinfacciare a chi avesse vinto la battaglia NoTav, l’enorme spesa finanziaria, ambientale e umana inutilmente affrontata, poiché niente e nessuno uscirà indenne da questa vertenza: sventramenti geologici e sociali segneranno gli anni a venire. In questo Paese, chi non c’è ha ragione: anche là dove, per solito, ha torto.
D’altra parte, un Paese sopravvissuto a quarant’anni di Democrazia Cristiana, a innumerevoli stagioni di servizi deviati, a un pervicace sistema di diseducazione morale e sociale, alle bombe, alle stragi, alla micidiale tenaglia Fiat-Mediaset che ha strangolato l’economia e la ragione, restringendo il Paese in un provincialismo stupido e ignorante, appesantito dall’evasione fiscale (bandiera del perdurante anarchismo destroide che pervade l’Italia) e, fino a quando ossigeno arriverà agli alveoli della democrazia, alla malavita organizzata e alla sua cugina spuria più anziana, la corruzione, un Paese così può ben sopportare un fallimento economico e politico quale è destinato a essere il concetto stesso di treno ad alta velocità; ideato – anche il solo averlo pensato costringe all’alternativa idiozia/disonestà – in una zona geografica impervia, continuamente punteggiata insediamenti urbani e rilievi montuosi e collinari, del tutto mancante di un piano industriale e di gestione commerciale e, per ciò stesso, destinato a essere l’ennesima di quelle che si chiamano ‘cattedrali nel deserto’. Più che un edificio religioso si tratterà di una vergogna epocale, ma le etichette contano fino a un certo punto.
A volersi impegnare in un abbozzo di stima di spesa e di disastro sociale, tutto sommato non sarà neanche il più devastante e più umiliante; che ce ne siano stati di peggiori, sotto tutti i punti di vista, non può essere portato come argomento positivo: ma, se non altro, sarebbe un’occasione  (anche questa di portata storica) per fare seriamente i conti e non mi riferisco a quelli della massaia – che, muniti di dati sufficienti alla bisogna, sarebbero in grado di fare anche un paio di adolescenti particolarmente esperti di informatica e dell’appropriato di algoritmi.
Sarà sufficiente, una volta tratte le debite conclusioni, da un lato predisporre i rimedi del caso – ove possibili – e dall’altro stilare un elenco completo di tutti coloro che si sono espressi a favore di questa bestemmia geografica ed economica (il mantra ‘Ce lo chiede l’Europa’ costituisce in sé un capo di imputazione più che esaustivo) e cosa abbiano detto, nel generico e nello specifico. Fatto questo, nomi e cognomi responsabili dovranno essere allontanati per sempre dalla vita pubblica, con la dovuta riserva di eventuali procedimenti penali. Il non dover mai più essere posti di fronte al fatto compiuto – l’esito più nobile da conseguire – tutto considerato, varrà pure i costi da sostenere. Si cresce anche con le disfatte. 
Il pessimismo che deve innervare la ragione induce a ritenere che ciò non avverrà, ma su questo dovrà prevalere la volontà. Ci penseranno i rapporti di forza del momento a disciplinare gli eventi.

Cesare Stradaioli