QUANDO I MULINI ERANO BIANCHI

In un periodo nel quale non era ancora incartato nella diatriba sui vaccini, i passaporti sovietici e i premi Nobel sconosciuti, fra le altre rilevanti cose che aveva da dire Massimo Cacciari era solito ammonire a non avere troppi rimpianti per le scuole di partito; specialmente a Sinistra, riteneva che fosse il caso di togliere un po’ di mito e narrazione a proposito della loro valenza, sia politica sia umana. Non c’è che da dargli ragione, in punto di miti e narrazioni: ne abbiamo avuti fin troppi, negli ultimi decenni e tuttavia non me la sento di includere nelle due categorie quanto si diceva e si pensava di quei luoghi nei quali si sono formate generazioni di rappresentanti politici, nazionali e locali.
Fra le altre varie cose, la politica è capacità di ascoltare; due categorie, principalmente: il corpo elettorale (che, per sua natura, la politica tende a portare a sé) e gli avversari, coloro che si pongono alla guida di movimenti di pensiero diversi. Oltre, ovviamente, a cultura ed elasticità mentale. Pazienza. Equilibrio.
Nel bene e nel male erano queste le cose che venivano insegnate e studiate, in quelle scuole, a prescindere dall’orientamento politico. Il che non impedì che la politica si sporcasse: quanto meno più di quanto sia umanamente prevedibile. Intervenne un momento storico in cui una narrazione fra le altre, per l’appunto, si erse a punto di riferimento, più che di vera informazione; rappresentata da un fortunatissimo libro, il cui titolo richiamava una classe sociale rigidamente inquadrata, preservata e del tutto autoreferenziale, semplicemente – da buona narrazione quale era – rovesciò il quadro, riuscendo a mettere in ombra, fino a eliminarlo, un elemento dalla dinamica duale che costituiva il fenomeno della corruzione: colui che paga il politico corrotto. In breve, come se dal complesso di attività che portano a una gravidanza, fosse tolto di mezzo uno dei due protagonisti e il lieto evento andasse unicamente ascritto al merito di un solo soggetto, dei due che avevano preso parte alla faccenda.
Focalizzando il tutto sul politico corrotto e non sul cittadino che lo corrompeva, oltre a costituire un inatteso – e magnificamente accolto – lavacro per centinaia di migliaia, probabilmente milioni di coscienze, detta narrazione aprì una prateria al concetto di onestà; che divenne in breve pressoché l’unica qualità di cui doveva fregiarsi un candidato. Da lì, al partito liquido di Veltroni – sconcertante similitudine con certi fastidi dovuti a irritazioni enteriche – e all’uomo comune a rappresentare le istituzioni, il passo è stato spaventosamente breve, con buona pace di Guglielmo Giannini. La liquidazione – è proprio il caso di dirlo – dei partiti, specialmente di quelli che bene o male si ispiravano alla sinistra ha fatto il resto, unitamente al mito secondo il quale la professionalità dell’attività politica, lungi dall’essere garanzia di formazione ed esperienza, inevitabilmente porta alla staticità, all’attaccamento alla poltrona, all’accomodamento. O, in altri e più sbrigativi termini: il politico professionista tenderebbe alla corruzione, quello dilettante non altrettanto (non è dato sapere il perché).
Non furono profezie difficili da fare, all’epoca: siete sicuri che lo smantellamento delle strutture partitiche (che, fino a prova contraria, sarebbero ancora uno dei cardini sociali cui fa riferimento la Costituzione) non porterà all’impoverimento della classe politica? Guardatevi dall’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, rischiate di dare spazio a dirigenze politiche fortemente ricattabili da chi può permettersi di sborsare enormi somme sotto le vesti di donazioni; state attenti al fatto che l’onestà è pur sempre una bella cosa, ma non è sinonimo di capacità di analisi, di mediazione, di immaginare un progetto politico; badate che la fesseria dei due mandati e poi a casa finirà col creare un sistema parlamentare perennemente composto da apprendisti stregoni, senza passato e senza futuro, con potenziali accumuli di capacità letteralmente gettati alle ortiche. Parole buttate al vento e consegnate alla Storia.
Il risultato è sotto gli occhi di chi vuole, anche a malincuore, vedere.
Rappresentanti politici al limite dell’analfabetismo (qualcuno anche oltre tale limite), ignoranza diffusa di politica nazionale e internazionale, arretratezza culturale, sconcertanti modi di esprimersi che fanno dubitare perfino dell’intelligenza di taluno. La cosa che spiazza maggiormente è lo stupore: come se aprire la professione medica o quella legale, oppure al lavoro idraulico a onesti e irreprensibili cittadini del tutto digiuni di anatomia, di diritto e di condutture potesse dare altro che disastri. O, come succede da anni al ramo legislativo dello Stato, l’essere esautorati per palese incapacità di fare quello che si è chiamati a fare, opporsi, esprimersi, dare esempio di capacità politica. Accanto allo stupore, l’indignazione: costoro non sono in grado di esprimere un nome per il Colle. Ma con quali capacità, con quale esperienza politica e perfino di vita, se basta l’essere onesti per poter inserire una scheda? Tanto non varrebbe utilizzare il metodo del sorteggio, per comporre Camera, Senato e consigli amministrativi locali? Basterà che un infante peschi un certo numero di nomi da un enorme baslotto contenente tanti bei cittadini onesti e incensurati ed ecco fatto.
Quanto al pretendere che costoro – il vicino di casa, l’occasionale compagno di viaggio in treno che si informa sui quotidiani, il simpatico cittadino che rispetta la fila senza inveire, quell’altro che paga le tasse, o che addirittura legge più di un libro all’anno, l’immancabile cognato o zio del cugino per parte di madre – siano in grado anche solo di predisporre proposte di legge su lavoro, educazione, sanità, ricerca, politica estera, difesa, giustizia, patrimoni artistici e territoriali, dinamiche sindacali e mediazioni politiche (inevitabili, in un sistema quale quello descritto in Costituzione), o almeno essere consapevoli di cosa si stia parlando, questa è storia tutt’affatto diversa. E non è quella che ci troviamo a vivere.

Cesare Stradaioli