QUALE VOTO

Fra poche settimane si terrà un referendum concernente l’approvazione o il rigetto della riforma costituzionale che prevede una drastica riduzione del numero dei rappresentanti parlamentari, deputati e senatori. Non ricordo una consultazione di tale portata così silenziosamente in marcia verso la data scelta per il suo svolgimento. Considero con il massimo disinteresse possibile le varie motivazioni che accompagnano questo silenzio, poiché non ve n’è una sola che sia meritevole di trattazione. Quello che, a mio avviso, conta è il permanere del silenzio in sé, che arrivo a definire fisiologico, rispetto a questa consultazione.
E fisiologico non dovrebbe essere, bensì patologico, proprio in quanto si tratta di una decisione di portata epocale – o dovrebbe esserlo, come qualsiasi riforma di rango costituzionale porta in sé. In poche parole, una decisione, ridurre il numero dei parlamentari o lasciarlo com’è sempre stato, che guarda ai prossimi cinquanta, settanta e forse più anni e non fino a lunedì prossimo, com’è diventato uso e costume della politica dei partiti liquidi e deprivati delle relative scuole, connotazione così cara a Veltroni e compagnia cantante. Patologico sarebbe, quindi, che il corpo elettorale, chiamato a una simile decisione, ne fosse disinteressato o, di suo, già portato alla mancanza di interesse. Che sia diventata una cosa, per contro, fisiologica, quasi naturale, è diretta e inevitabile conseguenza dello spappolamento istituzionale che vede il potere legislativo decisamente e quasi definitivamente transitato dal parlamento al governo in carica pro tempore, quale che ne sia la composizione, cioè da uno a un altro dei tre poteri.
Da quanti anni, da quanti decenni assistiamo a leggi che nascono come decreto legge, quasi sempre carente della sua principale caratteristica, vale a dire l’urgenza, per poi essere votato alle Camere spesso con chiamata di fiducia da parte dell’esecutivo che ha, come noto, sessanta giorni di tempo a che sia convertito in legge? Non ce lo ricordiamo. I contorni sono a tal punto sfumati che le – poche – leggi di iniziativa parlamentare finiscono esse stesse con il dover passare sotto le forche caudine della fiducia, sicché le differenze sbiadiscono e consegnano alla società una o l’altra legge che, in quanto approvata, ha un’unica e definitiva ragione d’essere e solo una campagna appassionata può arrivare a portare nelle case degli elettori, come ad esempio, quella che accompagnò i mesi che precedettero il voto referendario del dicembre 2016, che rigettò l’oscena riforma costituzionale del governo Renzi, le motivazioni per discutere, confrontare le ragioni di un referendum e infine votare secondo coscienza e volontà.
Una passione che non si vede, oggi.  Non intendo neppure scendere nel merito delle motivazioni che hanno portato a questa legge, se non per dire che mi paiono fortemente venate del populismo inteso nel modo e senso più gretti e cialtroni, figli di quello scellerato assalto alla diligenza chiamata ‘Casta’, brillante campagna di opinione, principalmente tesa a convincere gli italiani – con ottimi risultati, aggiungo – che fossero marci solo i rappresentanti politici e amministrativi, liberando la coscienza di coloro i quali, non meno marci di loro, li avevano ripetutamente votati e delegati al (mal)governo.
Mi limito a una sola osservazione, più o meno così riassumibile: oggi il rapporto parlamentari/popolazione è più o meno di un eletto ogni 63mila e qualcosa (scenderebbe a circa uno ogni 133mila, con l’attuale legge). Non mi pare una percentuale opinabile e francamente non intravedo la necessita di una riduzione, neppure sotto il profilo grettamente economico – la rappresentanza politica dovrebbe andare indenne da certe considerazioni davvero da bottega – che, peraltro, potrebbe essere ottenuto con drastici ridimensionamenti degli emolumenti e dei benefici concernenti il ruolo di eletto.
Ma, detto della percentuale e così giungo al vero punto della mia osservazione, se nel compilare la Costituzione la maggioranza di coloro che la scrissero ritenne opportuno che 945 parlamentari fossero un numero congruo per una popolazione di circa 35 milioni di persone – cito a memoria degli studi scolastici – all’epoca costituita, oltre a tutto, in buona parte da analfabeti e cittadini scarsamente in grado di comprendere un testo scritto anche di breve corposità, il numero dei parlamentari, 70 anni e qualche decina di milioni di abitanti in più, caso mai dovrebbe essere aumentato, anche per venire incontro a quello che dovrebbe essere un incrementato bisogno di partecipazione – e se tale non fosse, come di fatto non è, dovrebbe diventarlo, facendone obbiettivo civile di eletti ed elettori – certo non ridimensionato.
Ma qui si pone un’ulteriore serie di questioni: teniamo davvero a questo parlamento? A questa forma di democrazia indiretta? Seriamente riteniamo più importante la governabilità, quando essa si ponga in alternativa e a discapito della rappresentanza? Basta decidersi e agire di conseguenza, anche per non rimanere costantemente impantanati in una mediocre via di mezzo che nulla decide e nulla cambia.

Cesare Stradaioli