NON SI ABBANDONA LA MEMORIA

In natura, come è noto, il vuoto non esiste e quando qualcosa si sposta, qualcosa d’altro ne prende il posto.
E’ noto o dovrebbe esserlo: peraltro, si sa che il livello di conoscenza scientifica, nel nostro Paese è clamorosamente e scandalosamente arretrato, il che si manifesta non solo nelle aule accademiche o nella comune vita di tutti i giorni, ma anche nella pratica politica. Non dovrebbe costituire una novità, nell’esperienza di chiunque ma, tant’è: lo è, continuamente, rinnovandosi in maniera inspiegabile. Con questo intendo dire che chiunque sia dotato di un minimo di ingegno nota piuttosto agevolmente come, ogni qual volta presidi quali la legalità e la presenza dello Stato lasciano un luogo – fisico e morale – immediatamente esso viene occupato da altre realtà, necessariamente del tutto diverse, vale a dire abiezione morale, arretratezza culturale, criminalità, che sia micro oppure organizzata. Ne consegue – o dovrebbe – che l’abbandono di un luogo, come potrebbe dire qualsiasi caporale di qualsiasi guerra,raramente si rivela una scelta opportuna e strategicamente vincente.
Tale non è stata, infatti, quella operata dai rappresentanti del Partito Democratico, di abbandonare il luogo di celebrazione della giornata dedicata alla tragedia delle foibe, nelle vicinanze di Trieste. Irritati per la piega che aveva preso la celebrazione, definita anche da osservatori neutrali come una bieca manifestazione di propaganda negazionista, sia per le cose dette, sia per la qualifica degli oratori che le pronunciavano, i suddetti rappresentanti, un ex democristiano, già stretto collaboratore di Francesco Cossiga (e questo, già di per se dovrebbe qualificare il personaggio) e l’ex presidente della regione Friuli Venezia Giulia (di natali romani e infatti durante il suo mandato stava più tempo nella capitale a puntellare il governo Renzi che a occuparsi della Regione di cui era stata chiamata a prendersi cura – “sfrutto i trasferimenti notturni in treno per svolgere il mio mandato”, soleva ripetere con una certa boria e si vedeva: la carenza di sonno non aiuta a vivere bene, figuriamoci a svolgere una qualsivoglia attività politica – hanno deciso di lasciare il luogo e la manifestazione. Si tratta, in tutta evidenza, di un grave errore, politico e culturale.
Non importa quanto menzognere, strumentali, offensive alla memoria (il solo spendere la parola ‘genocidio’, come ha fatto la presidente del Senato, a proposito delle foibe e con questo metterla linguisticamente sullo stesso piano della Shoah, è di per sé oltraggioso) fossero le parole e le rappresentazioni usate; non importa che molti di costoro abbiano sfruttato l’occasione per fare l’ennesima e stucchevole propaganda politica che poco o nulla aveva a che vedere con le vittime delle foibe, essendo per contro praticata a esclusivo uso e consumo elettorale; anzi, proprio per queste ragioni il PD, nella persona delle figure mandate in loco col preciso scopo di parlare di Storia, doveva rimanere. Non fosse altro che per un motivo già valido per conto proprio: lasciare un auditorio significa consegnarlo a una voce unica. Poi, dopo, non ci si lamenti degli episodi più o meno nostalgici del Fascismo, peraltro mai completamente scomparso nel nostro Paese, fin dal 26 aprile 1945.
Va detto come non sia del tutto colpa loro: né dei due pallidi rappresentanti e neppure del partito come gruppo di elettori e figure istituzionali. Detta colpa va interamente ascritta al Partito Comunista Italiano e all’Anpi i quali, nel corso dei decenni, sistematicamente ignorarono, quando non coprirono, quanto accadde nelle zone intorno a Trieste – non solo foibe, dunque, ma anche ben altro – escludendolo dalla ricostruzione storica di un nobile fenomeno quale la Resistenza. Nobile, perché se è vero che il fenomeno socio-politico chiamato Fascismo sia di genuina matrice italiana, allo stesso modo lo è la Resistenza, non presente nell medesime forme in alcuno Stato europeo (men che meno in Germania) durante il secondo conflitto mondiale.
Bisognava parlare delle foibe. Era una questione di onestà storica e intellettuale: proprio perché era necessario farlo in un Paese, a tratti decisamente anticomunista e fortemente refrattario al cambiamento e all’idea di prendere definitivamente le distanze dall’orrore del Fascismo, e specialmente riguardo a fatti accaduti in una Regione la quale, per motivi di strategia geopolitica, era diventata l’ultimo baluardo contro l’Unione Sovietica, fortilizio di opposizione alla Cortina di Ferro e di importanza fondamentale per l’Europa della Nato e, dunque, Regione ancor più profondamente anticomunista e nostalgica del precedente regime.
Onestà intellettuale e opportunità politica – perché, poi, le mani si devono sporcare, in un modo o nell’altro – lo imponevano; se ho, dentro di me, il coraggio di dire la verità, specie se dolorosa e grave e umanamente terribile, una verità che richiede chiarimenti di spessore epocale, nel momento in cui compio questa operazione, di fatto lascio il mio antagonista politico – che di quella verità si potrebbe servire, e l’avrebbero immancabilmente fatto, per riscrivere la storia alleggerendo le proprie pesanti responsabilità e ricaricarle tutte altrove – con in mano una temibile arma scarica. Così non è stato: il che, dopo decenni di silenzio (che, a tratti, purtroppo somigliò sinistramente a una banale forma di negazionismo e il negazionismo non è mai banale), ha fatto in modo che di quella tremenda porzione di Storia fu accreditata a parlare una pletora di rappresentanti della destra più schifosa, opportunista, ignorante, berciante, analfabeta. Nei corridoi di partito e nella dirigenza partigiana fu deciso di scopare la polvere sotto il tappeto e prima o poi i tappeti si gonfiano e furono chiamati a occuparsene gli eredi politici di un fucilatore di partigiani e i corifei di un pregiudicato pericolosamente vicino alla mafia, proprietario di reti televisive con le quali ha manipolato e tutt’ora manipola decine di milioni di cervelli. Stupirsene è sciocco, se si considera quanto detto sul vuoto lasciato.
Era necessario parlare delle foibe, da subito, fin dai tempi in cui l’identità e l’appartenenza di Trieste era dibattuta e contesa, come in una grottesca causa di rivendicazione di confini. Sarebbe così stato agevole, istruttivo e – non vi si insisterà mai a sufficienza – intimamente onesto, spiegare il perché accadde l’orrore delle foibe, inquadrarlo in una precisa collocazione storica, non dimenticando quanto tutti coloro che vivono nelle vicinanze sanno benissimo, vale a dire che la pratica di infoibare qualcuno risale a secoli addietro, per qualsiasi motivo, politico o personale.
I rappresentanti del PD dovevano rimanere e parlare, spiegare, perfino confessare gli errori di un passato: a essere chiari e schietti non si sbaglia mai e si rischia perfino di recuperare un elettorato malinconicamente deluso, anche sul piano umano, da un certo ceto politico. Adontarsi adesso di quanto è accaduto, l’altro giorno come 70 anni fa a Bassovizza, è pratica ridicola e particolarmente stupida, poiché da l’idea di voler ricostruire la Storia con bende e cerotti e di voler giustificare le foibe come risposta alla vera e propria pulizia etnica che il Fascismo praticò in Jugoslavia prima e soprattutto durante la seconda guerra mondiale, il che significa, fra le altre cose, equiparare i due fatti, il che è inaccettabile. Parlare, ora, di quanto accadde nella zona di Bassovizza, a maggior ragione dopo l’abbandono della manifestazione, dà l’idea di essere quello che è, vale a dire una giustificazione.
E’ pur vero, come disse tempo fa Moni Ovadia, che non è che una mattina Tito si svegliò e decise di ordinare di infoibare gli italiani ed è altrettanto vero e mostruoso che a pochi chilometri da Bassovizza, in pieno centro a Trieste, si trovasse l’unico campo di raccolta e sterminio non tedesco e non polacco, ma questo ha un significato relativo, in questa presente situazione. Poiché in guerra non si può e non si deve giustificare nulla, ma solo spiegare tutto: perché comincia, come si sviluppa e in che modo finisce. Come sanno tutti gli storici e le popolazioni che vissero la fine di ogni conflitto, quando una guerra giunge agli ultimi mesi accadono sempre cose orribili e disumane, solitamente le più difficili da raccontare e ricordare, ma proprio per questo necessitano che lo si faccia.
Per non lasciare la pratica della memoria a chi non ne ha, storicamente e politicamente, il diritto.

Cesare Stradaioli