SPETTACOLI E BUFFONI

E’ davvero indecente lo spettacolo umano e politico che offre il Partito Democratico. La svolta costituita dall’esito del referendum, del 4 dicembre, lungi dal produrre riflessioni, autocritica, quanto meno l’abbozzo di un’apertura verso altre, diverse problematiche che affliggono il nostro Paese e, più in generale, la politica mondiale, si sta sostanziando in un’alternanza di comportamenti e dichiarazioni che denotano una pochezza individuale e collettiva della dirigenza di quello che dovrebbe essere il partito guida del Paese e della Sinistra – o di ciò che ne resta.

Ma non poteva che essere così. Ci sono momenti nella vita, in cui rivendicare che questa o quella cosa la si era già detta o preconizzata anni addietro, dà solo un senso di avvilimento che rischia di rasentare l’indifferenza. Oggi sentiamo Massimo Cacciari sferzare la natura stessa del Partito Democratico, nel definirlo un’improbabile – per non dire impossibile – tentativo di fare convivere due anime, una di ex democristiani e l’altra di ex comunisti: e bella scoperta! E ci voleva l’ammuina della cosiddetta scissione, per capirlo? Un indigeribile minestrone di culture, esperienze politiche e umane, idee, radici, ideali, aspirazioni talmente diversi, antitetici e inconciliabili, che solo menti confuse o lucidamente tese a giungere a una falsa ingovernabilità, per mettere la politica in un angolo e lasciare campo libero e indiscriminato all’economia di mercato, potevano avere concepito.

In definitiva, i rivolgimenti interni al Pd non sono altro che una quasi totale capacità di parlare la medesima lingua; non si tratta di differenti posizioni o strategie all’interno di un progetto con finalità comuni, dove si decide (congresso o meno) il programma tramite il qual raggiungere queste finalità, bensì di vera e propria incomprensione dovuta a diversità di linguaggio e, ancora una volta, non poteva che essere così, perché avere idee diverse è legittimo e auspicabile, mentre molto meno auspicabile è ficcarle a forza, tutte insieme, all’interno di un progetto che, per definizione, non può essere lo stesso e che, pertanto, non può puntare a medesimi risultati.

Questo è il partito ‘liquido’ che sognava – e che purtroppo ha visto realizzarsi – Veltroni; questa è l’alternativa al dirigismo, ai politici di professione; questo è, come quasi vent’anni fa lo definì Filippo Ottone, l’arrivo al governo del Bar Sport. Ma questo spettacolo indecoroso è niente, a paragone del baratro scavato fra i cittadini e i rappresentanti istituzionali. Uno spaventoso deficit di rappresentatività, che però non garantisce la governabilità, parola ormai sputtanata quasi quanto ‘libertà’ – serve ancora, ripetere che il fascismo e il nazismo, come di regola pressoché tutti gli Stati autoritari, fossero in grado di garantire un eccellente livello di ‘governabilità’? – è il vero stigma di questa stagione di vera antipolitica, che sembra non finire mai e peggiorare sempre.

Premono urgenze quali lavoro, disoccupazione, scuola, immigrazione, povertà, disorientamento sociale, abbruttimento e incarognimento delle persone – per non parlare dell’ancora lontanissimo raggiungimento di livelli appena accettabili di decenza sociale quali il testamento biologico – e il ridicolo balletto delle scissioni ma non tanto, delle alternative però vediamo, dei programmi che dipende da, non fa altro che rappresentare la miseria di una assoluta carenza di pensiero e di visione politica. La forma partito è sbiadita, ma ancora non ha raggiunto (e nel nostro Paese difficilmente la raggiungerà) la forma movimento di opinione; e così ci troviamo delle incompiute, senza i pregi ma con tutti i difetti di quello che erano e di quello che vorrebbero essere.

L’irruzione ai livelli della rappresentanza politica dell’uomo qualsiasi (uomo qualunque è brutta definizione), del cittadino onesto, non compromesso fa il pari con quella solenne idiozia che sono le primarie all’italiana. L’onestà al governo genera solo immobilismo, incompetenza, indecisione, soprattutto mancanza di capacità di confronto, logica conseguenza della mancata preparazione al dialogo con le opzioni diverse, in definitiva, il facile ricorso alla via sbrigativa del ‘non c’è alternativa’, quando la costante ricerca dell’alternativa è uno dei tratti più importanti e preziosi della politica. L’arrivo di diversi rappresentanti del M5S alla guida di istituzioni pubbliche e i disastri che, per la più gran parte delle volte ne sono scaturiti, è la più pregnante dimostrazione del fatto che l’onestà è indispensabile, ma non può in alcun modo essere sufficiente a praticare la politica. Basti pensare a quanto sta accadendo al Comune di Roma e mi pare che si possa affermare di avere detto tutto, in proposito.

Quanto alle primarie, è quasi incomprensibile come una tale buffonata possa essere stata conculcata nelle menti dei cittadini, praticamente senza colpo ferire, come se tutti i rappresentanti politici – escluso Berlusconi, il quale alle primarie non pensa neanche per sbaglio, ma per ragioni tutt’affatto diverse – fossero stati folgorati da questa brillante trovata che dovrebbe, secondo l’intendimento di chi le ha importate dagli Usa (dove si svolgono per ragioni e in contesti del tutto differenti), garantire una maggiore partecipazione dei cittadini alla scelta dei candidati nei quali si identificano.

Attendo da tempo che qualcuno mi spieghi il perché le primarie dovrebbero dare questa garanzia. Al di là del mercimonio delle tessere, acquisite come se fossero biglietti presi dai bagarini (con la differenza che i soldi li prendono in luogo di darli e, a proposito di Stati Uniti, lì se uno compra voti per le primarie finisce in un carcere federale, mentre da noi viene intervistato e, d’altra parte, come stupirsi di questa forma di disonestà, in un Paese in cui la questione morale e il cancro della corruzione sono quotidiano oggetto di indagini, processi e spettacolari quanto inutili analisi televisive) per portare voti a questo o quel candidato, l’equivoco di fondo consiste nel fatto che, in ogni caso, i cittadini elettori votano un nome che si trova in una rosa pur sempre compilata dal vertice del partito. Sarebbe QUESTA l’alternativa rappresentativa alle decisioni di un comitato centrale, di una segreteria, di una direzione davvero politica?

Nella città dove passo la maggior parte del mio tempo, Padova, fra qualche mese si terranno le elezioni per il prossimo sindaco. Mentre la Lega corre con un candidato forte, lui sì fortemente rappresentativo, il suo principale concorrente, tale signor Giordani, definito onesto e capace – me ne compiaccio: vorrei anche vedere che non fosse così – compare sorridente nei manifesti elettorali senza alcun segno identificativo. Pare che sia sostenuto dal Pd e da un imprecisato e non esattamente qualificato numero di liste civiche di destra (a proposito di orrendi minestroni): ma nei manifesti che lo presentano e che invitano a votarlo, non esiste alcun simbolo di partito o movimento. Giordani e basta – neanche il nome proprio.

Questa è la conseguenza di una doppia, micidiale operazione che, da un lato, in una sistematica operazione di personalizzazione esalta il singolo, il capo, l’uomo forte che dirige e, dall’altro, spersonalizza il concetto di politico, portando a votare la persona e non il suo ideale, il suo progetto, la radice politica dalla quale lui e il suo programma scaturiscono; in tal modo, poco o nulla conta il simbolo, anche perché si danno alleanze – spudoratamente strumentali alla divisione dei poteri e dei denari all’interno di un’amministrazione – che una ventina di anni or sono sarebbero state definite semplicemente intollerabili e impensabili, le quali per il solo fatto di generare apparentamenti che definirei contro natura, non possono neanche averlo, un simbolo comune identificativo.

Vorrei chiedere al mio giornalaio, ai miei vicini, alla gente che incontro tutti i giorni, se sanno chi sia, se lo votano e per quale motivo. Vorrei chiedere loro se preferiscono questo modo di mandare qualcuno a ricoprire la carica di sidnaco o se non troverebbero più consono un dibattito politico che preceda e produca una candidatura, preferibilmente designando un nome che sia disposto, prima di ogni altra cosa, alla collaborazione e a fare gioco di squadra con la sua compagine amministrativa e non a puntare al successo personale, mettendoci la faccia, come ripeteva buffonescamente qualcuno che poi, presa su quella faccia la sberla dell’esito referendario, continua a mettercela, invece di tenerla a casa, mantendendo – tanto per cambiare – una promessa fatta.

Cesare Stradaioli