Giochi olimpici e corruzione – II°

Il sistematico accantonamento dall’agenda politica della questione criminalità organizzata è strettamente connesso a quella che, un tempo lontano, fu chiamata ‘questione morale': la questione della corruzione.

Ora, io penso che intorno alla questione della corruzione sia necessario qualche chiarimento. Da tanto tempo, troppo, è invalso un tipo di pensiero omogeneo, sostanzialmente vincente e apparentemente inattaccabile, secondo il quale i mali della nostra società – e, per certi versi, utilizzando l’analogia alla bell’e meglio, anche altre – siano in definitiva riconducibili alla disonestà della nostra classe dirigente; alla sua ignoranza, alla sua impreparazione, al suo scarsissimo (per non dire: inesistente) senso dello Stato. Certo, le radici del disfacimento sociale italiano sono lunghe e partono da ben prima dell’irrompere delle televisioni private e di Berlusconi, il quale non ha fatto altro che dissotterrarle, sdoganarle, queste radici, allo stesso modo in cui ha sdoganato i fascisti al governo e dintorni; e tanti sono i guai, tanti sono i guasti da avere cento padri e cento madri.

Ma la vulgata predominante, oggi, nella nostra società è quella della Casta; il fortunatissimo libro di Rizzo e Stella – bollato anni fa da Luciana Zerbetto, notissima esponente politica del padovano, come qualunquismo puro (con ragione da vendere, come spesso le capitava: in realtà non era altro che lucida capacità di analisi e sintesi, imparata e studiata sui duri banchi della scuola di Partito) e con un discreto anticipo, aggiungerei – è stata la svolta di pensiero e di propaganda, ignoro quanto voluta dagli autori (né me ne interessa più che nulla), sorgente di slogan e di demagogia alla quale si sono abbeverati direi quasi tutti in Italia: non limitandosi a dissetarsene, provvedendo invece a imbottigliarne il prezioso liquido al fine di distribuirlo all’elettorato – da noi la campagna elettorale non finisce, se mai agisce sottotraccia e del resto è inevitabile da quando un gruppo di geni della politica ha pensato di fare in modo che elezioni politiche e amministrative si alternassero, un po’ come i Mondiali di calcio e le Olimpiadi, ogni due anni per non perdere la tensione.

Il qualunquismo che sta alla base del libro e di tutto quanto ne è seguito sta nel fatto di avere provato, riuscendoci alla grande, a convincere i lettori prima, e subito dopo la più generale massa di elettori, comunque di cittadini, che corruzione, concussione, interesse privato in atti d’ufficio, perfino l’assenteismo fossero fatti illeciti cosiddetti ‘monosoggettivi’, cioè commessi da un unico soggetto: il corrotto, il disonesto, pubblico ufficiale o comunque rappresentante istituzionale e che di questa monosoggettività, cioè di questa azione posta in essere da una sola persona caso per caso, abbia a beneficiarne per l’appunto l’unico soggetto, con relativo e corrispettivo danno per tutti. E’ evidente che questa teoria, questa vulgata assolutamente vincente in quanto parte integrante e fondamentale del pensiero comune dell’intera cittadinanza – irresistibile, in quanto ripetuta a tamburo battente – abbia costituito un magnifico lavacro di coscienza per un discreto numero di nostri connazionali: è il politico, il disonesto; il sindaco, l’assessore, il consigliere, il geometra del comune, l’assenteista. Loro sono la causa del fenomeno della corruzione e questo mantra viene ripetuto all’infinito, senza considerare neppure per un momento che se c’è un corrotto a percepire la tangente, ovviamente c’è un corruttore che la porta e per forza di cose a proprio tornaconto; che se centinaia di vigili urbani producono certificati medici in prossimità dell’ultimo dell’anno o se ci sono decine di migliaia di falsi invalidi o falsi ciechi, ciò è dovuto al fatto che ci sono centinaia e forse migliaia di medici compiacenti (o in diversi casi semplicemente cialtroni, facciano loro) che li firmano, quei certificati che danno diritto a non lavorare o a percepire una pensione non dovuta. Il tutto, questo sì, a scapito della collettività.

Questo, credo, spiega la riluttanza a trattare della corruzione, a parlarne: al di là della corruzione quando diventa sistema di controllo politico – si dice che un politico si corrompe una volta sola, poi per il resto della sua vita lo si ricatta – quella diffusa, quella di tutti i giorni, vede i cittadini corruttori, beneficiari di regalie, di privilegi, di favoritismi – di certificati! – quali portatori di interessi personali che per forza di cose vanno contro quelli della collettività e da ciò ci si chiede: può il singolo rappresentante istituzionale avere interesse a sputtanare coloro i quali gli passano la busta o spianano la strada alle carriere dei familiari o gli fanno avere viaggi di lusso o week end nei finalmente liberi Paesi ex Cortina di Ferro, generosi nel fornire il servizio più ricercato in occidente?

Può, una classe dirigente – peraltro eletta dai cittadini, non certo ascesa alla stanza dei bottoni dopo un colpo di Stato – certamente ignorante, miserabile, meschina, vendicativa, debole coi forti e forte con i deboli, sostanzialmente povera di preparazione politica (e per forza, dopo la distruzione delle scuole di partito) rivolgersi alla cittadinanza esortando, come dovrebbe se fosse onesta, a fare fronte comune contro la corruzione e il malgoverno, con la consapevolezza che una bella fetta dei destinatari del messaggio sono coloro che la foraggiano, la corruzione, che mantengono il malgoverno del Paese?

Allo stesso modo in cui ogni qual volta si parla di evasione fiscale in genere si riceve uno sbuffo di insofferenza come risposta – dato che, una volta tanto, è chiaro che a parte qualche caso, non sono i politici a evadere il fisco ma siamo noi italiani, noi elettori, noi cittadini – evitare per quanto possibile di parlare di corruzione è un modo per deviare le responsabilità, per spostarle altrove, puntandole contro uno solo dei (necessariamente due e in alcuni casi più di due) soggetti che compongono l’illecito chiamato corruzione o concussione o interesse privato in atti d’ufficio, per lavarsi la coscienza, per mantenere vivo a dispetto dei millenni, il concetto di capro espiatorio o, comunque, l’idea che il reato lo commettono gli “altri”, non io singolo cittadino.

E’ il politico che prende i soldi – da chi?; è il consulente che firma falsi elaborati peritali – per conto di chi?; è l’impiegato comunale che sta a casa con un certificato medico fasullo – firmato da chi?: e tutto questo, per bontà d’animo o in cambio di qualcosa?

E’ sempre qualcun altro che evade le tasse; è sempre l’altro – il politico – a essere disonesto; l’assassino che ha stuprato e ucciso il bambino è un corpo estraneo alla comunità (stramaledetta parola, portatrice infetta di individualismo, separatismo, antisolidarismo), la quale per contro è sana, immune da certe bestialità, come se il violentatore, il marito o compagno omicida provenissero dallo spazio profondo, in compagnia dell’evasore fiscale e del politico corrotto.

Per queste ragioni è deludente – certo, non inaspettato – che la diatriba riguardante l’assegnazione a Roma delle Olimpiadi del 2014 abbia trattato di svariati temi ma mai quello più centrale, il nervo scoperto della nostra società. E fino a quando non se ne parlerà come si deve, non sarà affrontato come si deve: e non sarà risolto.

Cesare Stradaioli