NON SANNO DI CHE PARLANO (E QUANDO NE PARLANO, VANNO PURE FUORI TEMA)

Al di là di mere ragioni di opportunità e di buon gusto che consigliano di non avventurarsi nel terreno minato degli argomenti sui quali non si ha la necessaria esperienza – che già di per loro sarebbero sufficienti – vi è un ulteriore motivo che milita in favore del mai tanto ripetuto e mai tanto disatteso adagio, secondo il quale le sentenze si rispettano, non si commentano, ed è il seguente, unicamente basato sui numeri.
Prendiamo, non a caso, la vicenda giudiziaria relativa a una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, in merito a un processo per stupro, con sentenza cassata e rinviata ad altro giudice di appello, della quale sentenza è emerso unicamente un principio che ha dato l’immancabile stura a tutta una serie di commenti. Il numero, per quanto qualificante è, però, impreciso: diciamo una ventina o qualcosa in più.
Si tratta dei difensori – ipotizziamo due per ciascuno dei due imputati, il patrono di parte civile per la persona offesa – che può averne uno solo –  il pubblico ministero che ha condotto le indagini e presentato il processo al giudice per le indagini preliminari che ha disposto il rinvio a giudizio (mettiamoci pure, in ipotesi, il tribunale del riesame, ove vi siano state misure cautelari: tre giudici), il collegio di primo grado che aveva assolto gli imputati, il sostituto procuratore generale, il collegio di appello – sempre tre, come quelli di primo grado – che li aveva condannati e cinque o sei giudici della Cassazione. Costoro sono gli unici dei quali si può più che ragionevolmente essere sicuri che conoscano gli atti del processo – con qualche pallida riserva su alcuni dei giudici della Suprema Corte, dato che difficilmente l’intero collegio studia approfonditamente la causa, ma insomma ne sanno a sufficienza per decidere, sotto la guida del giudice relatore.
Tutti gli altri 60 e passa milioni di cittadini italiani, incluso chi scrive e inclusi gli imputati e la persona offesa, i quali non è sempre detto che abbiano piena e completa conoscenza di tutto il fascicolo processuale, per ovvi motivi, li ignorano: e dato che le motivazioni non sono state ancora depositate, in merito alla loro lettura, conoscenza e comprensione (aspetto fondamentale per chi non si limiti a capire il futuro guardando le stelle), il numero va drasticamente ridotto agli appartenenti alla sezione della Corte di Cassazione che ha pronunciato il dispositivo, anzi nemmeno a tutti loro; con l’unica eccezione del relatore il quale, pur se verosimilmente non ha ancora redatto per intero dette motivazioni, dovrebbe averle ben chiare in testa.
Eppure, nemmeno un giorno dopo, si scatenano osservazioni, appunti, accuse, recriminazioni, censure, rimproveri e chi più ne ha più starnazzi. Dispiace che in questa indecorosa canizza di reazioni – indecorosa per i toni e per il suddetto motivo relativo ai numeri di cui sopra – ci si sia messa una mente pronta e acuta quale quella di Michela Marzano. La quale, per dirla in maniera franca e senza ipocriti giri di parole che la eminente opinionista non merita, stavolta l’ha proprio fatta fuori dal buco. E per due ragioni.
La prima è piuttosto semplice da rilevare: a parte un preambolo sul caso specifico, i rimanenti grosso modo 4/5 dell’articolo apparso su Repubblica si limitano – è il caso di dirlo – a osservazioni, richiami e considerazioni di una tale ovvietà e condivisibilità (vorrei proprio trovare qualcuno che non possa concordare con essi), e che però, nulla hanno a che fare col caso di specie e, più nello specifico, con la questione relativa alle aggravanti in un caso di violenza sessuale. In due parole, va proprio fuori tema.

[Mi limito ad analizzare il commento della Marzano, in quanto la più gran parte degli altri, in merito ai quali è difficile stabilire se siano più idioti i titoli o i loro contenuti – per non parlare dell’incauto intervento di una rappresentante del Pd, tale Riotta, la quale lamenta che la sentenza della Cassazione “non aiuta le donne”; ignorando, da brava ignorante qual è (è da chiedersi chi le abbia dato il permesso di occuparsi di cose che non conosce) che le sentenze non devono “aiutare” nessuno, né possono intervenire a supplire a carenze legislative, dovendo, se mai ed esclusivamente, accertare la verità processuale – davvero non meritano attenzione, tanta pochezza e tanta sloganistica contengono]

La seconda ragone attiene alla conoscenza degli atti.
In ragione della professione che svolgo, mi capita di leggere un paio di centinaia di sentenze all’anno; di queste, la maggior parte sono della Corte di Cassazione e ovviamente di tutti iprocessi cui attengono, non conosco che, per l’appunto, solo le sentenze che leggo, numero dal quale vanno escluse quelle che mi riguardano in quanto trattano di processi vissuti direttamente come difensore e che, pertanto, sono le uniche che si riferiscono a indagini che conosco piuttosto bene nella loro interezza. Ritengo, tuttavia – e se i resoconti di stampa non sono eccessivamente imprecisi – di poter affermare che la Cassazione ha annullato una sentenza di condanna emessa da una corte di appello, mandandola ad altra diversa sezione (non assolvendo, quindi gli imputati), sostenendo che siccome la persona offesa, durante una cena conviviale con due uomini, aveva assunto di propria iniziativa e liberamente una certa quantità di sostanza alcolica – tale, a quanto sembra, da non farle ricordare gli atti sessuali imposti, ma di averne dedotto l’avvenuta consumazione in momento successivo – non possa essere contestata aglli imputati l’aggravante che viene contestata a chi abbia in prima persona provocato nella vittima lo stato di ebbrezza che avrebbe azzerato volontà ed eventuale resistenza agli atti sessuali. I giudici che dovranno occuparsi del processo assegnato loro dalla Suprema Corte, avranno piena facoltà di comminare, se lo riterranno, la sentenza che vorranno, a uno o a entrambi gli imputati, in misura anche superiore ai 3 anni della precedente corte di appello: avranno l’unica limitazione per la quale non potranno applicare l’aggravante di cui sopra, per le ragioni esposte.
Tutto qui. Nessun favoritismo. Nessun passo indietro. Nessuna rivincita di menti retrograde. Nessun pericolo che, come capitava tristemente un tempo, un avvocato possa permettersi di mettere sotto accusa la vittima di uno stupro. Chiunque frequenti le aule in cui si tengono i processi, sa bene che al minimo accenno di comportamenti quali quelli portati alla ribalta da inchieste degli anni ’70 e ’80, se non il Pubblico Ministero stesso, ci sono tre Giudici che vigilano affinché cose del genere non accadano più – e, di fatto, più non accadono: ne è garanzia il fatto che circa il 65% dei magistrati italiani sono donne.
Resta il rammarico di come anche persone dotate di ingegno e di alto livello culturale, pari alla sensibilità personale e alla conoscenza delle rispettive competenze, cadano nel tranello del voler dire la loro, senza avere la minima conoscenza di fatti, atti, risultanze di indagine e valutazioni in punto di diritto penale. Del resto, perché stupirsi? Questo è il Paese dove una testata prestigiosa quale l’Espresso, riservava le critiche cinematografiche ad Alberto Moravia, che non ricordo avesse alcuna competenza in proposito. Appena assurto alla notorietà, Nanni Moretti si lasciò scappare nel corso di un’intervista una forte punzecchiatura – non ricordo se fosse proprio diretta a Moravia stesso: non importa – dicendo che lui, essendo un regista, non teneva una rubrica di critica letteraria, proprio in quanto non ne aveva gli strumenti adatti di conoscenza in materia.
“I giornalisti sportivi, per la maggior parte delle volte, parlano ad minchiam“, è la celebre frase attribuita al mitico professor Scoglio, che nella vita incidentalmente allenava squadre di calcio, peraltro con la severità e il cipiglio degni di un docente di greco al liceo classico. Qualcuno dovrebbe andare a dirglielo – dovunque egli sia ora – che sarebbe un mondo migliore se fossero solo loro a parlare in quel modo.

Cesare Stradaioli