NON CI SONO RAGIONI

La tempesta mediatica che si è abbattuta su Rita Dalla Chiesa è, nel suo complesso, da rigettare senza remore e questo per due motivi: primo, dileggiare qualcuno raramente porta al fine prefissato (posto che ve ne sia uno: in genere, il destinatario rafforza la propria posizione); secondo, nel caso specifico, consegna la figlia del generale ucciso in un agguato quasi quarant’anni fa a un ruolo che non merita di avere, cioè della persona offesa.
Offesi siamo noi, che aborriamo la mafia e, in genere, la criminalità organizzata e il verbo assume particolare significato quando la devianza criminale oltrepassa un certo limite e influisce in maniera pesante, devastante e incontrollata sul tessuto sociale, sull’economia, sui rapporti interpersonali: su tutti noi.
Nel corso degli anni, decenni ormai, abbiamo anche imparato a capire la scelta di un certo numero di persone, donne e uomini che conoscevamo di persona o indirettamente tramite le loro vicende artistiche, culturali, politiche, che mai avremmo pensato avrebbero potuto anche solo trovarsi nella stessa stanza con Silvio Berlusconi, senza prendere e andarsene per non condividere alcunché con il magnate televisivo e non solo.
Parafrasando Gaber, qualcuno era berlusconiano perché credeva onestamente nel liberalismo, nella libertà uguaglianza e fraternità – senza limiti, in definitiva – perché intendeva regolare conti personali e/o politici con qualcuno o qualcosa, perché doveva sfogare impulsi primari derivanti da un’adolescenza mai del tutto superata, per anticomunismo barbarico e viscerale, per bieco calcolo di potere ed economico, per ottusità senile anche in giovane età. Ne abbiamo sentite e viste di ogni colore e formato, ma la scelta di Rita Dalla Chiesa davvero supera ogni accettabile limite e ciò che più colpisce non è tanto la decisione della singola persona, quanto le opinioni a favore o non apertamente a disfavore a dette e scritte in proposito.
Qui non si tratta di prendere una posizione contro la mafia: per quante bestialità ci sia toccato di leggere ed ascoltare negli ultimi trent’anni, sarebbe inverosimile che la presentatrice televisiva giungesse ad affermare che il fenomeno sia sopravvalutato o che ci si debba convivere o addirittura sedercisi a tavolino alla stregua di un nemico in situazione bellica, col quale fare accordi e trattati (è noto a molti, non a tutti, che le tregue non si stipulino con gli alleati). Men che meno la cosa va personalizzata; si può essere in aperto disaccordo con i nomi più noti e nobili, magistrati, giornalisti, intellettuali, che in punto di lotta alla mafia hanno preso posizioni forti e alle volte anche discutibili. Un uomo dello spessore morale e culturale quale Leonardo Sciascia ebbe parole di fuoco sui cosiddetti ‘professionisti dell’antimafia’ – con tutto il profondo portato di sicilianità che connotava la definizione, lo scrittore e i destinatari: non agevolmente comprensibile per chi non sia isolano per nascita – e non di meno apparirebbe incredibile, fosse ancora in vita, un suo incarico pubblico nella formazione politica di qualcuno che ha avuto fino a cinque minuti fa (aspettiamo la prossima intemerata dichiarazione) parole di elogio per un condannato definitivo per mafia come Marcello Dell’Utri e che in pubblico chiamò ‘eroe’ un figuro quale Vittorio Mangano, elemento di spicco dell’associazione criminale tale che non dovrebbe sorprendere se dovesse emergere la sua partecipazione alla decisione di assassinare il prefetto di Palermo, incidentalmente padre della suddetta figura televisiva – e con lui, tanto per non dimenticarselo, la giovane moglie e un disgraziato agente di p.s. messo da solo a improbabile scorta di uno fra i più pericolosi e temuti antagonisti di Cosa Nostra.
Non ci interessa sapere perché la signora Dalla Chiesa si sia candidata in una lista berlusconiana: che ciò dipenda da una decisione libera o condizionata da un’offerta che non poteva rifiutare (in questo caso, anche la genesi dell’eventuale obbligo sorgerebbe da un libero agire), sono affari suoi e della sua coscienza; così come è un problema suo, comprendere o meno l’offesa che ha recato alla memoria del padre e a noi cittadini. Paradossalmente, mentre c’è da essere sorpresi dalla sua decisione (c’entrerà pure il rapporto di parentela), nulla di nuovo emerge invece da chi la difende: una certa, solita Italia, demente, smemorata, idiota, ipocrita, con cui ci deve pure confrontare. Quanto alla signora, non rimane che augurarci un suo fallimento elettorale e che se ne vada a quel paese, possibilmente alla ricerca della legge morale dentro di sé, che non è – quasi – mai troppo tardi.

Cesare Stradaioli