NON BASTA

Una sentenza, perfino i primi passi di un’indagine, arrivano sempre DOPO.
Dopo che un fatto è accaduto – o si presume che lo sia. E’ il motivo principale per il quale ritengo di non dover credere nella giustizia: nel diritto, se mai. Se da un acquario si può trarre una zuppa di pesce ma logicamente non è possibile avere il processo inverso, allo stesso modo neppure la sentenza più equa, meditata, ponderata, perfino quella più spietata, pesante, innervata di spirito di vendetta e cieca rivalsa può riportare in vita un corpo morto. Ma non basta: neppure una sentenza, mai ma specialmente nel caso dell’uccisione di Stefano Cucchi.
La giustizia non basta, perché ieri giustizia non è stata fatta e non solo perché, passata l’emozione del momento, la famiglia di Stefano Cucchi prima o poi comincerà seriamente, più di quanto abbia fatto finora – certamente sarà stato fatto tantissimo – a convivere con la certezza che qualcuno non c’è più. E se non è sufficiente sapere che, forse (esistono pur sempre dei gradi di giudizio in questo Paese) due persone trascorreranno anni in prigione, a maggior ragione non lo è se costoro non sono altro, per la coscienza di tutti, che due capri espiatori.
E così, avremo due persone, indegni non solo e non tanto di portare la divisa, ma anche di chiamarsi cittadini, coperti di indignazione e allontanati come appestati dall’Arma di appartenenza e, verosimilmente, da amici e una buona parte di parenti, porteranno con sé lo stigma dell’omicidio aggravato, pur se avvenuto oltre le intenzioni: finirà tutto lì, quando diventerà definitiva una sentenza nei loro confronti, quale che potrà essere. E cambierà poco, anche se dovrà essere di assoluzione.
Perché altri, tanti altri, avrebbero dovuto trovarsi sul banco degli imputati, insieme ai quei due. Questi ultimi hanno preso a botte, a calci in faccia (gesto potenzialmente letale anche subito), a pugni e sberle un uomo, quello che viene chiamato tossico: può essere che in quella situazione si fosse comportato come uno che imprecava, che insultava, magari, insolente e insofferente per l’autorità, capace di far saltare i nervi anche alla più mite e tollerante delle persone. E forse no, non lo sapremo mai e non ci interessa. In ragione della mia professione potrei scommettere una cifra anche non solo simbolica, di avere avuto a che fare con simili individui in misura maggiore di quanto sia capitato ai due carabinieri, sicché posso dire di saperne qualcosa a proposito di quanto possa essere difficile rapportarcisi. Ma quei pugni, quei calci in faccia, quelle sberle, quella rabbia o esasperazione, si sono manifestati in un solo, ridotto periodo temporale; altri hanno visto i segni, hanno sentito i lamenti: e non hanno mosso un dito.
La scorta che lo ha accompagnato in tribunale per la convalida dell’arresto; i cancellieri presenti in aula; lo stesso avvocato d’ufficio; il giudice che ha disposto la detenzione; gli agenti di polizia penitenziaria; il personale ospedaliero, medici e ausiliari. TUTTI costoro, in momenti diversi hanno visto i segni, hanno sentito i lamenti, hanno ascoltato le richieste di aiuto e anche e soprattutto il silenzio, del tutto preoccupante – lo sa bene qualsiasi studente di medicina al primo anno di corso – in chi abbia subito colpi alla testa. Tutti costoro si sono resi conto dello scempio umano provocato dai due che sono stati condannati ieri e non hanno fatto nulla. Non si sono fatti domande: peggio ancora, se per caso se le sono fatte. Non hanno chiesto o prestato soccorso, non si sono rivolti a chi di dovere, non hanno chiamato, non hanno telefonato, non hanno scritto referti o verbali – in un Paese in cui si scrive troppo e inutilmente. La loro vita è passata vicino a quella di un ragazzo pieno di lividi, di segni, barcollante, gobbo, chino, storto, sofferente e ne avrebbero avuto più pietà se si fosse trattato di un cane abbandonato.
Vili, codardi, uomini e donne senza spessore, malvagi dentro o solamente vuoti, aggrappati al tengo famiglia, all’obbedienza cieca e idiota, al timore delle conseguenze; uomini e donne di poco valore, come di poco e sporco valore sono le lamentazioni che chiunque di loro verosimilmente rivolge alla politica o alla società, per i motivi più svariati, sdegnati per la corruttela di cui si macchia chi è stato da loro stessi e per primi votato. Valore scarso e sporco perché scarsi e sporchi sono LORO, miserabili uomini e donne di cartone, attaccati solo ai propri interessi del piccolo e lurido quotidiano e ciechi per calcolo, stupidità, convenienza. Qualcuno, personale medico interno al circuito carcerario o a quello esterno, è stato processato e assolto. Non mi interessa, non ci deve interessare. Esistono responsabilità che vanno oltre quella penale, la quale nella sua procedura deve seguire determinati percorsi di garanzia che spettano di diritto a chiunque venga chiamato a rispondere di fatti penalmente rilevanti. La stessa garanzia non può e non deve essere invocata per quanto riguarda responsabilità morali. Chiunque abbia visto come era ridotto il corpo ancora vivente di Stefano Cucchi ha concorso nel suo calvario che, a differenza del pestaggio, è durato ore, giorni e di questo concorso rispondono con la presunzione di colpevolezza, direi quasi insormontabile, che resiste e va logicamente oltre alla pronuncia di un giudice, che tratta di diverse responsabilità. Le loro, quelle di tutti noi, non si trovano nel codice penale, poiché qualunque codice scritto è incapace di contenerle tutte, per numero e significato.
La sorella di Stefano Cucchi ai augura che il fratello possa finalmente dormire in pace. Spero che, a fianco della consapevolezza di non averlo più vicino, questo pensiero le porti almeno un po’ di pace. Quella che noi non possiamo e non dobbiamo avere: per disgrazia sua e dei familiari suo fratello non è più fra noi, mentre tutti costoro, colpevoli di indifferenza continuano a viverci accanto, a decine, a migliaia, a milioni, a lordare la loro e la nostra vita ed è proprio un pensiero rivoltante.

Cesare Stradaioli