MORTE (TUTT’ALTRO CHE IMPRONOSTICABILE) DI UN PARTITO MAI NATO

Che la forma-partito, così come la conoscevamo e com’è individuata nella Costituzione, non sia più consona e neppure adattabile all’attuale sviluppo delle dinamiche politiche e sociali, piaccia o meno è un dato di fatto e quello degli unici due che nel XX° secolo riuscirono a portare a ideare e realizzare una Rivoluzione sosteneva che i dati di fatto hanno la testa dura. Tuttavia, se buona parte – la maggiore – dei caratteri che connotavano un classico partito fino a tre quarti del secolo scorso si è persa per strada o ha fatto il proprio tempo, per dare vita a una forza politica degna di tale nome, devono necessariamente essere presenti principi e punti di partenza i quali, in un modo o nell’altro, fungano da collante e coordinamento di una serie di istanze sociali e territoriali (quali che siano, anche solo di bottega, come pare sia diventato l’unico fine che giustifica l’esistenza di una associazione chiamate Confindustria) che muovono le persone a pensare alla politica al di fuori dell’orticello di casa propria. Qualcosa che, in sintesi, può essere ricondotto a due elementi: un progetto politico che venga elaborato muovendo da un minimo di coesione.

La storia politica europea a partire dalla formazione dei primi aggregati di persone che si riunivano, dibattevano e prendevano decisioni in vista del valorizzare e sostenere una serie indefinita di istanze, di rivendicazioni e infine di leggi, ha conosciuto ogni tipo di unione e spaccatura, non sempre e non tutte indolori e senza spargimento di sangue, anche non in senso metaforico. Ma era già all’epoca presente in molti osservatori l’idea che la creazione di un qualcosa chiamato Partito Democratico, proprio in ragione dei singoli percorsi politici di chi se ne assunse la responsabilità, avesse in tutta evidenza la parvenza, poi rivelatasi sostanza, di un qualcosa frutto quasi esclusivo di una forzatura: cosa che, in politica, raramente porta a risultati apprezzabili. O a risultati tout court
L’enfasi che accompagnò un variegato movimento di ribellione al disegno berlusconiano di sistematico smantellamento non tanto dell’operatività di uno stato sociale (Forza Italia non ha mai girato le spalle a una presenza statale nell’economia, pena la perdita di un consistente apporto elettorale), quanto dei principi che ne stanno alla base, oltre all’altra gamba su cui si regge una forma Stato, vale a dire l’autorevolezza delle istituzioni, enfasi accompagnata da un sistematico fiato corto – che, in politica come nello sport o nelle emergenze, porta inevitabilmente a scelte sbagliate – coprì di retorica e di ridicole chiamate all’emergenza e alle armi tutte le voci di coloro che avevano ben più di qualcosa da ridire sulla commistione sotto il nome di ‘partito’ di una insensata, improponibile e inverosimile congerie di esperienze politiche, che non poteva avere un futuro. I fatti, ancora loro, sembrano suggerire, quasi venti anni dopo – un battito di ciglia, nei tempi della politica – che questo futuro non ci sarà. 
L’ispirazione ‘di sinistra’ che con maggiore forza sostenne la nascita del PD (e doveva per forza esserlo, di sinistra: andavano convinti quelli che da quella parte avevano in passato votato; ai residuati bellici socialisti e democristiani non parve vero che gli si offrisse un posto in carrozza, dopo che avevano meritato di rimanere a piedi), aveva in mente, fra le altre cose, l’idea di una libera circolazione interna delle idee, delle opinioni, anche in profonda discordia con quella che avesse caratterizzato, di volta in volta, la linea del gruppo dirigente. Non più centralismo democratico, appartenente a una vecchia politica, bensì un libero fluttuare di spunti, lampi di genio e infatuazioni del momento: il partito liquido, elaborazione a stento da definirsi ‘politica’, che – purtroppo – dobbiamo a Valter Veltroni. 
Il problema sta nel fatto che un gruppo di dirigenti – sono sempre quelli, in definitiva e per fortuna, a guidare una formazione politica – provenienti da esperienze umane e politiche che più eterogenee non si poteva immaginarne, deve avere la capacità, la forza morale e fisica, l’intelligenza e la preparazione adatte per governare quella formazione politica, prima di preoccuparsi di governare il Paese o anche semplicemente il Comune o la Regione. Chi ha conosciuto la Democrazia Cristiana e il peso che ha avuto – e che tutt’ora ha – nella nostra società, ha bene fissa nella memoria la quantità di volte in cui all’interno di quel partito (pienamente degno di quel nome) si scatenarono rivolgimenti, vere e proprie lotte intestine, clamorosi scontri fra fazioni denominate correnti, i quali per la maggior parte dei casi si risolvevano in rimpasti di governo e/o con la cooptazione di truppe cammellate provenienti da altre formazioni parlamentari, dispostissime a garantire la sua leadership in cambio di poltrone di vario peso e potere. Tutto quanto di conflittuale accadeva all’interno del partito di maggioranza relativa era perfettamente normale, considerate le persone che ne facevano parte, con il loro portato di esperienze politiche e sociali; ai vertici, come nella base, convergevano nella DC, insieme a convinti cattolici di centro, politici che già all’epoca (non ora, nel tempo in cui le differenze ideologiche sono scolorite) non avrebbero sfigurato in altre e diverse formazioni politiche, di destra e di sinistra, incluse le rispettive ali estreme. 
Sbaglierebbe chi pensasse che tutti costoro convivessero unicamente allo scopo di mantenere poteri e prebende, i quali sono certamente formidabili ordigni per governare un Paese; non bastavano per tenere sotto le stesse insegne politiche personaggi come Andreotti e galantuomini come Zaccagnini. Nacque, con la Democrazia Cristiana, e si mantenne – fino al suo dissolversi per rimanere salda tutt’ora al governo, centrale e locale – una forte comunanza di vedute, di futuribili, di progetti i quali, per nutrendosi delle solite, ben note cibarie (anticomunismo, schieramento occidentale, saldissima unione con il Vaticano), le utilizzavano come materiale da saldatura e questo per il semplice motivo che, al di là della chiarezza dei progetti, tutti di larghissimo respiro, il personale politico che la componeva era formato da uomini e donne di grande personalità, di instancabile capacità di mediazione, oltre naturalmente – per la più gran parte di loro – di sconfinate disinvoltura e spregiudicatezza. A ben guardare, tutte qualità che mancano nei rappresentanti del Partito Democratico. 
Muove quasi a tenerezza l’accorato appello di Gianni Cuperlo, uno dei pochi presentabili, oltre che dotati di una buona parte delle suddette qualità – non a caso uno degli ultimi a essere stato formato in una vera scuola di partito, quale che possano essere critiche e riserve su questi organi interni – ad esortare un rinnovamento del PD. Come se si potesse non tenere conto della estrema frammentazione in esso insita la quale, lungi dal divenire ricchezza dialettica e capacità decisionale, fa di questa unione politica un vascello senza comandanti – ma anche, molto ma molto più importanti, senza secondi all’altezza – e senza una rotta precisa, continuamente sballottato fra gli scogli che ne frantumano il fasciame e un mare aperto che nessuno si decide a prendere, non essendo in grado di governarlo. 
Tutto sommato, non avranno futuro neppure i ‘vecchi’ ex democristiani (cominciano anche loro ad avere una certa età, il che non gli guadagna per nulla il rispetto di quelli più giovani), coinvolti anch’essi nel declino di quelli che provengono dal PCI. Hanno avuto e avranno ancora la possibilità di dirigere quello che resta di un ircocervo politico – e rimane da vedere se, al netto di esplosioni adolescenziali dell’ex sindaco di Firenze, davvero l’inqualificabile Renzi sia davvero così peggio di un Enrico Letta – ma il percorso volge al tramonto anche per loro e non è un bel vedere, specie se, dall’altra parte, trionfa una coppia assolutamente vincente: i finti sovranisti della Lega e i genuinissimi fautori del liberismo sfrenato filo Unione Europea. Tutti costoro, oltre a quelli che si svegliano a mezzogiorno, dopo l’ennesimo squillo della sveglia (o, per dirla alla milanese, quelli come il tizio che dopo tre piatt’ l’ha capì che l’era risòtt) caratterizzati da un notevole fiuto per il situazionismo, spina dorsale dei tempi in cui ci tocca vivere. 
Rimangono, pallidi, gli ultimi giapponesi come Cuperlo a cercare di fare ciò che costituzionalmente non riesce loro, vale a dire alzare la voce in mezzo al baccano. Ma sia una nota di stima, il riferimento a coloro che rimangono a combattere: l’onestà intellettuale, a differenza dell’opportunismo, non merita dileggio.

Cesare Stradaioli