MA DI CHE PARLANO?

Ma di che parlano, Ezio Mauro e Michele Serra? In quale pianeta perso nello spazio profondo o in quale eremo dimenticato da dio hanno vissuto fino a sabato scorso? Ma che dicono? Sdegno, per la vicenda di Macerata? Ma con quale coscienza, con quale coraggio, con quale – e bisogna dirlo! – faccia di culo? Cos’è questo rumore di vesti stracciate?
Non sanno che da decenni le curve dei più importanti stadi calcistici sono vere e proprie scuole quadri per picchiatori e neofascisti? Hanno avuto qualche approssimativa notizia in merito all’humus socio-politico in cui è cresciuta ed è prosperata ‘Mafia Capitale’? Risultava loro, per caso, che fosse innervato di lontananze politiche? Che non avesse precise coordinate di estrema destra? Pensano forse che Carminati e gli altri mascalzoni si ispirassero al fascismo così, tanto per farsi quattro risate? Ma come si permettono, tutte queste anime belle della nostra socialdemocrazia alla vaccinara, di esprimere preoccupazione e lanciare simili allarmi tuttifrutti, che fra due settimane finiranno, come di consueto e come meritano, nel vuoto?
Ma da quanti anni in questo sventurato Paese sbraita a bocca larga a tutta audience, insieme a un branco di esagitati, la nipote del criminale razziale e di guerra di Piazza Venezia, che la quasi totalità della stampa italiana, oltre 70 anni dopo, continua ad appellare col titolo onorifico di ‘Duce’? E’ necessario ricordare ancora a costoro come in Germania sarebbe semplicemente impensabile che sedesse al Bundestag la nipote di Hitler a perorare la causa del nonnino? Che neppure Marine le Pen, oltre a tutto sotto la presidenza Sarkozy – non esattamente uno spirito democratico – ha mai solo osato nominare il generle Petain e l’infame Repubblica di Vichy – a cui, senza discussioni, vanno ascritte responsabilità politiche, storiche e umane grosso modo valutabili in un centesimo percentuale, rispetto a quelle del fascismo?
Da quanti anni, da quanti decenni sentiamo e leggiamo di frasi, discorsi, manifestazioni, pubbliche espressioni di pubbliche autorità, semplici parole di apologia del ventennio? Del nazismo? Dell’Olocausto? Dei forni? E tutto, sistematicamente, sotto silenzio, sottovalutato, irridendo coloro che fanno osservazioni in proposito?
Quanto ancora ci vorrà perché perfino le teste più fini della stampa italiana si decidano finalmente a scendere dal pero e farsi una ragione del fatto che l’italiano medio non è fascista ma, soprattutto, neppure antifascista? Lo sanno, se lo ricordano, che a scuola (manco da decenni, ma amici con figli giovani mi dicono che le cose non sono poi così cambiate) lo studio della Storia, a parte qualche lodevole iniziativa del singolo insegnante, si fermava alla Prima Guerra Mondiale, che ancora oggi, dopo cento anni, viene glorificata invece di essere denominata per quello che è stata, vale a dire un massacro di proletari in nome del disfacimento di un impero? Nessuno, nato e cresciuto nel Veneto come il sottoscritto, ha mai detto loro che il 25 aprile è stata, da sempre, una data ostinatamente dedicata a festeggiare San Marco protettore di Venezia e non quell’altra cosa? Nessuno è mai andato a raccontare loro che nella città dove ho passato finora la maggior parte della mia vita, Padova, la città di Concetto Marchesi, Eugenio Curiel, Enrico Opocher e Sabino Acquaviva (per tacere d’altri), anche e soprattutto con giunte e sindaco di centrosinistra, a partire dall’inizio degli anni 2000, durante le celebrazioni della Resistenza la banda comunale non suonava ‘Bella Ciao’, bensì ‘Il Piave mormorava’, e tutto per non irritare quella che un tempo era chiamata ‘maggioranza silenziosa’? Perché l’antifascismo irrita? Si sono resi conto, che la vigliaccheria morale del PCI pienamente responsabile dell’aver taciuto sulle foibe, ha fatto sì che da trent’anni sia rimasto nel dimenticatoio nazionale l’unico campo di sterminio (solo in parte era di deportazione) italiano, la Risiera di San Sabba? E si sono chiesti il perché gli italiani siano stati così diseducati e, comunque, così facilmente si siano adattati alla riscrittura revisionista del fascismo?
Risulta loro che criminalità comune e organizzata, intere fasce di cittadinanza che invoca la pena di morte o condanne esemplari, che quelli che rivoltano la loro rabbia contro i migranti, tutti coloro che – ormai neanche sottotraccia, bensì a voce bella spiegata – invocano l’arrivo, o il ritorno o comunque la guida di un uomo forte, il classico uomo solo al comando, siano in qualche maniera ispirati ai principi di partecipazione, uguaglianza, fraternità e libertà o, più nello specifico, a qualche forma di pensiero innervata dal marxismo o al cristianesimo solidale? O non pare loro, per caso, che tutti costoro si rifacciano, beceri e ignoranti quanto si vuole, al fascismo?
Cosa aspetta la stampa a prendere le distanze? A farsi letteralmente parte civile: non in un’aula di giustizia, bensì nel loro campo, nel loro specifico, che deve essere quello di andare oltre la semplice notizia (i fatti non sono mai separati dalle opinioni, come ipocritamente titolava qualche decennio fa ‘Panorama’)? Cosa aspetta a fare domande? A pretendere risposte, altrimenti caro ministro, caro deputato, caro senatore, caro consigliere regionale, provinciale o comunale o quell’accidenti che sei, caro amministratore di aziende sanitarie, caro provveditore agli studi, caro Questore, caro Prefetto, tanti saluti e buone feste e la prossima volta che vorrai comparire su questa testata dovrai, prima di tutto, essere munito di risposte a quelle domande che ti abbiamo fatto e che stanno ancora lì ad aspettare?
Non sono minimamente interessato all’individuo che ha rischiato di compiere una strage a Macerata; così come non lo sono del singolo bestione rasato che se ne va in giro con bandiere e slogan in merito ai quali non sa una benamata cippa, non avendo mai aperto un libro in vita sua. Questi sono effetti, non le cause e degli effetti devono prendersi cura le istituzioni che stanno a valle, tanto quanto la ditta di spurgo pozzi neri si deve occupare dei reflui fognari, non essendo compito suo quello di governarne le origini. Perché questo era quaranta anni fa e questo è ancora il fenomeno del neofascismo e del neonazismo: questione di nettezza urbana. E allora c’è che si occupa dello smaltimento delle differenziate ma PRIMA ci deve essere chi si occupa di educare, istruire, indirizzare il gesto di liberarsi del rifiuto. Del disgraziato di Macerata si occuperà la giustizia; nemmeno le deliranti dichiarazioni di Salvini mi indignano: se un cretino va in televisione a dire che il sole nasce a ovest o che le donne sono tutte puttane o che i negri sono scimmie, non è lui il problema, ma il fatto che abbia diritto di parola e che nessuno lo zittisca a sberle e questo vale anche per il fatto che quasi nessuno abbia risposto al leader della Lega come meritava, soprattutto da sinistra.
I rappresentanti politici, più o meno da quando la sciagurata idea veltroniana del ‘partito liquido’ (Bauman si rivolterebbe nella tomba: brutta cosa leggere poco e male il pensiero altrui, per poi servirsene alla bisogna e ad minchiam) ha soppiantato le scuole di partito – intorno alle quali, ha ragione Massimo Cacciari, c’era e c’è ancora tanta mitologia, ma dalle quali comunque uscivano più teste raziocinanti di quante se ne vedano adesso in giro – non rappresentano più il meglio della cittadinanza, e però, per quanto esecrabili siano quasi tutti, non di meno non sono piombati fra noi da qualche pianeta proibito, allo stesso modo in cui il feritore di Macerata non è un alieno, essendo tutti parte integrante e innervata di questa società marcia, incattivita e puttana; mi rimane il sedimento culturale di rivolgermi alla stampa, piuttosto che a questa politica, anche e soprattutto quando mi disgusta vedere come sono conciati giornali e telegiornali, ma d’altra parte ritengo che se non loro, chi?
Chi può, se non una stampa abbastanza libera, correggere, stoppare, contraddire, porsi di traverso? Scrivere in lingua italiana, evitare di scendere nei particolari di un ammazzamento con sevizie (perché il pubblico, NOI, NON abbiamo il diritto di conoscere i dettagli da tavolo autoptico di un omicidio), chiamare cose e persone per quello che sono, fare la fatica di premettere all’aggettivo ‘nigeriano’ – per dire – la nobile e obbligatoria parola ‘cittadino’, che non  costa niente, solo un po’ di attenzione, piantarla una buona volta di ripetere a pappagallo che gli italiani pagano le tasse più alte del mondo (le pagano quelli che le pagano e non per colpa di chi governa: se tutti le pagassero, l’aliquota sarebbe più bassa!), rifiutarsi di scendere oltre un certo livello di compromesso; chi se non i giornalisti, i direttori di testata? Chi, se non la stampa e gli intellettuali, devono rimarcare, anche solo a livello di considerazione di pura sociologia, come quanto più la sinistra si allontana dalle classi cui deve la propria connotazione, dai più deboli, dai diseguali, dai messi nell’angolo, dagli ignoranti e analfabeti di ritorno, tanto più quel maledetto serpente di cui parlava Ingmar Bergman continuerà a covare le sue malefiche uova? Chi se non la stampa e gli intellettuali potrebbero e soprattutto dovrebbero ricordare le terribili per quanto ovvie parole di Primo Levi, secondo il quale se una cosa è già accaduta, può accadere nuovamente?
La smettessero, per contro, di stupirsi nel vedere e rivedere e vedere ancora e riascoltare atti, gesti, persone, frasi oscene come se fossero novità oppure circostanze del tutto estranee al mondo in cui viviamo. Non servono nuove leggi: bastano e avanzano quelle che ci sono e sarebbe sufficiente applicarle. E la piantassero di cianciare di ‘voto utile'; non possiamo, non dobbiamo perseguire false comunioni di pensiero, come le definiva Calamandrei, spaventati dall’ondata neofascista in Europa: non dobbiamo farci intimidire – più che altro non possiamo e non ne abbiamo il diritto. Non dobbiamo essere subalterni, nel nostro esercizio di critica e di voto, a quattro mestieranti che governano Paesi in cui davvero il patriottismo è tornato a essere quello che diceva Oscar Wilde, vale a dire l’ultima risorsa delle canaglie. Quello che possiamo e dobbiamo fare è ripartire dalla scuola e dalla educazione civica e in maniera intransigente, su tutto: o così, o continueremo a sentire le prediche ai convertiti delle varie madri superiore e ci rivedremo – vi rivedrete – al giorno in cui, succederà prima o poi, anche nella terra dei cachi un ragazzino di 16 anni entrerà a scuola con un’arma automatica.

Cesare Stradaioli