IL DIRITTO DI VOTO MISURATO IN UTILITA’

Esercito il mio diritto di voto dal 1975. Si trattava di elezioni a carattere amministrativo – quelle parlamentari si tennero l’anno dopo – ma già allora la portata prettamente politica della consultazione era evidente: si tastava, perfino, nell’aria affannata di quei tempi. Per inciso, quello fu un risultato percentuale che, se la memoria non mi inganna, mai la sinistra eguagliò e dal quale, anzi, sorprendentemente retrocesse proprio a partire dal 1976, l’anno che avrebbe dovuto costituire il momento dello storico sorpasso PCI-DC. Non fu così per la semplice ragione che l’Italia, a dirla un po’ a pane e salame, non è un Paese di sinistra e neppure antifascista (pur non essendo fascista). Non fino ai prossimi cinquant’anni, direi e piantiamola lì, che lo sappiamo tutti benissimo.
Come che sia, la vulgata del cosiddetto ‘voto utile’, era già nota anche a me come a tutti i miei coetanei che si interessavano di politica (bastava leggere qualche quotidiano o ascoltare i telegiornali RAI) e retrodatava nel mio ricordo per lo meno di una decina di anni, quindi verosimilmente anche più indietro nel tempo. Fu il 1976 l’anno in cui Indro Montanelli pronunciò la famosa frase riferita al turarsi il naso e votare per la Democrazia Cristiana e quello fu il momento in cui il ‘voto utile’ divenne parola d’ordine, sistematico refrain della stampa, comodo ritornello dei rappresentanti politici buoni per ogni stagione; in realtà, come detto, circolava nella cittadinanza già da molto prima e l’uscita del super italiota (a dispetto del suo ergersi a fustigatore dei difetti nostrani) Montanelli non fu altro che l’ufficializzazione ed elevazione a sistema, riconosciuto senza più pudori o ammuine di sorta, di una delle più profonde piaghe culturali italiane – e risalentissima: ne scriveva 150 anni prima, attribuendole carattere radicato nei secoli, Giacomo Leopardi: quella che porta ad argomentare, agire e infine votare sempre e tendenzialmente ‘contro’ qualcuno o qualcosa, mai ‘a favore’ di, fosse anche un ideale consapevole e seriamente motivato.
Il nordest in cui sono cresciuto era – in buona parte lo è tutt’ora, malgrado i capannoni e i centri commerciali – intriso di clericalismo e all’epoca fortemente anticomunista; il Vaticano in casa era situazione condivisa da ogni regione, ma la stretta vicinanza col Friuli Venezia Giulia e la Jugoslavia, sia pure non più cortina di ferro da anni, era peculiare di quelle zone: caserme, polveriere, i ricordi delle occupazioni incrociate, della Risiera di San Sabba e delle foibe, i profughi dalmati e giuliani, era un humus sociale e politico particolare, che rendeva agevole, per chiunque la temesse, giocarsi la carta dell’opposizione alla asserita ondata comunista che seguiva il ’68. Di qui, fra le altre, l’esortazione a non disperdere i voti, curiosamente simile (ma neanche tanto curiosamente) alla sua stretta cugina religiosa, l’esortazione a non disperdere il seme, fecondando una donna a ogni congiunzione carnale. Erano quelli che il compianto settimanale ‘Cuore’ avrebbe denominato, collocandoli nella celebre, relativa graduatoria, ‘Valori Forti': fedeltà alla parrocchia e alla consorte. Di conseguenza, al partito politico che più compiutamente li incarnava.
Il timore della dispersione dei voti, poi diventata per l’appunto ‘voto utile’, si sostanziava principalmente nel considerare sì, legittimo votare per l’MSI – sempre dove stavo io, le radici ci perseguitano per tutta la vita, la vacanza da scuola del 25 aprile rimaneva celebrazione ostinatamente rivolta a San Marco e non alla Liberazione dal nazifascismo – ma politicamente inutile e dannoso in quanto sottraeva forza e percentuale di voti alla Democrazia Cristiana, unico vero baluardo contro la Sinistra. Più defilati, erano considerati altrettanto inutili (e, quindi, destinati alla dispersione) i voti al PSDI, al PLI e al PRI: i cui rappresentanti politici, a ben guardare, si schieravano sul fronte filoamericano e anticomunista più spesso di qualche loro collega democristiano, ma la visceralità dell’anticomunismo portava alla luce quasi esclusivamente ragionamenti di teste a temperatura elevata, poco inclini al ragionamento ponderato e razionale e, dunque, tale circostanza sfuggiva all’analisi e all’evidena pratica.
Insomma, il concetto del ‘voto utile’ fa ancora parte, cinquanta e più anni dopo, del messaggio di quasi tutte le forze politiche e ancora rappresenta l’invito alla vigliaccheria, al conformismo – altro dolente stimma italiano intorno al quale Pasolini, sulle tracce di Leopardi, spese grande parte della sua opera intellettuale: decisamente inascoltato, purtroppo – al proprio tornaconto personale: in poche parole, al sempiterno agire per danneggiare l’antagonista, anteponendolo al portare avanti, a quasiasi costo, le PROPRIE idee, istanze, speranze, la propria personale immaginazione, nel volere e provare a trovare un futuro diverso.
Provo a dire la mia, di immaginazione. Vorrei un partito di sinistra che partecipasse al voto e che ogni qual volta gli toccasse stare all’opposizione, invece di riservare le munizioni per la successiva campagna elettorale, uno dei momenti più vergognosi, ridicoli e sputtanati dell’attività politica, presentasse, SUBITO, il giorno dopo la sconfitta elettorale, un proprio alternativo programma di governo per la legislatura successiva, possibilmente facendo dei nomi, sia come candidati ai singoli dicasteri, sia come personalità della cultura, di arte e scienza che ne innervassero l’ideale politico; e ogni giorno, ogni qual volta il governo legittimamente seguente alle elezioni, dovesse presentare un decreto legge, ogni qual volta il partito o la coalizione vincente facesse lo stesso in Parlamento con un progetto di legge, volta per volta ne facesse le pulci e ne elaborasse uno opposto, articolato e motivato – oppure votasse le proposte avversarie, se le ritenesse degne di ciò.
La mia immaginazione mi spinge a vedere un partito di sinistra che facesse politica di opposizione tutti i giorni della settimana e due volte alla domenica, che si presentasse alle elezioni sempre pensando al futuro, di qui a vent’anni e non al prossimo lunedì mattina: futuro di governo se vanno bene, di opposizione seria e solida, se vanno male e considerando che cinque anni passano in fretta e che però se si lascia la fretta da parte si riesce a fare molte più cose e, in ogni caso, quei cinque anni passano, la vita non finisce la sera dei risultati negativi e l’indomani il sole nascerà ugualmente, anche se le percentuali elettorali avviliscono.
Immagino una forza politica che si discosti dalla vulgata del ‘voto utile’ perché il solo voto utile è quello secondo coscienza: la propria, non quella altrui.

Cesare Stradaioli