LE SQUADRIGLIE DEL VALORE

Insisto: si continua a parlare di soldi e non di economia. Se per economia si intende – o si dovrebbe intendere – una scienza che esamini molteplici aspetti della vita di relazione in un consorzio civile, da quelli più rigorosamente matematici a quelli maggiormente attinenti alla vita delle persone, sia come consumatori sia come cittadini che quella società abitano, al fine di orientare al meglio le politiche di ogni singolo Stato. 
Niente di tutto ciò: non c’è modo di evitare il collo di bottiglia in cui, invariabilmente, finiscono i ragionamenti e le osservazioni di qualsiasi tipo, attinenti all’economia e questo collo di bottiglia sono i soldi. Quanto costa, quanto serve, quanto bisogna investire, chi li mette, a chi li si chiede, chi li dà e cosa vuole in cambio. E’ evidente che il costo di un’attività umana sia componente fondamentale, dalla quale prescinde solamente chi si diletti di fantasiose costruzioni di sogni campati in aria; il fatto è che da elemento fondamentale, l’aspetto relativo alla spesa è diventato l’unico, poiché di fronte a esso si infrange qualsivoglia progetto o anche mera considerazione e nel momento in cui un argomento diventa unico, è perfino inutile constatarne le conseguenze: gli altri non contano, a maggior ragione quando manca la disponibilità finanziaria per attuare questo o quel progetto. 
Non lo è diventato, unico, a caso: dietro questa esasperante ed esasperata sottolineatura, c’è un preciso disegno teso a porre ogni questione sotto il gioco del rapporto debito-credito, arma formidabile – non da oggi – per il controllo delle politiche di Stati a vario titolo alleati o avversari. Nel momento in cui una qualsiasi politica particolarmente orientata sia costretta a soggiogarsi alle forche caudine della necessità di indebitarsi rispetto a istituzioni che non fanno parte dello Stato in nome del quale è delegata a operare – e che, nella quasi totalità dei casi, neanche sono destinatarie di quella politica – il tutto si riduce a prestito, controllo, condizionamento: da anni, Yanis Varoufakis lo va ripetendo.
Ora, per quanto possa sembrare sorprendente al cittadino distratto o semplicemente stanco morto quando torna a casa dopo una giornata fatta di lavoro e di trasferimento per e dal posto in cui lavora, è dato di fatto che nel nostro Paese, checché ne dicano gli autoreferenti ‘esperti’, i soldi ci sono: sono perfino alcuni di loro stessi ad affermarlo e va notato come si tratti di vera disponibilità, quanto meno nella più gran parte, non soltanto cioè crediti o investimenti che non sempre – anzi, quasi mai – garantiscono una pronta disponibilità dell’arnese, cioè ancora lui, il denaro; sono perfino leggendarie le cifre che indicano nel nostro Paese quello con una fra le più consistenti riserve auree e, con tutta probabilità, quello con il maggior risparmio privato, quello delle famiglie, di chi lavora.
I soldi ci sono: basta andare a prenderli. Dove siano tutti lo sanno, per citare il detto: a volerli trovare, ad averne convenienza politica, è discorso tutt’affatto diverso. E qui, direbbe il Bardo, sta l’inghippo: non c’è la volontà politica per farlo, per introdurre strumenti talmente legali da essere previsti in Costituzione, necessari e sufficienti per venire incontro a un momento drammatico per la vita del Paese, della vita di adesso e, soprattutto, per quella di domani. La parola patrimoniale viene vista e sentita come una bestemmia in chiesa e io invito chiunque a diffidare di chi si senta offeso da questa parola, così come andrebbe sbugiardato subito, all’istante, dappertutto, casa per casa, tavolo per tavolo, porta per porta qualsiasi mascalzone che sostenesse il frusto, maleolente, infame refrainsecondo il quale introdurre una patrimoniale significherebbe mettere ancora una volta le mani nelle tasche degli italiani.
Perché sono LORO, quelli che ancora oggi sollevano una simile obiezione, a essere – direttamente o come meri esecutori di ordini e interessi altrui – a derubare la comunità, incoraggiando, proteggendo, coprendo, favorendo, tollerando e tralasciando di perseguire e punire l’evasione fiscale, che in Italia ha raggiunto cifre che, nella loro quantità assurda finiscono col perdere di significato; sono LORO a beneficiare, accrescere, pattuire il cancro della corruzione che deruba – altro che mani in tasca! – gli italiani di oggi, quelli di domani e di dopodomani. LORO non la vogliono, la patrimoniale, perché temono che finalmente questo Paese, le intelligenze e le volontà che ci vivono, possano utilizzarne i frutti per cambiare questa società, per abbattere le diseguaglianza, per restituire dignità al lavoro, per mettere in sicurezza i luoghi dove abitiamo noi oggi e dove vivranno coloro che verranno dopo di noi, per dare impulso alla scuola e alla sanità pubbliche. Sono, infine, LORO a voler tenere questo Paese sotto sovranità limitata, svendendo al banco del mercato non solo la dignità di ciascuno, ma anche l’incarico che hanno assunto nell’interesse della collettività che dovrebbero rappresentare.
Ma non basta: fra LORO ci sono anche non pochi di quelli che dovrebbero essere NOI e invece si rifiutano di esserlo. Quelli, a titolo di esempio, che dicono che ‘non è il momento'; benedetto iddio, sembra di risentire le solite vecchie, stucchevoli geremiadi di un partito comunista guidato da gente senza coraggio, senza fantasia, senza carattere, senza idee, senza futuro! Quell’eterno attendere un Godot che alla fin fine è arrivato: non all’esito di una lunga marcia nelle istituzioni, quanto piuttosto di un avvilente peregrinare a vuoto e certo non nelle sembianze del sol dell’avvenire, bensì in quelle rappresentate dal collasso delle loro sedi e dei loro esangui progetti. Ancora una volta e non paia mancanza di rispetto citare Primo Levi: se non ora, quando?
Se non si ricorre ora, a mezzi straordinari, quando mai? Se non si opta ADESSO, per interventi che, oltre a essere richiesti dalla eccezionalità del momento, hanno pure il magnifico pregio di essere legali e previsti dalla Norma fondamentale della nostra società, QUANDO? La miserabile e neghittosa vulgata che non ritiene che sia il caso, che ancora non sia giunto il momento, che è necessario attendere, che bisogna vedere, considerare, valutare, esaminare – e, nel frattempo, le famiglie che entrano nella povertà si contano sempre più a milioni – assomiglia in maniera così tragica da sfiorare il comico al racconto di Achille Campanile, nel quale la classe dirigente di uno Stato in guerra, che si trova nello stato di necessità di utilizzare una squadriglia di eccellenza, in grado di intervenire nei momenti estremi e, però così facendo, votata al suicidio, ne procrastina all’infinito la decisione, preoccupata dal pensiero di rimanerne poi senza e di non poterne più averne una. E così, non utilizzandola mai, finisce col perdere la guerra, mantenendo però sana e integra, la squadriglia che avrebbe consentito di vincerla. Tenersi pronti per un’ultima, definitiva necessità, conservare allo spasmo quel gesto decisivo che non ci sarà mai solo perché non lo si vuole compiere.
Cosa deve succedere ancora, prima che si possa dichiarare l’Italia in uno stato di crisi – non opportunità: vera e propria tragedia socioeconomica – tale da richiedere interventi estremi? Non bastano le diseguaglianze? Non basta il sistematico, maledetto e annoso ultimo o penultimo posto nelle classifiche più virtuose o anche solo vagamente progressiste e l’immancabile primo in quelle più deteriori? Non basta lo sfascio della scuola e della sanità pubblica? Non sono sufficienti lo stato delle periferie, la corruzione dilagante, l’invasione della criminalità organizzata in ogni ganglio della società e la vergogna del lavoro sempre più umiliato e umiliante? Infine, non è ancora il caso, pur con la devastazione della pandemia? Cos’altro ci vuole, che so, che la crosta terrestre si apra in due e tagli il Paese a metà?
Ma i mezzi non bastano e neppure la volontà: occorre un cambiamento di impostazione mentale, di approccio ai veri valori della vita, senza i quali la politica, anche nelle sue più nobili forme, non ha senso, non ha scopo, non ha futuro. Occorre un nuovo senso dello Stato, che venga concretato da donne e uomini che abbiano una visione di lunghissimo respiro, in luogo della miseria culturale diffusa pressoché in tutte le rappresentanze istituzionali odierni, personificata da individui la cui prospettiva, al meglio, arriva a lunedì prossimo.
Infine, bisogna cambiare i modi di valutare persone e cose che abbiamo intorno: gli interventi eccezionali, quelli che segnano un’epoca, non prevedono domande quali quanto costa, bensì quale sia il valore di quello che vogliamo fare: pensiero economico e sociale, non gretta bottega, quella stessa che ha portato il Paese dove si trova adesso.

Cesare Stradaioli