LA MATEMATICA E’ ANCHE UN’OPINIONE

La matematica è anche un’opinione.
Ci voleva – solo per coloro che non volevano né vedere né sentire – un evento naturale, inaspettato come un colpo sotto la cintura, per mettere definitivamente sotto gli occhi di tutti l’evidenza di un’impasse ormai non solo nazionale e locale ma anche diffuso a ogni livello. Il banco, come dice, sta per saltare: non per una scommessa spropositatamente vincente o perdente – a seconda dei punti di vista – ma perché non è più in grado di gestirne alcuna. Fuori dalla metafora, è bastato che uno Stato rallentasse, se non addirittura si fermasse in alcuni settori, perché risultasse chiaro come la progressiva commistione fra maggioranze ed opposizioni, la sistematica contraddizione e contrapposizione di ruoli fra le istituzioni, nazionali e locali e, infine, la quasi inarrestabile, cieca folle corsa al particulare, abbiano portato alle secche istituzionali.
Qualsiasi rappresentazione delle volontà e delle relazioni umane ha un determinato limite, diverso per ognuna e l’impressione è che il livello di faziosità, di tara antiscientifica (che meglio e più esattamente sarebbe il caso di chiama a-scientifica) e di vuoto comunicativo fra i vari settori della società civile si stiano innalzando in maniera inversamente proporzionale a quello della coesione sociale, in via di liquefazione in modo che non basta più definire allarmante. Non vedo alle porte un regime che possa richiamare stilemi fascisti: se mai e se possibile, vedo qualcosa di peggio, come per esempio una sommatoria di ragionamenti e contrapposizioni, che nella loro insensata dinamica circolare, come il motore in folle di una potente fuoriserie, girando a vuoto fanno solo rumore e non conducono da nessuna parte.
Non può più essere messa da parte l’ipotesi, su cui seriamente ma anche rapidamente riflettere, di una sorta di assemblea da non chiamarsi, per ovvi motivi, costituente, dato che una Costituzione già c’è, ma che fosse in grado prima di tutto di cementare intelligenze e forze che possano avere punti in comune e, successivamente, di elaborare poche – poche, qualcuna, una mezza dozzina: di più sarebbe un pasticcio senza costrutto – ma mirate e significative di quelle che vengono definite riforme, termine di cui è stato fatto un tale abuso da non avere quasi più credibilità. Forse mai come ora, nel corso della vita della Repubblica, il momento potrebbe essere più adatto e urgente. L’imposizione dettata dall’urgenza, se non altro, ha di buono che non offre altra scelta: là dove la ragionevolezza impone una strada, risulta anche più facile imboccarla.
Soprattutto su un punto e in merito a ciò è indispensabile non solo avere le idee chiare, ma convergere senza riserve di sorta, tanto quanto misero da parte le rispettive e notevoli riserve coloro che parteciparono alla stesura della Costituzione: non può, non deve essere una questione da cosiddette ‘larghe intese’. Non può, NON DEVE, coinvolgere tutti.
Detta in due parole: il centrodestra, questo centrodestra non deve farne parte. E può, non farne parte. Non tragga in inganno un sommario e superficiale esame delle percentuali di presenza nel parlamento a seguito delle ultime elezioni politiche del 2018: anzi, le si guardi con occhio largo e si faccia un confronto con quelle scaturenti dal referendum monarchia-repubblica del 1946, in stretta connessione con la formazione dell’Assemblea Costituente, unitamente alla situazione politica, sociale ed economica in cui versava il Paese.
Coloro che elaborarono e scrissero la Costituzione lo fecero in nome e per conto di un corpo sociale pressoché spaccato in due: tenendo conto del numero degli aventi diritto al voto, delle percentuali di coloro che effettivamente lo esercitarono e i risultati che ne sortirono, emerge come la Carta Costituzionale repubblicana entrò in vigore con quasi il 41% degli elettori contrari, coloro cioè che votarono per la permanenza della monarchia: e si trattò, va detto, di un voto altamente qualificato, con una cifra ben precisa e riconoscibile. Cittadini elettori che non solo continuavano a preferire un Casato squalificato, debole, infingardo, il cui ultimo rappresentante – che non aveva affatto regnato su quella che sistematicamente qualcuno vuole far passare come una parentesi storica, bensì in piena e lineare continuità con i suoi avi – si era macchiato di alto tradimento, passibile di fucilazione, non solo si voltavano dall’altra parte invece di guardare in faccia l’orrore e la vergogna della Repubblica Sociale, ma che non vedevano come la Monarchia nel nostro Paese fosse strettamente connessa con la genesi del fascismo e, in ultima analisi, del disastro che aveva poi portato a quel referendum: i meno obnubilati che lo notavano, non ne davano il sufficiente e conseguente peso politico.
E’ lecito affermare che quel 41% di italiani MAI avrebbe appoggiato e accettato non solo la forma repubblicana, ma anche i principi che sono insiti nella Costituzione quali, per nominarne pochi, l’uguaglianza fra i cittadini senza le distinzioni che sappiamo, il ripudio della guerra, la divisione e reciproca indipendenza dei poteri, il riconoscimento dei sindacati in luogo delle corporazioni, la dignità e il valore sociale del lavoro, l’abrogazione della pena di morte? Lo è, a pieno titolo: non di meno, questo non costituì una remora per coloro che, da diverse parti, da diverse esperienze, da diversi ideali, decisero di dare una svolta epocale al Paese, unendo le loro intelligenze. Agire era necessario, il momento lo richiedeva e non era possibile procrastinare una simile decisione, pena il disfacimento definitivo della struttura sociale di un Paese che andava ricostruito, a tutti i livelli. Incluso, fra i primi, il fatto di non escludere dalla vita sociale, economica e politica, quella percentuale di cittadini che si situarono dalla parte contrapposta ma, al contrario, riconoscendo loro piena – e, in taluni casi, perfino troppa – libertà di azione e pensiero.
Ne nacque una Costituzione, per dirla con la dicotomia elaborata da Gustavo Zagrebelsky, che ‘comanda’, differenziandosi in ciò da una Costituzione che ‘unisce’; in quanto quest’ultima è frutto della compresenza di forze amiche o, se avversarie, non irriducibilmente ostili l’una all’altra, mentre la prima nasce da una società in forte conflitto e che lo risolve con la prevalenza dei vincitori. Cosa fosse l’Italia del 1945 e quale la sua cifra, è perfino inutile ricordarlo, se dovessimo pensare – anche adesso – a quale forma sarebbe stata più adatta, se non quella poi realizzata, senza appunto alcuna remora a proposito degli sconfitti.
Per quale ragione una simile remora dovrebbe preoccupare oggi gli elettori e i loro referenti di una possibile maggioranza, compattata intorno a quella che, lo abbiamo detto, costituente non può chiamarsi, ma assemblea sì (o quello che vi pare, purché si faccia), dal momento che, allo stato attuale, la percentuale di cittadini italiani effettivamente votanti che ne sarebbe esclusa – dai lavori, non dai diritti – arriva a poco più del 27%, cioè un terzo in meno della percentuale sopra ricordata? Tanto più che il momento non pare essere proprio così meno grave di quello di 76 anni fa.
E cosa sono, cosa rappresentano oggi i partiti che si collocano a destra se non precisi programmi eversivi dei principi costituzionali? Non ne abbiamo avuto sufficienti esempi durante i governi berlusconiani, in tema di impunità, dileggio della giustizia, leggi ad personam, spregio della magistratura? Rappresentati da una masnada di mascalzoni che, guidati dall’odierna Presidente del Senato, letteralmente assediarono il palazzo di giustizia a Milano durante uno dei processi contro quello che il compianto Cordero chiamò per primo ‘Caimano’ – e che poi, vennero ignominiosamente ricevuti al Quirinale da quell’ex Presidente che non merita neanche di essere nominato, avendo scritto una delle pagine più vergognose della storia della Repubblica?
E quante volte, in poco più di un anno di governo nazionale (e in decenni di amministrazione locale) i rappresentanti della Lega e i loro alleati si sono espressi in senso liberticida e istituzionalmente analfabeta, solerti portatori di odio razziale, di discriminazione, di disumanità, di diseguaglianza, di volgari schifezze pseudodannunziane d’accatto e fuori tempo massimo, di un becero qualunquismo anarcoide non chiuso in sé stesso, bensì portato all’attacco dei principi della nostra Costituzione? Cosa dobbiamo ancora aspettare, cos’altro deve accadere o debbono fare, affinché sparisca ogni dubbio in merito alla loro affidabilità democratica?
A partire dal 1946 non furono pensati e decisi cambiamenti da poco; che la Repubblica fosse parlamentare e non presidenziale, che il capo del governo fosse presidente del consiglio dei ministri inter pares e non primo ministro accentratore di delega e poteri, che giustizia e forze armate fossero dotate di consigli superiori, che fosse istituita una Corte delle Leggi – pure se bisognò attendere anni prima che la Corte Costituzionale entrasse in funzione – che fossero disciplinati in ugual misura diritti e doveri, rapporti etico-sociali, la creazione delle Regioni, delle quali il Senato avrebbe dovuto essere la camera di rappresentanza, l’economia al servizio dell’interesse sociale, la progressività del prelievo fiscale, l’apertura al mondo e ai trattati internazionali, al fine di liberare l’Italia non solo dal giogo di una dittatura ma anche dal provincialismo e dall’isolamento culturale.
Come si è visto, in un clima di forte contrapposizione, ideale e soprattutto numerica e che, però, nel suo insieme talmente complesso e articolato da risultare di gran lunga più impegnativo delle modifiche che oggi andrebbero fatte con urgenza assoluta e  con una eventuale contrapposizione neppure paragonabile a quella di allora, tanto radicale e quasi inconciliabile era quella nata dal dopoguerra. Basta capirsi e basta volerlo. In fin dei conti si tratta, come pressoché tutte quelle che possono venire in mente a chi sia dotato di un minimo di ingegno, di attività umane: fattibili, dunque.
Poi, se lo si vuole, avrei l’ardire di suggerire quei due o tre cambiamenti, a mio modo di vedere indispensabili per potersi parlare di un vero cambiamento: abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione; totale riforma del titolo V, per ridare centralità – non solo metaforica – a questioni basilari come scuola, sanità e sicurezza; una legge elettorale rigorosamente ispirata al sistema proporzionale, visto il clamoroso per quanto, facilmente, annunciato e annunciabile già a suo tempo fallimento del maggioritario, sotto il profilo della rappresentatività. E tutto questo senza escludere dalla vita politica chi non faccia parte di questa modifica, tanto quanto non furono esclusi dalla partecipazione e dalla rappresentanza istituzionale coloro che fecero parte di quell’altra Italia, quella che NON scrisse la Costituzione e NON creò la democrazia che ci troviamo ad avere.
Fatte queste cose, potremmo cominciare: testa bassa e pedalare, avendo finalmente davanti uno straccio di futuro, quello che però spetta a noi di meritare. Partendo anche da una considerazione, primaria in questo momento storico: la consapevolezza che, a parti invertite, gli altri non esiterebbero un attimo, non a riscrivere la Costituzione, bensì ad archiviarla e senza scrupoli di sorta. Immaginare come ed entro quali coordinate sostituirla, sarebbe un esercizio di fantasia degno di un Philip Dick.
In questo senso, davvero la matematica è anche un’opinione.

Cesare Stradaioli