LA MEMORIA E IL RICORDO

C’è stato un che di nauseante nella sommatoria celebrativa, in ricordo del quarantennale della strage alla stazione di Bologna. Nomi, luoghi, volti, fatti, date, tutto assimilato in un unico, indigeribile minestrone, nel quale il perpetuarsi di una memoria incerta e bugiarda prevale sul ricordo, che per sua definizione si smarca dal quadro d’insieme e scava nei dettagli. Più o meno indistinte carrellate nelle quali, complice anche la sommatoria di decenni, passano persone e cariche statali, politiche, di rappresentanza, di governo, di salvaguardia e di vigilanza sulle istituzioni che tutto furono tranne che politica, rappresentatività e tutela della repubblica stessa. Ci siamo trovati a leggere e ascoltare ricostruzioni non necessariamente mendaci in sé, a parte quelle di qualche mascalzone o squilibrato le quali, nell’intento di rivolgersi a chi non c’era o non fosse ancora in grado di discernere la portata di un simile episodio, elencano persone che sembrano piovute dallo spazio profondo e non generate da ambienti marci fino al midollo; vengono ripercorse carriere personali, nell’esercito, nelle forze dell’ordine, negli apparati di sicurezza, nella stampa, nelle compagini elette a Roma come in provincia, come se fossero appartenute a non meglio identificati individui che, chissà per quali motivi fecero e non fecero, coprirono, mentirono, ingannarono la cittadinanza e infine si resero complici del massacro. Che non fu solo di 85 persone, per non parlare di tutti coloro che, in misura diversa, la vita l’ebbero rovinata anche in modi inguaribili, ma anche dell’afflato politico che ancora pervadeva la società civile.
Chi, come e quando portò il carico di tritolo nella sala d’aspetto di seconda classe, sono argomenti e domande da gita domenicale con pentolame venduto a prezzo di sconto, divagazioni per distrarre dai VERI quesiti, uno soprattutto: PERCHE’? Sono quasi tutti morti, costoro, il tempo ha giocato a loro favore, unitamente a luride alleanze trasversali che hanno impedito di giungere ai veri mandanti che, lo sanno anche i bambini dell’asilo, stanno dall’altra parte del lago, come lo chiamavano i navigatori britannici andando verso ovest. Sono morti e finalmente si può dire chi fossero e tuttavia anche questa operazione pare riguardare eccezioni, cellule malate come cani sciolti e non facenti parte di diverse metastasi, ben curate, vegliate e mantenute da interi pezzi di una società civile, innervata da migliaia di criminali in divisa o in giacca e cravatta, dai quali ci siamo liberati con un colpo di spugna, sotto forma di telecomando che sposta l’argomento fastidioso. 
Il tutto condito da dichiarazioni che lasciano stupefatti; autorevoli firme del giornalismo e della politica, appartenenti a personalità neppure fra le peggiori, talvolta perfino anche leggibili e ascoltabili i quali, con una faccia di culo da togliere il fiato, vanno ripetendo con l’aria di un medico che spiega ai familiari le condizioni disperate di un congiunto, che i famosi dossier non saranno mai aperti e la verità non si saprà mai del tutti, perché l’Italia era un Paese a sovranità limitata. Ohibò, e limitata da chi? Dall’Urss? Da Fidel Castro? Dalle armate titine, sempre pronte a invadere Trieste? Dalla protervia dei sindacati, sotto il cui tallone languiva l’illuminata e inconcussa imprenditoria italiana? E riesce perfino fastidioso a noi stessi alzarsi e dire limitata dai VOSTRI amici, dai VOSTRI alleati, dai VOSTRI referenti politici, non dai nostri! 
Perché Bologna, una, due, più volte? Perché Piazza Fontana? Perché Ustica, che ancora oggi, incredibilmente, qualcuno ha il coraggio di associare a una bomba a bordo e nessuno che si alzi a sputargli in faccia? Perché l’Italicus? Perché la P2, sempre con l’infame senatore a vita, mafioso prescritto sempre al fianco, in smoking e fifì? Perché i servizi deviati? Perché le anime più svergognate, meno fedeli e più puttane della destra estrema italiana, sempre liberi e impuniti, mai oggetto di UN SOLO esame di coscienza – mentre, come scrive Michele Serra, la sinistra ha riempito vasi di lacrime, consumato fruste e cilici di penitenza per la lotta armata dell’altra parte? 
Perché tutto questo? Perché l’Italia stava andando a destra? Perché era in atto la pace sindacale e i lavoratori continuavano a rimanere senza uno Statuto di tutela? Perché stava per trionfare il liberismo più sfrenato, mentre le donne dovevano rimandare all’infinito conquiste come divorzio, aborto e libertà di scelta? Perché, finalmente, il capitalismo si stava liberando dalle catene oppressive dello Stato? Perché finalmente la criminalità organizzata stava alzando bandiera bianca e si apprestava ad arrendersi? 
Lo suggerisco io, un perché: e se non può essere definito tale, quanto meno che sia un’indicazione non richiesta e rivolta a chi non sa, non ricorda, non ha idea. Perché solo in questo Paese l’uomo più potente d’Italia, vero governatore dei rapporti di intelligence con l’Occidente, capace di frenare chi andava frenato, coprire chi andava coperto, depistare quello che andava depistato e, in definitiva, in grado di condannare la società in cui viviamo a essere eterodiretta, corrotta, invelenita, minacciata, ferita, ricattata, poteva scrivere per una testata di sinistra. Un vero criminale, fosse vera solo la metà di tutte le risultanze emerse già allora, responsabile non solo di centinaia di morti, ma dell’impoverimento di questo disgraziato Paese, del suo svilimento civile, che con il soprannome di “Zafferano”, dovuto alla sua nota fama di gourmet, e che di nome faceva Federico Umberto D’Amato, l’uomo dei segreti, che qualche giornalista statunitense paragonò a Edgar J. Hoover in quanto a potere e ferocia nel gestirlo, teneva una rubrica di alta cucina sulle pagine de L’Espresso: non quello di adesso, patetica metafora di quello di una volta, non quello che adesso viene venduto domenicalmente insieme a Repubblica, alla stregua di un invalido accompagnato alla passeggiata festiva, altrimenti non camminerebbe da solo, bensì QUELL’ESPRESSO, quello degli anni ’70, quello di Scalfari e Turani, delle inchieste, della razza padrona, dell’opposizione. 
Lo si sapeva quella volta: viene ripetuto adesso, come se fosse niente. Non era, infatti, niente: una cosa normale come un’altra e poi Veltroni, da sindaco della capitale, si offendeva quando Prodi dichiarava che lui nei salotti romani non ci metteva piede. Il capo dei servizi segreti che, da nemico giurato di qualsiasi istanza di sinistra o anche solo di mera giustizia sociale, scriveva per un settimanale di opposizione e tutto questo negli anni ’70, di fiera e forte lotta politica: una commistione impensabile in un altro Paese, non necessariamente ‘normale’, ma almeno ‘logico’, che inevitabilmente doveva portare il concetto di trattativa – sindacale o politica – e quindi del suo esercizio, dalla contrattazione alla concertazione. In un paese disossato come il nostro, che vivendo di memoria sfocata, al massimo è in grado di celebrare ricorrenze, senza ricordare esattamente cosa.

Cesare Stradaioli