LE FORZE ARMATE DELLA LINGUA

Può capitare di trovare nelle pagine della posta dei lettori (una volta erano le ‘lettere’), normalmente indirizzata al direttore della testata ovvero a una delle firme di spicco della stessa, interventi degni del miglior inviato speciale. Forse proprio in ragione della assoluta ‘normalità’ della figura di chi scrive. E’ di qualche giorno fa la comparsa nella rubrica de Il Corriere della Sera, dell’interessante testimonianza – vale la pena di spendere un termine così importante – di un lettore il quale, di ritorno in Italia da una lunghissima permanenza all’estero, fra l’altro si diceva colpito in modo particolare da due cose: la gente (includeva nel termine anche i volti e le voci radiotelevisivi) parla a voce più alta e in modo più volgare, con un impressionante ritorno delle inflessioni dialettali. 
L’abbruttimento del modo di comunicare, dando sulla voce all’altro e utilizzando sempre più spesso, sempre più in pubblico termini maggiormente adatti al vernacolo, è cosa risaputa e, purtroppo, da ormai molto tempo. Vedeva lontano, Pasolini, quando scriveva di omologazione; non sarebbe certo rimasto stupito che un tale processo potesse inquinare, fra le prime cose, la comunicazione interpersonale, a tutti i livelli. Probabile che avesse intravisto un passaggio successivo e ulteriore, vale a dire l’omologazione nella critica di quella stessa omologazione che paventava. Poiché, quanto meno in linea di principio, nessuno ragionevolmente approva il fatto che taluno interrompa l’interlocutore e viceversa, e che almeno formalmente l’uso delle cosiddette parolacce viene stigmatizzato da chiunque, il tutto finisce lì. Siamo d’accordo, procediamo oltre. L’uniformità di giudizi, in un consorzio civile particolarmente portato all’omologazione, perpetua il processo: lo fanno tutti, come si fa a cambiare modo? Lo sosteneva anche Giorgio Gaber in alcuni dei suoi monologhi migliori: dichiaro che siamo nella merda più totale, mi ci metto dentro anch’io ed ecco che ho fatto il mio compitino. Altri si occupino del che fare e come: io ho preso coscienza. Anche questa è omologazione; non spetta a me: dunque non spetta a nessuno. 
Ritengo, però, che l’assalto continuo alla lingua italiana – e con questo intendo anche e prima di tutto la corretta dizione della stessa – costituisca un qualcosa di perfino più dannoso del turpiloquio e della prevaricazione verbale, in quanto esso si concreta anche e direi soprattutto al di fuori e lontano da contesti dove si trovano volgarità e l’interruzione dell’interlocutore. E’ una guerra silenziosa – può sembrare paradossale, trattandosi di parole dette, ma passa sotto silenzio proprio in ragione del suo procedere in maniera carsica – a bassa intensità, combattuta in casa, al lavoro, a scuola, nelle relazioni personali e nei mezzi di comunicazione prettamente orali, anche quando sono in video. L’erosione della lingua italiana è frutto del processo di sistematica idiotizzazione e diseducazione alfabetica che interessa decine di milioni di cittadini: del che la televisione è da ritenersi la responsabile in solido con le decisioni di una classe politica che considera la scuola e l’insegnamento solo come voci di spesa e non di investimento nel futuro. Conseguenza – ma qualcuno potrebbe intravvedervi anche uno scopo – di tutto ciò è una situazione di frammentazione sociale, di scollamento civile e individuale, che retrocede il nostro Paese a livelli di cultura e consapevolezza che si potevano riscontrare nell’immediato secondo dopoguerra. Si trattasse di uno scopo, come abbiamo appena scritto e non già l’esito di una politica solo scellerata e mascalzona, non si potrebbe negare l’immenso ritorno che ne deriverebbe in termini di consenso politico, poiché è latente in molte altre situazioni nazionali (ma in Italia è endemica a livello superiore) la tendenza a favorire non solo il politico che dica solo cose buone e mai quella scomode, ma soprattutto che le dica buone e non scomode per me, per il mio villaggio, per la mia comunità, per il mio orticello di casa. Luoghi materiale e dello spirito dove il dialetto marca non già una appartenenza – non sono altro che diversivi per turisti, gli argomenti su quanto conti a livello culturale l’appartenere a un qualcosa di tradizionale – quanto piuttosto un confine fatto di mura e torrette di guardia, che serve a fare in modo che rimanga chiunque non comprenda l’idioma o l’inflessione, circoscrivendo il tutto all’iperestensione del personale, che porta a una indefinita serie di multimicrocosmi, in luogo di una vera e propria società civile. 
E’ stato detto che una lingua nazionale non sia altro che un dialetto come altri: dotatasi, nel tempo, di esercito, marina e aviazione, prevalendo così sugli altri col monopolio legale della forza. Che in questo modo si formino le entità statali è cosa che ignorano solo i bambini dell’asilo; chiunque lo neghi, ignora la Storisa. Chiunque teorizzi e pratichi l’assalto alle armate della lingua nazionale, giustificando e accettando l’indecente e intollerabile fenomeno della diffusione di ritorno delle inflessioni dialettali e dei dialetti veri e propri a tutti i livelli della comunicazione, perché è così che vuole la cittadinanza, si rende responsabile di un inaccettabile salto all’indietro: con, come vero e primo risultato, fasce di adulti, classi di studenti e di bambini dell’asilo che si esprimono in maniera tale da capirsi solo fra loro, con la prevalenza dell’istinto (aspirazione è un termine che richiede un minimo di consapevolezza di sé) che porta a voler essere guidati e controllati per tutta la vita da qualcuno a ciò delegato.
Che, come il padrone della parabola di Dario Fo, è tale sia dal punto di vista del lavoro sia da quello del controllo sociale perché conosce più parole del rimbecillito cittadino a metà, lieto e garrulo di parlare un linguaggio che lo riporta ai propri trisavoli.

Cesare Stradaioli