DEMOCRAZIA DEMOCRATICA

Ci sono leggi e regolamenti difficilmente spiegabili sotto il profilo della ragionevolezza, che però hanno il pregio di indurre alla riflessione, anche al di là del loro significato intrinseco. Ora, il termine ‘ragionevole’ è, per sua stessa natura, non definibile a priori secondo schemi preordinati – anche considerando il fatto che una notevole porzione di umanità mediamente pensante imputa alla Ragione e non ad alcuni fra i suoi meri esecutori la responsabilità di disastri umani e materiali (per la maggior parte presunti tali) negli ultimi due secoli e rotti. 
D’altra parte, poiché nella norma nessuno esprime opinioni e critiche di sorta – anche perché nessuno gliene chiede alcunché in proposito – su questo o quell’aspetto legislativo e regolamentare del funzionamento (la ‘l’ stava, inopinatamente, scalzando la ‘m’, ciò che avrebbe dato ben altro senso alla parola e, forse, più grottescamente rispondente alla realtà) di quella specie di ircocervo che è l’Unione Europea, pressoché qualsiasi prescrizione passa sotto un generale silenzio: fino a quando qualcuno mette una zeppa nell’ingranaggio. E anche qui – la cosa accada più spesso di quanto si pensi – in genere l’intoppo risulta quasi inosservato e tende a risolversi (o a vegetare) in qualche stanza di qualche istituzione europea.
Non è il caso, una tantum, sia chiaro, del voto contrario espresso da Polonia e Ungheria rispetto a una determinata decisione da prendere in merito a certi interventi di carattere finanziario, asseritamente dovuti al presente e mondiale stato di allarme epidemico. Dal mio personale punto di vista, sono convinto che se si chiedesse a un cittadino qualsiasi, inclusa la famosa casalinga di Voghera, un’opinione in merito alla decisione su come disciplinare lo smaltimento rifiuti nel comune in cui vive la sua famiglia, cosa riterrebbe più logico – spendiamo pure il termine ‘democratico’ e, vivaddio, ragionevole – e cioè se esigere per una votazione a numerose teste l’unanimità ovvero una maggioranza sia pure qualificata, la più gran parte degli interpellati (verrebbe da dire: la totalità) si esprimerebbe a favore della seconda ipotesi. Come molti ignoravano fino all’altroieri (e non tanti di meno ignorano tutt’ora), non è così per quando attiene alle decisioni che la UE prende, per l’appunto, in materia finanziaria. 
Non intendo entrare nel merito. Né sull’oggetto della proposta poi bocciata, per l’appunto grazie al voto (un vero e proprio veto, direbbero all’Onu) dei due Stati sunnominati, né sulla disciplina del voto in sé. Non ho competenze sufficienti in materia finanziaria; quanto al secondo punto, so bene che mi si potrebbe (anche ragionevolmente) obbiettare che una tale disciplina punta alla condivisione, alla concertazione e non alla cosiddetta ‘dittatura della maggioranza’ – ossimoro, fino a un certo, molto avanzato punto. Sono anche consapevole del fatto che l’ipotetico interlocutore, alla mia perplessità secondo la quale talvolta (per non dire quasi sempre), il diritto di veto diventa un vero e proprio ricatto, poco avrebbe da ribattere. Ma, ancora una volta, non sono questi i punti. 
Giorni fa mi è capitato di ascoltare un programma radiofonico avente come argomento il voto contrario espresso da Polonia e Ungheria; in brevissimo tempo, dalla questione di merito i conduttori passarono a quella, sollevata da molte altre voci sulla stampa, relativa al fatto che quei due Paesi sono governati da una classe politica apertamente reazionaria – conservatrice non sarebbe nemmeno un complimento per costoro: un conservatore ha diritto al rispetto – oscurantista, illiberale; il che porrebbe serissimi dubbi sull’opportunità di consentire loro il diritto di voto. La Polonia, per inciso, non adotta neppure la moneta unica europea. Intervenne, a un certo punto, uno scrittore polacco di cui purtroppo mi è sfuggito il nome, ma che posso inserire in quel filone di intellettuali slavo-mitteleuropei orientati a una Sinistra più o meno volta al centro il quale, in maniera anche accorata, esortava a non assimilare il pensiero dei suoi connazionali (citava anche gli ungheresi) a quello dei suoi (loro) governanti e lo fece spendendo notevoli argomenti e deduzioni. 
In tempo pressoché reale, gli fece eco un’ascoltatrice che espresse, più o meno in questi termini, il seguente pensiero: a me risulta che in Polonia e, da più lungo tempo, in Ungheria, i governi attuali non siano saliti al potere grazie a un colpo di Stato, bensì a seguito di ripetute elezioni, sulle cui modalità nessuno ha avuto mai niente da ridire; dunque, di che parla, di cosa si preoccupa, cosa vuole dirci colui che ha parlato in precedenza? 
Come darle torto. Questa, è la vera zeppa nell’ingranaggio europeo, altro che un quasi impossibile voto unanime – metodica che paralizzerebbe anche la meno affollata assemblea condominiale – se non all’inevitabile prezzo di un generale sbiadimento dei principi originariamente facentene parte; la salita al potere di qualcuno, democraticamente (ri)eletto, che esprime e mette in pratica principi talmente retrogradi da minacciare seriamente quella democrazia che gli ha consentito di essere dove si trova ora costituisce un dilemma di enormi implicazioni. Che, come tutte le questioni di passaggio, astrattamente determinanti da una fase storica all’altra, viene lasciata insoluta. Potessi incontrare quell’eminente scrittore di cui sopra, gli porrei la domanda di quell’ascoltatrice (di passaggio: a sentirla, per niente favorevole a quei governi): cosa volevi dirci? Che una buona parte della popolazione polacca non si identifica con il governo al potere a Varsavia e che pertanto è scorretto dire che tutti i polacchi la pensano come presidente e primo ministro e che questo valga a che per gli ungheresi? Va bene, ne prendiamo atto. Lo sapevamo già. 
O vuoi forse dirci, perché QUELLO era il significato che personalmente ho percepito (ma, a quanto pare, anche qualcun altro che stava ascoltando la radio), che è la maggioranza dei suoi connazionali e dei vicini magiari a non condividere le rispettive, simili politiche? Perché se è così, allora non ne prendiamo atto. O, meglio, tocca prendere atto della persistenza di una maledetta tabe che ancora intossica la Sinistra europea, forse mondiale e che consiste nell’incapacità di capire, di interpretare, di ‘farsi’ popolazione (Alberto Manzi non ‘faceva’ il maestro: lui ‘era’ gli analfabeti che tramite l’insegnamento riuscì a trarre dalla miseria umana), per poi stupirsi e indignarsi di come e da che parte tiri il vento elettorale. 
Qualcosa di simile avvenne, qualcuno lo ricorderà, una ventina di anni fa quando in Austria divenne primo ministro Jorg Heider, il quale esprimeva –  a parole, spesso tonanti: nella pratica politica le cose andavano in maniera un po’ diversa – idee e progetti che oggi probabilmente lo collocherebbero a sinistra di Salvini e di Orbàn; si scatenò un putiferio, qualcuno arrivò addirittura a proporre una specie di cordone sanitario ‘democratico’ intorno a Vienna, sordo e cieco alle obiezioni che facevano osservare come, alla stregua della stampa in quel film, quella era la democrazia, bellezza. Un incidente d’auto nel quale Heider perì, risolse sbrigativamente il problema nella contingenza. La tabe, rimane e mantiene in essere un fossato non ancora colmato – e chissà se e quando lo sarà – fra la classe intellettuale e quella che potremmo chiamare, senza alcun disprezzo, gente comune; ciò che porta la Sinistra, una certa Sinistra, a stracciarsi le vesti per quello che accade a Budapest o a Varsavia, e a manifestare uno stupore così forte, da pretendere di negare fondatezza all’esistenza di una volontà elettorale che, certo non per colpa dell’Orbàn di turno, orienta il voto da tutt’altra parte rispetto a quanto ci si aspetta o si auspica. 
Ovvero, detta in termini meno ampollosi: causa una sdegnosa e infantile lontananza – ci si sporca le mani a toccare la terra – come prima, come sempre, non avere capito un tubo.

Cesare Stradaioli