IL LIBRO DEL MESE DI SETTEMBRE consigliato dagli amici di Filippo

Secondo Oswald Spengler, tutte le grandi civiltà sono civiltà cittadine, in quanto fondate su principi di organizzazione sociale. L’arte di cui parla l’Autore, riferita al fenomeno sociale denominato città, è il prodotto della comunità e dei singoli, degli architetti, degli artisti: dei semplici cittadini e di coloro che li rappresentano.

L’arte della città come poetica dello spazio abitato, là dove come poetica si intende l’atto stesso di abitare la terra.

Ora, nella nostra percezione, vi sono città ‘cinematografiche’, cioè evocative di arte visiva, quali New York, Hong Kong, Tokyo, Londra; altre, invece ispirano riflessioni artistiche di taglio letterario o pittorico, come Venezia, Parigi, Madrid, Amsterdam. Ma, al di là dell’aspetto più strettamente evocativo, l’arte della città contempla anche città che l’occhio umano misura in altezza, quali Bologna o Venezia, mentre ve ne sono altre che si sviluppano in senso orizzontale e, in questo senso, Roma è esemplare.

A proposito di ciò, l’Autore si domanda se abbia ancora un senso parlare di bellezza, con particolare riferimento al concetto di città – nelle quali, a quanto sembra, verso il 2030 (praticamente dopodomani), vivrà circa il 60% della popolazione mondiale – nell’epoca della globalizzazione. Cioè, a dire: esiste ancora un’arte della città?

Se nel corso degli ultimi decenni le città sono diventate il simbolo del predominio esercitato dal capitale e dall’economia, a scapito della loro vivibilità – e, sotto questo aspetto, niente rappresenta questo scenario meglio dello svuotamento dei centri storici – ecco che l’Autore suggerisce, quasi ordina agli architetti quello che lui chiama ‘piano di responsabilità’, esortandoli a dare una forma leggibile alle loro opere e a controllare il peso stesso delle forme sviluppate.

In quanto atto politico, insiste Milani – docente di Estetica a Bologna – la pianificazione dell’edilizia urbana più che creare spazi, deve creare luoghi: gli abitanti devono ‘abitare’ la città (sembrerebbe un’ovvietà, ma tutto dimostra che non lo è), le quali devono tornare a essere plasmate sull’esperienza umana e non essere più esclusivamente funzionali allo sviluppo finanziario.

In altre parole, l’ordine della città non deve essere di tipo newtoniano, associato al concetto di piano regolatore, quanto piuttosto ispirato al fatto che la sua sopravvivenza ha un senso se i cittadini possono vedere soddisfatta la loro necessità di libertà estetica, strettamente connessa a legami collettivi – fra le persone, non fra le cose.

L’alternativa saranno da un lato il centro città deputato alla finanza, frenetico e asettico di giorno, morto e moralmente sporco di notte e nei week end; dall’altro il ghetto metropolitano e il dormitorio delle periferie, mentre si diffondono le terrificanti agorà moderne, i centri commerciali, abitati dall’uomo moderno che, come quello antico, ha bisogno di socialità: che non può, non deve essere vissuta fra gli scaffali di sconti speciali, attraversati di corsa alla guida dei carrelli della spesa.

E non saranno una manciata di giardini, di zone verdi, di alberi, di oasi artificialmente ficcati a forza in mezzo o in cima alle case, a rendere la città migliore di com’è diventata: solamente, conclude Milani – verrebbe da dire pessimista nell’intelligenza e ottimista nella volontà – un nuovo modo di pensare la città, che ridiventi luogo dell’uomo e non delle merci, può cambiare le cose. Proprio perché atto squisitamente politico, spetta a ognuno di noi pensarlo, volerlo, decidere che sia messo in atto.

Cesare Stradaioli

Raffaele Milani – L’arte della città – Il Mulino Saggi, pagine 163, €18