IL LIBRO DEL MESE DI MARZO 2016 Consigliato dagli Amici di Filippo

 

E’ in atto nel nostro Paese il realizzarsi di un tipo di populismo del tutto diverso da come il fenomeno è conosciuto e viene analizzato da decenni. Un populismo tanto virulento quanto di carattere istituzionale: ed è qui la peculiarità del fenomeno, il fatto di emergere, a differenza di altre patologie politiche simili, non già dal basso e dall’esterno rispetto al sistema di potere, quanto proprio dal suo interno, dall’alto, dal cuore stesso dell’esecutivo.

Se con il termine populismo intendiamo l’evocazione, in gran parte retorica, di un certo popolo collocato al di fuori delle istituzioni rappresentative e per certi aspetti a esse contrapposto, al nucleo stesso dei suoi rappresentanti, riconfigurati come ‘casta’, secondo l’Autore non v’è dubbio che Matteo Renzi ne interpreti una variante particolarmente originale e aggressiva.

La cifra più schietta del suo modus operandi è al meglio concretata in un’operazione di vera e propria liquidazione di ogni sorta di mediazione istituzionale (cominciando dal Parlamento) e sociale (con il sindacato come obbiettivo dichiarato), il tutto con il preciso scopo di istituire un rapporto diretto con il capo-massa. O, se si vuole, con la stramaledetta figura dell’uomo forte, dell’uomo solo al comando, che pare essere uno stimma ineliminabile dalla politica italiana e dall’anima stessa del popolo che la dovrebbe rappresentare.

Secondo l’Autore tutto si compie a partire dalla sconcertante rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica, evento scaturito (ma certo non generato: le radici di questo fenomeno sono lunghe) dall’indecente vicenda dei 101 del Pd nella loro operazione di vero e proprio killeraggio politico che ebbe come vittima Romano Prodi, più volte tirato per la giacca e sollecitato a lasciare il suo splendido isolamento e ad accettare la candidatura – da considerarsi sicuro viatico per l’elezione al Quirinale. Il libro non ritiene di soffermarsi più che poco sul voltafaccia del quale, roba degna del PCUS ante Gorbaciov, pochissimo si sa e soprattutto nulla si sa dei 101 (cosa che ha dell’incredibile, neanche un pugno di nomi) né dei mandanti di quello sconcio, anche se, a parere di chi scrive, qualche sospetto ci fu fin da subito, con tanto di iniziali – M.R., tanto per non fare nomi.

E’ un fatto, secondo l’Autore, che lungo tutto il 2013, dalla rielezione presidenziale fino alle seconde primarie del Pd nell’arco di poco più di un anno, che portano al trionfo di Renzi, si appalesa la nascita di questo populismo interno alla classe dirigente e ai centri del potere, che segna l’inizio del declino della repubblica parlamentare, a vantaggio di un presidenzialismo di fatto.

Vi è un ulteriore elemento, insieme genetico e consequenziale rispetto a questo populismo ‘dentro e contro’, ed è l’astensionismo, fenomeno descritto dall’Autore già nel corso di quell’anno nel volume “Finale di partito”, che arriva in quel momento elettorale a contare oltre 13 milioni di elettori, una cifra che ha del folle, in una democrazia rappresentativa: e il tutto malgrado quello che è stato definito ‘l’intervento-tampone’ a opera del M5S che aggancia un’imprevedibile percentuale di voti. Come che sia, a fare due conti, quella disperante massa di astensioni dal voto porta quelle elezioni che ancora oggi vedono i rappresentanti da esse usciti a comporre l’organo legislativo, a percentuali di voto indicativo di una opzione politica non distante da quel 50%+1 che, in caso di referendum, ne invaliderebbe il risultato.

Questo nuovo populismo, però, ha prodotto altro: la demagogia fascistoide di Salvini da un lato; dall’altro, l’ossessione della democrazia diretta (almeno nelle intenzioni) incarnata dal Movimento Cinque Stelle, tutt’ora di difficile decifrazione – cosa che manda sistematicamente in confusione il ceto giornalistico politico. La profonda differenza che corre fra queste due forme di populismo, piaccia o meno al Pd e ai suoi corifei, sta nel verticismo assoluto che informa la Lega, che si contrappone ai mille pseudo verticismi del M5S. In estrema sintesi, oggi come oggi la Lega E’ Salvini e Salvini E’ la Lega, mentre pur essendo evidente il peso che esercitano Grillo e Casaleggio su un movimento che ha dell’incredibile nella sua percentuale di voto in un Paese che storicamente ha sempre mosso le percentuali nell’ordine dello zero virgola, la percezione degli elettori o possibili simpatizzanti è che di capi ce ne sono tanti (e, in definitiva, forse nessuno, il che costituisce uno dei motivi della forza elettorale di questo movimento).

Detto ciò, l’Autore rimane, per cos dire, ‘sul pezzo’ e cioè su colui che chiama ‘maleducato di successo’, l’attuale Presidente del Consiglio, che dal suo punto di vista è costretto dal ruolo che si è scelto – o che qualcuno ha scelto per lui – a mantenere un profilo di attacco continuo, fra un sistematico battere i pugni sul tavolo (o bombardare la rete di tweet più simili a flussi di coscienza adolescenziali che non a valutazioni politiche, il che è lo stesso), offendere, tenere comportamenti da bullo, dare sempre sulla voce agli altri: gli viene fatto salvo quello che veniva fatto salvo a Berlusconi e cioè l’obbligo di realizzare le promesse con le quali colora la propria presenza politica. Il che è tratto essenziale del suo stesso essere, e buon per lui – e male per il Paese – prima di tutto perché non ne è capace, dato che manca (lui e tutto il suo entourage) di solida e credibile formazione politica che implica, prima di ogni cosa, la capacità di mediare e poi perché, letteralmente, i mezzi non ci sono, stante la folle (e, alla lunga, deleteria) crescente concentrazione di ricchezza in poche e private mani, a scapito della collettività e del sociale.

Con la dovuta considerazione per la quale il carattere di ‘successo’ della maleducazione a livello politico non è certo copyright dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi: a partire dall’ultimo peone che in un qualsiasi talk show locale o nazionali, interrompe e offende l’interlocutore, con a mente il famosissimo ‘adesso mi sono proprio rotto i coglioni’ di craxiana memoria, passando per il dito medio bossiano e gli insulti berlusconiani ai magistrati, fino ai ‘professoroni’, riferito dall’allora neo ministro Boschi a eminenti figure giuridiche quali Rodotà o Zagrebelsky, risalendo fino al ‘culturame’ scelbiano, bisogna dire che nel nostro Paese l’esibizione linguistica offensiva – ultima, ma certamente non sarà ultima, i ‘gufi’ renziani – ha sempre riscosso un notevole successo, per lo più a discapito del dialogo.

Il quadro che si trare è desolante: un’occupazione pressoché completa dell’intero spazio politico da parte di populismi senza una sinistra antagonista, verticalizzati personalisticamente intorno alla triade Salvini-Grillo-Renzi; marginale a tutto ciò, una residua sinistra senza popolo, magmatica e confusa al punto tale da apparire ininfluente. Ci vorrebbe una sinistra nuova – affermazione tanto condivisibile quanto già sentita una qualche migliaiata di volte in passato: capace, così conclude l’Autore, di affrancarsi dai propri errori, dall’arretratezza culturale, dalla pigrizia politica che l’ammanta, dalla propria ignavia linguistica nonché, forse il tratto più forte e perciò più deleterio, dalla propria astrattezza; il tutto allo scopo di finalmente invertire una direzione – se mai una direzione c’è stata – che ha portato alla mancanza totale di radicamento, proprio nei momenti in cui, nei luoghi della vita (si pensi alla solitudine degli esodati, degli indebitati, degli sfrattati, dei falliti e, sì, dei tanti cittadini che si sono tolti la vita), il sociale entrava in un grave sofferenza, nella quale ancora oggi vive.

Cesare Stradaioli

Marco Revelli – Dentro e Contro, quando il populismo è di governo – Editori Laterza – pagg.133, €14