IL LIBRO DEL MESE DI MAGGIO Consigliato dagli Amici di Filippo

L’altro titolo della più recente pubblicazione di Gian Enrico Rusconi, profondo conoscitore della cultura e della politica tedesca, potrebbe essere tratto da una della varie citazioni ivi contenute: “Germania: troppo piccola per il mondo, troppo grande per l’Europa.”

E’ interessante l’accostamento fatto fra il Reich che ha visto come protagonista Otto von Bismarck, il ‘Cancelliere di ferro’ e la Germania di adesso, che a Berlino come capo del governo vede una donna ritenuta non meno dura e intransigente del suo illustre e lontano – ma non così lontano – predecessore.

Secondo l’Autore, la Germania di Bismarck e quella attuale vivono, sia pure in contesti storici e politici inevitabilmente non confrontabili, una specie di comune sentire, definibile come riluttanza all’esercizio dell’egemonia. Il fondatore del primo Reich come ‘potenza di centro’ e i politici più vicini ad Angela Merkel – per non dire della cancelliera stessa la quale, comunque, per costume proprio rifugge dalle dichiarazioni ‘forti’ – hanno in comune da un lato un’evidente insofferenza nei confronti del concetto stesso di egemonia e, più in generale, dell’idea di un’Europa “tedesca”, dall’altro una forte preoccupazione tesa alla conservazione (all’epoca, l’Impero: oggi, la forza economica tedesca).

Vi è poi un terzo fattore che lega la Germania bismarckiana e quella che, di fatto, anche se all’apparenza pare sempre fare un passo in avanti e due indietro, oggi è indiscusso leader continentale: il rapporto con la Russia. Nell’intento di fare del Reich un punto di equilibrio europeo, Bismarck teneva in alta considerazione il mantenimento di un rapporto privilegiato con Mosca: non a caso – nella Storia niente avviene per caso – l’abbandono da parte della Germania guglielmina dei legami politici con la Russia fu considerato unanimemente come uno dei più importanti fattori che avrebbero portato nel 1914 alla guerra.

Passati numerosi decenni, l’avvento della Rivoluzione d’Ottobre e la chiusura dell’esperienza sovietica, due guerre mondiali, più una lunga guerra fredda e, infine, la divisione prima e la riunificazione poi della Germania, come in un bizzarro gioco dell’oca pare di essere tornati al punto di partenza: siamo ancora noi europei a dipendere dalle relazioni fra Berlino e Mosca. Qualcuno sostiene come le rispettive diversità di prospettiva, personali e perfino di gestione del potere al proprio interno, intercorrenti fra Bismarck/Merkel da un lato e lo Zar Alessandro II/Putin dall’altro, non siano in definitiva così profonde.

Per quanto attiene all’oggetto dello studio di Rusconi, in effetti l’anima luterana e prussiana di Bismarck e quella della cancelliera nata nell’allora DDR – che, come noto, sosteneva e menava vanto non solo di albergare la lingua tedesca nel suo migliore e più appropriato essere (scritto e parlato) ma anche – più velatamente e per evidenti ragioni di opportunità – di mantenere duro e puro lo spirito della grande Prussia, presentano profondi tratti comuni.

La riluttanza bismarckiana potrebbe derivare – l’Autore non ne fa un esplicito riferimento ma lo si può trarre da tutta una serie di considerazioni – da una sorta di schizofrenia politica, che vide l’ultraconservatore Cancelliere dare luogo e attuazione a una politica che oggi chiameremmo di welfare (e fra i più avanzati se non il più avanzato) costituita da un sistema di assicurazioni e tutele contro malattie e infortuni sul lavoro, assistenza per invalidità e vecchiaia che, al di là dell’evidente intento strumentale di mantenere un deciso consenso popolare, costituì, fu e rimase uno dei più elogiati complessi di iniziative sociali interne. Come se la classe operaia fosse da ritenere destinataria dell’assistenza dello Stato e, allo stesso tempo, virtuale sua nemica.

E’ stupefacente, per rimanere nelle sconcertanti similitudini, leggere nelle memorie di Bismarck chiari riferimenti al problema della Serbia e dei rapporti, allora come ora, tesissimi fra Russia e Turchia: come se il tempo, per certi versi e certi aspetti, si fosse fermato o addirittura riavvolto come un nastro registrato.

Di certo, la rivoluzione tedesca bismarckiana fu una rivoluzione ‘dall’alto’, mentre quella definita ‘democratica’ del 1989, ben al di là e oltre degli intenti di riunificazione, fu prima di tutto connotata da un desiderio di libertà, non fosse altro per il fatto che Bismarck fu colui che immaginò e realizzò la sua rivoluzione, mentre Helmut Kohl – che dagli eventi della DDR del 1989 culminati con la caduta del Muro fu colto di sorpresa (in buona compagnia, peraltro) – fu gestore, abile non c’è che dire, degli avvenimenti che riportarono la capitale nella Berlino non più divisa. Per non parlare del fatto che senza il decisivo contributo di Gorbaciov (che aveva in mente di dare impulso alla riforma del sistema sovietico e che, per contro, contribuì al crollo di quel sistema e alla fine della propria parabola politica), il tutto non sarebbe avvenuto, certamente non in quei tempi e in quei termini e per di più alla presenza – se così si può dire – di un’Europa politicamente debole, sia nel 1870 sia oltre cento anni dopo.

La schizofrenia, però, rimane. Dopo la crisi finanziaria del 2008-2009, sembra tornare in auge un trionfalismo tedesco che presenta diversi tratti in comune con quello del 1870: e ancora una volta troviamo un ceto politico per nulla incline, quanto meno a parole, a raccogliere oneri e onori di un’egemonia che tutto e tutti insistono continuamente a voler loro conferire. Joschka Fisher, già ministro nel governo Schroeder, parla di risveglio improvviso nel quale, senza averne minimamente la voglia, i tedeschi si sono trovati ad avere un ruolo di leader. L’Autore cita un politologo quale Hans Kundani il quale arriva a ipotizzare uno scenario in cui “nel lungo periodo crescerà la pressione che porterà gli Stati debitori a unirsi in un’alleanza antitedesca … proprio come temono i tedeschi…”, facendo aperto riferimento a un parallelo con la situazione del 1871: la paura dell’accerchiamento che oggi sarebbe non tanto geopolitico, quanto economico. Questione che per la Germania, con 80 milioni di abitanti e un considerevole numero di attuali e futuri pensionati – ai quali, è bene ricordarlo, molto è stato e sarà chiesto, durante la vita lavorativa, proprio in vista di una ‘ricompensa’ costituita da una pensione indenne da svalutazione (terrore dei tedeschi, altro che memoria dei disastri della Repubblica di Weimar!) – definire drammatica sarebbe usare un gentile eufemismo.

Quanto a Wolfgang Streeck, altro eminente autore citato da Rusconi, sia pure con alcune riserve, la sua analisi poggia le basi sull’azzardo (per non dire fallimento) dell’euro e sulla sovraindustrializzazione che tradizionalmente caratterizza l’economia tedesca e tutto ciò riporta alla stessa problematica di una nazione che è, contemporaneamente, vulnerabile in quanto riluttante ed è specularmente riluttante – e cioè insicura – proprio in quanto vulnerabile e pare proprio che non se ne esca.

Come 140 e più anni fa, Berlino è sotto osservazione, vive in stato di perenne assedio, sempre sotto controllo, magari anche in ragione di un senso di colpa tutt’ora marcato, in passato per le guerre provocate – e perse: male gliene incoglie ai vinti, lo diceva nel 390 a. C. un condottiero nato nell’attuale Francia, solo un tedesco può coglierne l’ironia – e oggi per il dominio monetario ed economico. D’altra parte, per quanto Wolfgang Scheuble, il potentissimo ministro finanziario dell’esecutivo Merkel vada ripetendo come il concetto di “Europa tedesca” sia una totale insensatezza, è un dato di fatto sotto gli occhi di tutta l’opinione pubblica non solo europea, che non più tardi di 12 mesi fa, Tsipras e il suo ministro delle finanze di allora Yanis Varoufakis (del quale oggi, purtroppo per la Grecia e per la democrazia, si rivelano fondati ammonimenti e profezie), non trattavano la situazione greca con il Commissario europeo agli Affari economici e monetari, il francese Pierre Moscovici, né con quello inglese alla Stabilità finanziaria, Jonathan Hill, bensì con Scheuble stesso – in persona personalmente, come direbbe un personaggio creato da Andrea Camilleri: con le conseguenze che sono di nuovo sotto gli occhi di tutti.

La sofferenza della Germania, è la conclusione di Rusconi, è la sofferenza dell’Europa e, per logica conseguenza, anche dell’Italia. E’ una considerazione amara per quanto inconfutabile, però qualcuno l’aveva anche detto: che tutta la fuffa ideologica dietro la riunificazione tedesca, il crollo del Muro, l’abbattimento delle frontiere per le merci (non per le persone), la sterminata prateria consegnata al mercato e a un direttorio europeo costituito da persone non elette… E siamo in uno di quei casi in cui dire ‘L’avevo detto’ non rende giustizia neanche per sbaglio.

Cesare Stradaioli

Gian Enrico Rusconi.

Egemonia vulnerabile – La Germania e la sindrome Bismarck – Il Mulino – pagg. 170, €14