IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE consigliato dagli Amici di Filippo

E’ sempre un piacere leggere Stefano Rodotà, tanto quanto ascoltarlo: il detto ‘parla come un libro stampato’ non è sempre un complimento, ma chi ha avuto la fortuna di ascoltare una sua conferenza o anche solo un intervento televisivo, avrà senza dubbio notato come pressoché tutte le frasi che pronuncia potrebbero, pari pari, essere riprodotte in stampa, con toni, interpunzioni, pause e parti – necessarie ed eventuali – del discorso ognuna al proprio posto. E questo sì, che è un complimento.

L’ultimo lavoro di quello che avrebbe potuto essere l’attuale Presidente della Repubblica – e non ce ne vorrà Sergio Mattarella, ma proprio non ci sarebbe partita – accosta a quello che probabilmente è l’argomento che più gli sta a cuore, il diritto, una insospettabile e inaspettata new entry: l’amore.

E parte alla lontana, Rodotà, con una bella rincorsa fino a Montaigne: la vita come “movimento ineguale, irregolare e multiforme”; passare da questa, sintetica eppure completa definizione di un tutto, a un qualcosa che sta al suo interno, cioè l’amore, che a essa è strettamente e inevitabilmente connesso, il passo è brevissimo, tanto quanto inevitabile parrebbe lo scontro diretto con i caratteri propri del concetto di diritto.

Nell’esperienza storica e particolarmente in quella all’interno della modernità occidentale, secondo l’Autore il diritto ha circoscritto l’amore in un perimetro considerato giuridicamente legittimo: il matrimonio.

Caratterizzato da categorie tipiche del diritto patrimoniale: la proprietà, del corpo dell’altro e il credito, cioè la legittimazione a esigere prestazioni sessuali; non sembri un’esagerazione, dal momento che pure uno del più illuminati e rispettati giuristi italiani e internazionali, Francesco Carnelutti, commentando l’allora nascente codice civile – 1942 – sosteneva come il diritto di un coniuge verso l’altro è più vicino di quanto non sembri al diritto nascente per l’imprenditore verso il lavoratore. Chi fosse l’uno e chi fosse l’altro (o dovremmo dire, l’altra?), all’epoca è facile capirlo. D’altro canto, l’articolo 144 del codice civile, fino alla riforma del 1975, identificava l’uomo, il marito, come “capo della famiglia”.

E quanta fatica, nella Costituzione (e quanta in Togliatti e parte della dirigenza del PCI, a respingere una disciplina della famiglia rimasta ancorata a valori pre repubblicani, in considerazione di una base ferma nel concetto di intangibilità del matrimonio, pensiamo solo alle non blande resistenze alla legge sul divorzio), per almeno tentare di scalfire un diritto che nemmeno considerava l’amore, relegandolo dietro a regole sociali più tese al contratto che non al concetto di unione! Si trattava di un’esigenza avvertita in più settori – oggi si direbbe ‘trasversalmente’ – della società e del pensiero giuridico: basti ricordare come fu Arturo Carlo Jemolo, giurista sì liberale ma anche profondamente cattolico, a scrivere del diritto che potrebbe e dovrebbe solo lambire l’isola costituita dalla famiglia.

In ogni caso, la conquista da parte del diritto di territori in precedenza affidati a strutture immodificabili come la religione o precetti di carattere naturalistico, non venne (e non deve essere) presa come una indebita espressione della dimensione giuridica: al contrario, essa secondo Rodotà ha rappresentato una forma di liberazione da antiquate regole costrittive, dato che la legge – a differenza di principi posti da entità astratte – può essere modificata dalla volontà umana. E si badi come non si tratti di considerazioni datate nei secoli: ancora fino a pochissimi anni fa, un ricorso avanti la Sacra Rota una questione attinente a un matrimonio senza amore veniva rigettato come irrilevante, sulla scorta di un principio del diritto canonico secondo il quale “amor non est in provincia iuris”. Peppino potrebbe sentenziare, in proposito: “E ho detto tutto!”

Rodotà fruga nelle pieghe del rapporto fra diritto e amore senza porsi veti né pregiudiziali, perché è solo affrontando le questioni in maniera diretta che si può e si deve conferire loro l’importanza che meritano: il peso, l’ombra del Vaticano, della ramificata cultura cattolica custodita e impartita da una presenza del sacerdozio che, sul territorio, poco o nulla aveva e ancora ha da invidiare a quella dell’Arma dei Carabinieri, tuttora è presente nel sociale del nostro Paese, fino all’interno delle camere da letto, se è vero come è vero che a rivoluzione industriale già avviata, anche in una Regione di livello culturale superiore come è sempre stata l’Emilia Romagna, il marito si accostava alla moglie per compiere l’atto sessuale (rigorosamente finalizzato alla riproduzione, che per il piacere c’erano altri luoghi a esso deputati), chiedendo alla consorte – non di rado usando il ‘lei’ – ‘signora, stasera posso mancarle di rispetto?’, come se, per l’appunto, il gesto fuoriuscisse dai canoni del rispetto e della buona educazione. Qualcuno potrebbe pensare che oggi, a decenni, praticamente un secolo, di distanza, la cosa neppure viene chiesta e anzi imposta, ma sarebbe un altro discorso su come si sono deteriorati i rapporti uomo-donna.

Dovette intervenire la Corte Costituzionale, nel 1961 – va ricordato che per accedere in Magistratura, le donne dovettero attendere il 1966: avete letto bene – sia pure con le inevitabili incertezze frutto della formazione culturale degli uomini che la componevano, per statuire che i figli non appartenessero al marito (alla faccia del ‘mater sempre certa est, pater numquam’, codificato dai Romani: quando si dice dover prendere atto della biologia!) e poi nel 1968 con l’abolizione del delitto d’onore, per aprire, magari anche in parte inconsapevolmente, una crepa nella corazza del diritto per farvi entrare, si direbbe, un po’ di amore, di empatia, di considerazione reciproca mossa dal sentimento e non solo dalla Norma, con la N maiuscola.

In qualche maniera, conclude Rodotà, il diritto deve conoscere sé stesso e i propri limiti, l’illegittimità della pretesa di impadronirsi della vita; deve o dovrebbe comprendere l’esistenza dello spazio di non diritto, nel quale non può entrare e di cui, se mai, farsi tutore. Non ruolo di paternalismo, insomma, bensì di distanza e rispetto. Il tutto con il richiamo, a mo’ di chiusa e di esempio che valga per ogni altra questione, all’articolo 29 della Costituzione, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio: chi vuole sposarsi si sposi, ma la diversità di orientamento sessuale non può fondare un diverso trattamento giuridico, essendo questo, oltre a tutto, improponibile ai sensi dell’articolo 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

Ma, ancora una volta, le leggi – che pure ci sono – contano fino a un certo punto, se poi cadono nel vuoto e non serve una palese violazione: è sufficiente anche una latente disapplicazione (basti pensare proprio a larghe parti della nostra Carta Costituzionale, che si vorrebbe modificata senza neppure essere stata applicata). E’ un principio comune di civiltà che le leggi vengono scritte da sobri per quando si è ubriachi: l’amore è, dunque, una ubriacatura? Certo che no, ma nel lavoro di Stefano Rodotà rimane però non posto con chiarezza il dilemma se e fino a che punto l’amore (che è anche solidarietà, altra parola cui l’Autore tiene parecchio, aiuto, senso civico e sociale) possa riprendersi il terreno che ha diritto di riavere e fino a che punto la legge possa arretrare, senza rischiare di lasciare spazio all’abuso, al libero arbitrio, all’incoscienza. All’ubriacatura.

E siano concessi due riferimenti, uno internazionale e uno di casa nostra.

Quello internazionale riguarda la Cina, dove recentemente è stata abolita la legge che imponeva il figlio unico per ogni famiglia: la novità è stata da più parti, anche progressiste, salutata con favore, anche considerando lo spaventoso numero di aborti che vi sono stati durante la sua vigenza e certo non dettati dal non volere un secondo figlio. Ebbene: la Cina ha oltre un miliardo e 400 milioni di abitanti; un essere umano su cinque è cinese e molti di loro soffrono ancora oggi, 2015, di insufficiente nutrizione e di un’aspettativa di vita che non va oltre i 55 anni. Cosa sarebbe successo se questa legge, terribile, che ha schiacciato l’amore per un secondo e un terzo figlio sotto il tallone dello Stato, non fosse mai entrata in vigore? Più che domandarci quanti cinesi ci sarebbero oggi al mondo, dovremmo chiederci quanti di loro vivrebbero in condizioni dignitose, se non altro paragonabili – che so – a un abitante medio di Pechino o di Hong Kong.

Quello nostrano non è meno pesante, sotto certi punti di vista. Per anni, il corpo di Eluana Englaro è stato letteralmente usato per fini indecentemente politici, con il richiamo al diritto alla vita. Dall’altro lato, c’era il dettato dell’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Ora, parliamoci chiaro: chi scrive ha il massimo rispetto e la massima solidarietà per il padre di Eluana Englaro e per tutti coloro che si sono battuti affinché avesse diritto alla fine di una vita che più vita non era (rispetto che si accompagna, va detto a onor del vero, al massimo disprezzo non per le opinioni opposte, quanto per coloro che ne hanno fatto arma di propaganda). Però, quello che rimaneva della vita biologica di una ragazza diventata anagraficamente donna, ha avuto fine in quanto delle autorità giudiziarie e sanitarie, mosse evidentemente da amore e empatia, hanno dato credito a un ‘si dice’ e cioè alle dichiarazioni – indubbiamente oneste e, però, di seconda mano – secondo le quali Eluana Englaro avrebbe detto, poco prima dell’incidente, che lei non avrebbe voluto un destino analogo a quello di un amico che rimase in coma irreversibile per anni.

Ha prevalso l’amore sul diritto, sulla legge. E’ stato lecito? Amorevole quanto si vuole, ma legittimato a spostare il diritto un po’ più in là? E quanto distante – o vicino – è, l’arbitrio?

 

Cesare Stradaioli

Stefano Rodotà – Diritto d’amore – Editori Laterza, pagg. 145, €14