CONCORRENZA SLEALE, A TACER D’ALTRO

Una parata di attrici vestite di nero che si fanno portavoce della ribellione alle molestie sessuali nel mondo del cinema, culminato con il primo piano, sprezzante, di una nota presentatrice televisiva afroamericana, che ammonisce puntando il dito, dicendo che il tempo è scaduto.
Raramente mi è capitato di assistere a uno spettacolo così offensivo per l’intelligenza e la morale, intriso di ipocrisia e puritanesimo d’accatto.
Per solito, quando qualcuno comincia un discorso con l’incipit quali ‘io non sono razzista…‘, oppure ‘io sono contro la pena di morte…‘, capita piuttosto di frequente che il ‘però’ che arriva a ruota porti a conclusioni del tutto diverse, quando non addirittura opposte, rivelando così l’intima – e magari non del tutto consapevole – convinzione di chi sta esprimendo determinati concetti, ragion per cui è necessario pesare le parole con molta attenzione. Scriverò, pertanto, che io non ho mai né usato violenza sessuale, né molestato alcuna donna in vita mia e naturalmente trovo esecrabile il farlo, senza metterci alcun ‘però’, ad annacquare il tutto.
Però.
La legittima e nobile aspirazione di diventare attrici o attori è e rimane quello che è: per l’appunto, una aspirazione. Aspirare a un posto di lavoro, anche precario, anche a termine, anche sottopagato, per tirare avanti – specie se c’è una famiglia che ci fa conto – NON è una nobile aspirazione: è un sacrosanto diritto. Luis Bunuel soleva ripetere come ci fosse un limite anche alla prostituzione: a quella intelectuale, resa celebre da Josè Mourinho, certamente sì; non la vedo nello stesso modo dei due Maestri, quando si parla di robetta materiale, quale portare a casa quattro soldi, cercare di arrivare a fine mese, magari provare a garantire ai propri figli un futuro migliore di quello dei loro genitori. Considero, pertanto, degne del massimo rispetto umano quelle persone – donne, per la stragrande maggioranza dei casi – che fanno mercimonio del proprio corpo, allo scopo di garantirsi una vita degna di essere vissuta; peraltro, fra una donna che se ne sta per strada ad avvelenarsi lo spirito e il corpo e una che lavora in una tintoria o in un reparto verniciatura non vedo alcuna differenza: sempre vita di merda è, ma quando c’è la dignità, qualsiasi vita merita rispetto, specie se è di merda. Almeno quella che va in strada e quella che si alza alle 6 per andare a respirare veleni, ci mettono la faccia.
Ciò che, a mio giudizio, non merita rispetto, è la prostituzione per avere una parte in un film o il proprio disco prodotto o una comparsata nell’ultimo programma idiotizzante della televisione. Perché QUELLE specifice esplicazioni umane NON sono necessarie: si è costretti a lavorare per vivere, mentre NON lo si è altrettanto per diventare attrici o cantanti o quello che volete e per vivere si può, in assoluta dignità, accettare le peggiori umiliazioni, avendo il sacrosantissimo diritto di lamentarsene e di denunciare chi obbliga a dette umiliazioni, anche molto tempo dopo che il rapporto è terminato. Diritto che NON hanno coloro che accettano ricatti per lavori che non siano di primaria necessità, che non servano per campare. Non c’è, non ci può essere, non ci deve essere comprensione per la prostituzione a scopi artistici o di spettacolo. Non sei obbligato a fare l’attore, come non sei obbligato a fare l’imprenditore: non c’è obbligo che giustifichi la disonestà. Perché è di disonestà che si tratta.
Il produttore cinematografico maiale ti chiede di metterti in ginocchio – ‘e non per pregare’, disse una volta Marylin Monroe? Fallo pure, è una tua decisione e se sei maggiorenne e vaccinata è un problema da risolvere – se il problema esiste – con la tua coscienza; basta che poi tu non ti metta a fare la vergine vestale, denunciando l’abuso subito. Perché non solo tu hai venduto la tua dignità per un lavoro che non è obbligatorio esercitare (rifiuta e trovati un lavoro da cameriera/e, sarà una scelta, quella sì! nobile), ma probabilmente sei passata/o davanti a qualcuna/o più brava/o di te, semplicemente perché magari vanti maggiore avvenenza e disponibilità ma non maggior bravuta e nel fare questo, signora mia, signore mio, nel libero mercato dell’arte – dove, vivaddìo, dovrebbe davvero regnare una concreta meritocrazia: l’arte non è democratica – hai posto in essere quella cosa che si chiama concorrenza sleale.
Tu mettiti in ginocchio, o in qualsiasi altra posizione materiale e morale, per ottenere qualcosa a discapito di altri che non lo farebbero, e con questo ottieni quello che gli alti meriterebbero più di te, e sarai nella medesima posizione di chi paga una tangente per avere l’assegnazione dell’appalto, a discapito di professionisti più bravi e onesti.
Per cui avrei di gran lunga preferito che quelle signore vestite di nero – che certamente non hanno MAI dovuto subire, né MAI hanno accondisceso ad alcun ricatto sessuale da parte di registi o produttori… – insieme alla più che giusta denuncia di comportamenti offensivi e di rilievo penale (magari, anche per i più famosi e infangati, sarebbe il caso di aspettare un giudizio di tribunale, possibilmente definitivo: il garantismo non è un taxi che qualche volta si prende e qualche volta si può anche andare a piedi, a seconda del tempo che fa o della fretta che abbiamo), avessero anche esortato le giovani e i giovani aspiranti alla carriera cinematografica, di dire di no e di denunciare coloro i quali approfittano del proprio potere per esercitare violenza sessuale, materiale e morale, evitando di paragonare l’umiliazione subita dalla futura nuova Katherine Hepburn a quella di chi è costretta a battere il marciapiede, di gente che aspetta l’arrivo del caporale al mattino o teme la segnalazione del caposquadra sui tempi per andare in cesso e che per fare questo prendono treni schifosi a orari altrettanto schifosi. L’avrei trovato meno ipocrita e più onesto, oltre che utile.
Prima di dire a qualcuno che non è più il tempo di pretendere una tangente – sotto qualsiasi forma – sarebbe il caso di dire a qualcun altro di rifiutarsi di darla. Magari denunciando chi la chiede. Ed evitare disgustose parate autoreferenziali e autopromozionali, destinate a finire su giornali che il giorno dopo l’uscita servono a incartare il pesce o come fondale per la gabbia del canarino.

Cesare Stradaioli