GIORNALISMO CRIMINOGENO

Una sera due uomini, armati, si affrontano in un sordido luogo nella periferia della città dove passo la maggior parte del mio tempo. Dopo poco quello che la stampa ha chiamato “duello”, uno dei due rimane a terra, ucciso da un colpo di katana brandita dall’altro. Tempi brevissimi, arresto, qualche indagine – poca roba: è tutto chiarissimo – e, infine, il processo; quando ci sarà: a breve, direi. Nel corso del quale si sapranno motivi e moventi, ragioni e dinamiche del fatto, prima della sentenza che, inevitabilmente, sarà di condanna.
Immediatamente, lo stesso giorno dopo, in tutte le edicole della città campeggiano le locandine dei tre quotidiani locali, riportando la notizia con, di seguito, la dichiarazione – virgolettata, dunque diretta, dunque ancor più enfatizzata – di un congiunto della vittima, che preannuncia la vendetta: quando e dove non importa, garantito che ci sarà. Un giorno di pausa per dare il tempo ai lettori di introiettare il tutto e la sarabanda riprende. Di nuovo le locandine tornano sul fatto, questa volta non riportando dichiarazioni di persone toccate dalla tragedia, bensì un breve ‘telegramma’ di stampo editoriale: si teme una faida. Sarebbe da ridere – riportare certe dichiarazioni e poi temere una faida è come gettare benzina su un incendio a piano terra e paventare il suo allargarsi ai piani superiori – se non ci fosse da rabbrividire e provare umana pietà per due famiglie che saranno per sempre segnate dal fatto accaduto.
E’ da chiedersi cosa spinga il direttore di un quotidiano, che risponde non solo di chi lavora sotto la sua supervisione, ma anche e direi soprattutto di cosa e quanto viene scritto su quel giornali, a utilizzare in maniera così bieca, incosciente, irresponsabile le notizie di cronaca. Cosa c’è di razionale nel dare libero sfogo e risonanza allo stato d’animo di chi viene toccato negli affetti, nelle amicizie, nella piena consapevolezza che, in questo modo, difficilmente emergeranno parole di pietà o di distacco (o, magari, nessuna parola del tutto), mentre invece verrà dato il microfono ai peggiori miasmi che abitano nel corpo sociale di una cittadinanza stremata dalle emergenze, per lo più fasulle, incattivita per reazione e per autodifesa? Scelta di mercato? Un modo come un altro per incrementare le vendite? Dobbiamo assistere a spettacoli come questi, come se non bastassero gli allarmi che si susseguono uno via l’altro? C’è poco da discutere: pubblicare simili locandine equivale a rinfocolare l’intolleranza latente, l’aggressività che permea praticamente ogni angolo della nostra vita e delle nostre giornate: detta in altri termini, contribuisce ad alzare il livello di violenza, verbale e fisica che connota l’occidente negli ultimi decenni. Equivale a essere complici, consapevoli o meno ma su questo io non accetto scuse, di ogni possibile atto di sangue che potrebbe sorgere da quanto è accaduto.
Qui non si tratta di comprimere la libertà di espressione e il diritto di cronaca – attivo e passivo: di chi la racconta e di chi la legge – per quanto, proprio in punto di libertà di stampa, sarebbe sufficiente riportare le notizie sul ritrovamento del corpo di una donna, prima violata e poi uccisa e infine occultata o, peggio, vilipesa, senza soffermarsi morbosamente sui particolari più crudi e orribili, la cui diffusione NON è un omaggio al diritto di cronaca, quanto piuttosto una palese violazione dell’intimità di una persona, pure se non più vivente, e dei suoi cari, congiunti e conoscenti.
Il punto è che ci troviamo in presenza, e non da oggi, di un modo di fare giornalismo che sembra avere smarrito i principi base della professione, che prima di tutto poggiano sul senso di responsabilità e – sì, perbacco – sullo spirito di servizio: che non deve essere inteso come servizio a favore di qualcuno, bensì serietà e consapevolezza verso la società in genere. E se questo significa rendersi conto che, per tutta una serie di motivi che ben conosciamo, nel mondo in cui viviamo qui e ora basta poco, pochissimo per rincrudire all’istante ogni forma di relazione umana, e che questo rendersi conto possa, se non addirittura debba portare ad abbassare i toni, a fare in modo che le notizie vengano date tutte e per intero ma senza l’inevitabile condimento di esasperazione, rabbia, sfogo da latrina, abbruttimento (di chi legge ma anche di chi scrive in quei modi), ebbene che i toni si abbassino e si evitino certe locandine che nulla danno di positivo e nulla aggiungono al doveroso riportare una notizia terribile, ma che servono solo ed esclusivamente a incattivire ancora di più chi legge ed elabora in maniera distorta e, per l’appunto, criminogena, quanto gli viene servito da una stampa che sembra avere meso in soffitta – o in cantina – ogni senso del limite, della decenza e del senso civico.

Cesare Stradaioli

 

Una nota a margine.
Qualche giorno fa, il quotidiano Repubblica dette grande enfasi alla notizia che proveniva da Roma, secondo la quale il consiglio comunale aveva votato una delibera che avrebbe portato a intitolare una via della capitale a Giorgio Almirante. Il sindaco – da chi scrive mai si leggerà l’orripilante ‘sindaca’ – Virginia Raggi, pareva cadere dal pero a fronte di una simile notizia che, per ovvie ragioni, dovrebbe indignare i più. Dovrebbe.
(Per quanto grave possa essere, e lo è senza discussione, che a un difensore della razza, nonché incidentalmente fucilatore di partigiani possa essere dato il nome di una via, personalmente ritengo sia stato più grave che il signor Giulio Andreotti sia stato nominato senatore a vita e che tale carica non gli sia stata revocata dopo la sentenza di Palermo che pronunciava intervenuta prescrizione per reati di mafia fino al 1980, ma questa è opinione personale)
Pochi giorni dopo, come peraltro aveva preannunciato, Virginia Raggi intervenne e la cosa finì lì: a Giorgio Almirante NON verrà intitolata una via di Roma.
Nessuna notizia di questo su Repubblica.
Ora, questo non è certamente giornalismo criminogeno: disonesto e puttaniere, però, sì e di molto anche.

CS