FLUSSI E RIFLUSSI

Va detto e ripetuto, a costo di venire a noia, a costo di suscitare fastidio: ogni euro di detrazione fiscale è una risorsa in meno su cui può contare lo Stato; è un passo indietro, è un altro metro di ritirata, a favore della prateria dove pascolano e spadroneggiano i forti, i ricchi, i (pre)potenti. Delle due, l’una: chiunque, a livello istituzionale o di mass media, qui e ora in Italia, in Occidente, argomenti a favore della riduzione del prelievo fiscale sul lavoro o è un imbecille che non riesce a vedere il proprio futuro e quello del nostro Paese oltre il prossimo lunedì oppure (è l’opinione di chi scrive) è – consapevole o meno – a favore della ritirata da parte dello Stato. A favore del cosiddetto ‘Stato minimo’, il cui più fulgido esempio sono gli Usa, dove tutto è privatizzato, dove il cittadino è solo in balia delle più spietate espressioni del capitalismo predatorio, dove la riduzione al minimo di una parvenza di socialità porta come conseguenza un darwinismo sociale che si potrebbe riscontrare, risalendo nel tempo, nell’Inghilterra di cui scriveva Charles Dickens.

Da decenni stiamo assistendo a un vero e proprio delirio organizzato, che parte dalle segreterie dei partiti, passando per il Parlamento, le assisi comunali, provinciali e regionali, fino alla quasi totalità della stampa, che trova riscontro, ascolto e appoggio anche e soprattutto a livello di opinione pubblica: palese e sconfortante dimostrazione di come lo spregiudicato e massiccio predominio dei mezzi di comunicazione possa interferire con i più elementari livelli di ragionamento e di dove possa arrivare un condizionamento privo di qualsiasi scrupolo e professionalità. Che un cittadino qualunque, che vive onestamente del proprio lavoro e che – magari non proprio sorridendo – paga le tasse; che sia costretto quotidianamente a confrontarsi con servizi pubblici sempre più carenti, spersonalizzati e inefficienti – non potendo (a differenza di quelli che vorrebbero smantellare lo Stato sociale) accedere a quelli privati; che ogni mese che arriva fatichi sempre di più a garantire a se stesso e ai propri figli un presente e un futuro dignitosi; che questo cittadino, si diceva, si convinca piuttosto facilmente che sia politica lungimirante e positiva ridurre la tassazione del lavoro, diminuendo i carichi fiscali e le contribuzioni cui sono tenuti i datori di lavoro, perché in questo modo si rilancia l’economia, si combatte la disoccupazione e si da’ impulso all’imprenditoria, la quale più agevolmente potrà investire con maggiori risorse, equivale a che lo stesso cittadino si convinca che 5 meno 2 faccia 7.

E’ avvilente dover ricorrere ad argomentazioni che per complessità di ragionamento e livelli di analisi si riserverebbero a un bambino di seconda elementare – il quale, con tutta probabilità, capisce meglio e prima del suddetto cittadino medio, il quale anzi non capisce niente adesso ma neanche dopo – per chiarire che meno entrate fiscali significa meno servizi pubblici; che esentare, anche in maniera percentuale, il datore di lavoro dal versare i contributi porterà il lavoratore ad avere una pensione ridotta; che la conseguenza più evidente e chiara di una defiscalizzazione del lavoro porta FORSE a più posti di lavoro, ma è tutto da vedere – e, nel nostro Paese si è già visto a sufficienza: un ceto imprenditoriale per la più parte codardo, neghittoso e familista non ci pensa neppure a reinvestire nell’impresa, nel proprio e altrui lavoro, preferendo di gran lunga una via finanziaria per i capitali risparmiati per gentile concessione statale – che porti benefici allo sviluppo tecnologico della singola impresa.

Va detto e ripetuto chiaro e forte: la riduzione delle tasse, mefitico mantra ripetuto a pappagallo da tutti coloro che non sanno dire di meglio, non hanno argomenti diversi, o più semplicemente non vogliono dire altro, perché E’ PER QUELLO che stanno seduti dove stanno seduti, è un argomento di destra. E’ un argomento fondato e ragionevole solo ed esclusivamente se si concorda con Margaret Thatcher, quando sosteneva che non esiste la società ma solo un insieme di persone, tutte individualmente separate e libere – di soggiacere a quelli che una volta venivano chiamati poteri forti e che oggi, terzo millennio, posso ancora essere chiamati poteri forti, perché questa definizione sintetizza in maniera formidabile un insieme di concetti riconducibili a un sostantivo e un aggettivo non altrimenti e diversamente interpretabili.

La riduzione delle tasse, oggi in un Paese con un’evasione fiscale che è da vergognarsi solo a metterla in forma numerica su un foglio di carta, è arma di distrazione di massa; è argomento vile, stupido, crudele, approssimativo. E’ argomento innervato di un un senso di ineguaglianza talmente bieco e massiccio da faticare perfino a definirlo. Parlare di riduzione delle tasse è rincretinire la gente, indurla a credere che il sole nasca a ovest; è un osceno minestrone di disonestà condita con menzogne, è imbesuimento (termine caro al grande Dario Fo) sparso a piene mani per raccogliere il consenso di un popolo che SI VUOLE SIA BUE, perché solo se è bue può convincersi che minore gettito fiscale sia meglio per tutti, quando invece è meglio solo per pochi. Ed è pure un argomento concettualmente idiota: alla lunga, i cittadini avranno meno disponibilità economica per effettuare spese anche di livello ordinario, con la conseguenza che interi rami produttivi e commerciali (molti dei quali sono i primi evasori fiscali o quelli che chiedono e ottengono sgravi fiscali sul lavoro) non avranno un futuro e dovranno chiudere o svendere.

Allo stesso modo in cui dire e ripetere continuamente, ossessivamente che nel nostro Paese la pressione fiscale è alta, senza aggiungere che è tale perché molti non pagano il dovuto e che la cifra del 50 o del 48 o del 55%, intesa come percentuale del prelievo fiscale è effettiva e pesante solo per coloro i quali le tasse le pagano davvero, o perché ne sono convinti o perché gli tocca e non se ne possono sottrarre, è disonesto, è giocare sporco: certo, il carico fiscale non è alto e non è del 50%  – se mai, dello zero o poco più per cento – per gli evasori fiscali, totali o parziali. Il fatto è che menzionare l’invasività fiscale senza immediatamente dopo chiarire che è così solo perché qualcuno non fa il suo dovere di cittadino, è solo bugia, punto e basta.

Nel terribile quanto memorabile monologo che interpreta in “Quinto Potere”, parlando di quali siano i reali valori di una società basata sul mercato, Ned Beatty da’ voce ed espressione a un personaggio che parla del denaro – parla di potere, in realtà – in termini di flussi e riflussi: va di qua e va di là, ma come l’acqua in una bacinella spostata a piacimento a destra e a manca il livello si alza e si abbassa, ma la quantità sempre quella è. E se la si riduce, si può anche nuovamente alzare la bacinella e notare che da un lato il livello è più alto: peccato che in quello opposto si abbassi fino a scomparire. Sotto questo punto di vista, criticare l’inefficienza statale, la qualità dei servizi pubblici, i tempi di attesa, le lungaggini, l’abbrutimento dei rapporti Stato-cittadino, senza fornire la principale spiegazione di tutto ciò, vale a dire che meno soldi, meno entrate fiscali per forza di cose significa meno efficienza e più attesa, meno qualità e più disservizio, è argomento che in uno Stato normale non meriterebbe commento.

Invece i commenti vanno fatti. Vanno ripetuti. Vanno detti e ridetti, scritti e riscritti e scritti nuovamente. Insistenze, le chiamava Franco Fortini. Perché in questo, come in altri aspetti della vita di un consorzio civile, tacere è complicità: senza scuse, senza attenuanti, senza ‘se’ e senza ‘ma’.

Cesare Stradaioli