DUE VITE

Chi ebbe l’opportunità di leggerle, non dimentica le parole che scrisse Franco Fortini, in occasione di un tremendo fatto di sangue accaduto nel 1986. In totale controtendenza, come spesso gli accadeva di essere, ebbe parole di pietà nei confronti di un padre-padrone, un bestione semianalfabeta ucciso dal figlio minorenne, vittima delle sue sistematiche violenze, come del resto tutta la famiglia. Accanto alla solidarietà per il giovane – liberatosi di un orrendo peso, si accingeva ad affrontarne altri – Fortini cercò di mettere in evidenza la miserabile vita di un brutale pover’uomo, verosimilmente tirato su a violenze a sua volta e che nient’altro che violenza aveva conosciuto nella sua esistenza.
Oggi – a certi livelli di rapporti personali quell’anno sembra essere stato ieri pomeriggio – un giovane poco più che ventenne, oltre al pubblico e incondizionato ludibrio, si troverà di fronte a un processo e a un’inevitabile, pesante condanna per lo scellerato gesto compiuto. Lascerei stare ovvietà quali considerazioni intorno al fatto che la vita della ragazza è finita, mentre la sua continua: cianfrusaglie dialettiche che a nulla servono e nulla spiegano e molto, per contro, andrebbe spiegato.
Lascerei perdere anche gli strali di loschi figuri televisivi che dal piccolo schermo hanno contribuito a produrre quello schifoso brodo di coltura nel quale è cresciuto, come tantissimi altri suoi coetanei, il giovane omicida: quegli indici che, ghignanti e bavosi, puntano contro il ragazzo, dovrebbero prima di tutto essere puntati verso loro stessi. Come Fortini, io provo compassione per chi ha usato violenza, per chi non è stato capace di comportarsi da essere umano dotato di pensiero; sul cosa, come e perché, in un Paese sedicente avanzato, si sia espressa l’incapacità di rapportarsi in maniera civile con un’altra persona, bisognerebbe dire che sarebbe stato necessario pensarci prima: ed è necessario pensarci adesso per il domani, perché fatti del genere si ripeteranno. Sarebbe da evitare a tutti, magari anche ai parenti delle vittime, la sconcertante litania del dopo, l’indigesto minestrone di lutto ed esecrazione di una società che, per questo e per altri fatti del tutto diversi tra loro, vive in un perenne stato di coazione a ripetere.
Due ragazzi sono state vittime: due vite segnate. Una non c’è più, quanto meno su questa terra: chi lo ritenga opportuno, la immagini come se fosse da qualche altra parte, sotto qualche altra forma, in attesa di un non meglio specificato giorno. L’altra continua, ma in un’alternativa che, anch’essa, non può che suscitare commiserazione; al netto degli anni di carcere che dovrà scontare, se non comprenderà il gesto commesso, quel giovane uomo rimarrà il disgraziato che è: se lo comprenderà – posto che ne abbia gli strumenti adatti per farlo o che qualcuno gliene insegni l’uso – potrebbe trovarsi di fronte a uno sprofondo perfino peggiore della reclusione, specie se accompagnato dal pensiero che non venire al mondo sarebbe stato meglio. Per la società, per se stesso e per la sventurata che ha avuto la sfortuna di incontrarlo.

Cesare Stradaioli