ANCORA SUL VINCOLO DI MANDATO

E’ il caso di ritornare sulla questione del vincolo di mandato parlamentare, cercando possibilmente di non ripetere cose già dette. L’articolo della Costituzione che ne tratta, il 67 è, non per caso, secco e conciso e, per questo, chiarissimo e il suo inserimento nella Carta fondamentale della nostra Repubblica fu un qualcosa di profondamente innovativo e, in certo qual modo, ‘eversivo’. Di fatto, la statuizione dell’assenza del vincolo di mandato parlamentare all’interno della Costituzione, che lo rende emendabile solo con procedura particolare, sanciva un passo avanti di civiltà giuridica di notevole spessore.
Nel concreto, l’intenzione dei compilatori era quella di sottrarre, per quanto possibile, il ruolo di membro del potere legislativo ricoperto da ogni parlamentare alle ingerenze di poteri politici ed economici. L’esperienza del fascismo, la cui genesi fu dovuta com’è noto alla pesante ingerenza degli agrari emiliani che lo finanziarono, doveva costituire una preoccupazione non da poco per coloro che si occuparono della questione, sicché venne deciso che l’indipendenza di giudizio e di azione di ogni deputato e senatore fosse tutelata, quanto meno nelle intenzioni, dall’assenza di vincolo di mandato. Il che, in poche parole, significa che ogni parlamentare è sì, eletto su proposta di un partito o gruppo politico, in quanto inserito nelle relative liste ma, una volta divenuto parlamentare, gli è consentito di esercitare la propria libertà a prescindere dalla linea politica del proprio partito, a costo di andare contro di essa e questo in quanto egli è, prima di tutto, rappresentante della Nazione, oltre che di coloro che hanno indicato il suo nome al momento del voto.
Gli estensori della Carta costituzionale dovevano, in tutta evidenza, ritenere altamente improbabile che questo o quel deputato o senatore decidesse di lasciare il proprio partito per aderire a un altro e certamente non si immaginavano quello che accadde svariati decenni dopo, quando centinaia di parlamentari avrebbero lasciato una formazione per entrare in un’altra, spostando a tal punto gli equilibri politici all’interno del Parlamento, da provocare vere e proprie crisi di governo e altrettanto clamorosi cambi di maggioranza. Invero, non esiste nella Costituzione alcun correttivo, da utilizzarsi in caso di spostamenti da un paritto all’altro, da una maggioranza all’altra, altamente sospetti di corruzione, interessi privati o semplici ricatti politici. Sembra giunto il momento di intervenire.
Troppi gentiluomini quella volta o troppo pochi adesso, sta di fatto che non basta osservare e declamare quanto sia scandaloso che una persona che ha assunto un ruolo di tale importanza nella società in cui vive e lavora, possa prestarsi in maniera così frequente e per certi versi spudorata all’accettare denaro o trovarsi in situazioni che la rendono vulnerabile in quanto ricattabile, allo scopo di cambiare partito e, quindi, di influenzare in maniera così sporca e disonesta la vita politica nazionale. Limitarsi a commentare i dati di fatto senza fare ulteriori passi in avanti è come restare di guardia a pettinare il gatto, come fa dire Sciascia a uno zelante sbirro, in uno dei suoi romanzi. Siamo sommersi dai dati di fatto, diceva quello: serve un’idea o in quei dati di fatto finiremo per annegare e l’idea – a costo zero, dunque senza necessità di una copertura finanziaria – è di imporre a ogni parlamentare eletto un preciso vincolo di mandato, che sia finalizzato a evitare quella vergogna senza limiti rappresentata da quegli immondi ‘cambi di casacca’, che rendono quelle casacche niente altro che capi di vestiario fatti con il riciclo di carta igienica usata.
Sono due le obiezioni che si incontrano, ad avanzare questa proposta.
Coloro che muovono la prima ritengono che una simile modifica costituzionale, sia pure mossa da principi condivisibili, rischierebbe (anzi, la cosa è data per certa) di sottomettere tutti i parlamentari alla linea politica – o al diktat del momento – cui si ispira il partito o gruppo di appartenenza. I sostenitori della seconda si limitano all’osservazione, per lo più accompagnata da cenni di malcelato fastidio, che si tratti di una proposta comune, recentemente formalizzata da M5S e Lega che, mentre scriviamo, si apprestano a creare il primo governo di questa legislatura. Di questa seconda obiezione non mi importa un accidente e neanche la prendo in considerazione, essendo abituato a occuparmi di quello che viene detto e raramente di chi lo dice.
Quanto alla prima, trovo che sia ragionevole e fondata, ricambiando il giudizio di condivisibilità. Ragionevole e fondata e, però, fuorviante. Per il semplice fatto che fa di ogni erba un fascio, per così dire e, verosimilmente in linea con un modo di pensare e agire squisiatamente comtemporaneo, che comporta un tempo di analisi e decisione temporalmente vicino allo zero – e, di conseguenza, estremamente carente sotto il profilo dell’analisi.
La politica, in fondo, è piuttosto semplice e altrettanto semplici sono molti dei suoi meccanismi. Basta capirsi e parlare la stessa lingua. Imporre il vincolo di mandato non necessariamente significa obbligare il singolo parlamentare a votare secondo le direttive provenienti dalla segreteria o dal leader del partito. L’introduzione del vincolo di mandato si concreta, detta in maniera più semplice possibile, come segue: mio caro, sei stato eletto dagli elettori perché sei in quel partito o gruppo politico, niente di più e niente di meno. Sei certamente, come dice la Costituzione, rappresentante di tutti gli italiani, ma non da tutti sei stato votato e questo non può passare in secondo piano, specie in questo periodo quando si parla (a ragion veduta e, talvolta, a sproposito) di rappresentatività. Di conseguenza, se la tua coscienza ti impone di non poter più seguire la linea o la strategia complessiva del tuo partito (che, si presume, deve essere alquanto cambiata, dai tempi della campagna elettorale, durante la quale chiedevi i voti agli elettori) e, dunque, di non riconoscerti più in esso, ebbene non devi e non puoi fare altro che dimetterti. Passare a una formazione politica diversa, non di rado di posizioni ab origine alternative a quella che ti ha fatto eleggere e pretendere che tutti noi si creda trattarsi esclusivamente di uno scrupolo di coscienza e non perché hanno promesso a te o ad altre persone denari o utilità di natura diverse, ovvero di non mandare a tua moglie o ai giornali le foto in cui ti si vede toccare una bustarella o il culo di una miorenne, come dire, al giorno d’oggi non è cosa. Per non parlare di come dovrebbero sentirsi i tuoi elettori: belli e contenti di avere mandato in Parlamento – a spese di tutti e, quindi, anche loro – uno che poi è passato dall’altra parte.
Non siamo in tempi di gentiluomini, come forse un po’ ingenuamente ritenevano i padri costituenti: le canaglie affollano ogni ganglio dello Stato e della società civile e il Parlamento non ne è esente, per cui fino a quando in Italia non si scenderà a un livello di corruzione che sia accettabile nel mondo degli umani (vale a dire fra molto, molto tempo, considerate le sozzerie di cui veniamo a conoscenza tutti i giorni), imporre un minimo di decenza – perché altro non è – sotto forma di un vincolo di mandato non pare essere così grave. Continuo a pensare che il numero di oltre 600, tanti sono i parlamentari che nelle ultime legislature hanno lasciato il partito che li aveva candidati, sia uno sconcio che non abbisogni di aggettivi.
Quanto all’indipendenza del singolo parlamentare e alla sua sacrosanta libertà di coscienza e di voto, per fugare i dubbi di cui alla prima obiezione, basterà abolire il voto segreto in aula e queste sublimi e misconosciute virtù brilleranno di luce propria. Sarebbe da provare a chiedere agli elettori se a loro dispiacerebbe sapere come votano i parlamentari così lautamente retribuiti. Anche col vincolo di mandato.

Cesare Stradaioli