IL LIBRO DEL MESE DI AGOSTO consigliato dagli amici di Filippo

Rispetto e spettacolo sono i primi termini fondamentali di cui tratta Byung-Chul Han, nel suo ultimo saggio, un libriccino fatto di frasi secche, brevi, alle volte anche un po’ ansiogene. Ovvero, distogliere lo sguardo, il pathos della distanza da un lato e la mancanza di distanza, cioè puntare lo sguardo, verso cose e persone dall’altro.

La terza parola è shitstorm, letteralmente ‘tempesta di merda’, che l’Autore in nota riporta come termine inglese che indica il fenomeno in rete fatto di discussione acritica, con linguaggio fortemente connotato in senso negativo e talvolta violento: tale è stata ritenuta la sua efficacia da essere dichiarato in Germania, nel 2012, ‘anglicismo dell’anno’ da una commissione di linguisti (Byung-Chul Han vive e insegna a Berlino), in quanto vocabolo straniero rivelatosi utile per la lingua tedesca.

Così prende le mosse il lavoro del filosofo di origine coreana che spara a palle incatenate e ad alzo zero contro la cultura del digitale, le sue storture, le deformazioni che porta nelle nostre vite. A dire il vero, proprio in conseguenza del mutato quadro sociale di relazioni personali indotto dall’avvento di internet, Byung-Chul Han ne ha anche per Toni Negri che, secondo lui, nell’elaborazione del concetto di Impero conseguente alla globalizzazione, sembra non rendersi conto (o non volerlo fare) del mutamento non solo dei linguaggi che dalla rete tracimano nella società, ma anche delle stratificazioni classiste. Andando oltre – ma qui ci devono essere, dietro le quinte, non risolti screzi interpersonali – l’Autore per qualche riga si avventura nell’analisi socio-economica che non pare essere il suo piatto forte, ma sul punto la cosa finisce lì.

Ben vengano, come che sia – ed era ora – analisi come questa, impietose, fredde, schematiche se si vuole, ma chiare e precise, per quanto il distacco da entomologo che impregna tutto il lavoro consenta di provare sincera sofferenza per un mondo che non riconosciamo più, noi over cinquanta e non ancora (e, forse, mai) tutti gli altri al di sotto.

Rispetto per le persone e le cose, si diceva; per converso, la mancanza di profondità di pensiero e di analisi; la riduzione al minimo delle distanze virtuali e l’allargarsi di un fossato fra quelle reali e, dunque, assenza del confronto con la negatività, che pure deve essere parte integrante della crescita personale di ognuno e che non di meno è componente essenziale e naturale del mondo che ci circonda in genere e dei nostri interlocutori nel particolare; azzeramento totale del livello di critica, simboleggiato dalla malefica, esangue alternativa obbligata “mi piace”/”non mi piace” che nella sua semplicità, nella sua sintesi rappresenta una sorta di regressione all’animalità di base, alla pulsione fisica – del tutto paragonabile, nella sua connotazione puramente istintiva e priva di memoria di vita, a un “mamma, cacca!”, che però è, ovviamente, più pertinente a esseri umani che di esperienza di vita cosciente non sono che agli inizi.

Perfino l’ira, secondo l’Autore, è elemento costruttivo a paragone dell’indignazione digitale, che in quanto fatta di scambi veloci, sintetici, di facile stesura e che non richiedono elaborazione, non è capace di narrazione, essendo uno stato puramente statico, anaffettivo, dispersivo; là dove l’ira è, per definizione (Ira, Menin, è la prima parola dell’Iliade) è furore, è affettività, è capacità di rottura di uno stato precedente per dare vita a uno nuovo.

Lo sciame del titolo, appare dunque non essere altro che una massa indefinita di persone, che sono per l’appunto solo massa e non folla. Cioè una somma di singole individualità che tanto piaceva alla Thatcher e ai suoi epigoni liberisti (ma anche a Matteo Renzi, pare, se è arrivato a dire che è ora di finirla con la società civile per fare posto alla meritocrazia) contrapposta ideologicamente – allora: adesso solo come riflesso pavloviano – a un insieme di persone che rappresentano più istanze, più indirizzi di pensieri, a volte in conflitto fra loro, ma comunque accomunate da una volontà di cambiamento e qui ci mette in guardia Byung-Chul Han: siamo realisti e bisogna prendere atto della realtà che ci circonda, ma non si può e non si deve guardare da un’altra parte.

In questo senso la deriva disumanizzante non merita il rispetto del volgere lo sguardo altrove, ma va osservata e, per quanto possibile, combattuta. E dove non ce lo dice esplicitamente l’Autore, lo consideri ognuno di noi: perché insomma, come scriveva Alfred Doblin, nessun re, nessun tribuno, nessun eroe ci può liberare, se non siamo noi i primi a volerlo essere, liberi. Liberi non solo di stare dieci ore seduti davanti a uno schermo, a introitare informazione in luogo di cultura, positività a tutti i costi invece di critica, ma di provare a rompere lo schema di un mondo che, come scriveva qualcuno di recente, se non piace a noi che l’abbiamo fatto, per quale motivo dovrebbe piacere ai giovani, che della sua costruzione non hanno alcuna responsabilità e che preferiscono stonarsi in discoteca?

Cesare Stradaioli

Byung-Chul Han – Nello sciame. Visioni del digitale – Nottetempo, 105 pagine, €12