VOTARE, PER CHE COSA?

I sondaggi e le cosiddette proiezioni di voto, a proposito del referendum del 20 settembre, di cui si legge e si ascolta in questi giorni, ci dicono una cosa piuttosto evidente: gli italiani non sono informati e non capiscono. Non capiscono per il semplice motivo che non sanno. Non sono informati in genere e, nello specifico, non lo sono riguardo al quesito referendario. Se per una questione posta, che si tratti di quale sia il numero congruo dei parlamentari o della formazione che il c.t. della nazionale debba mettere in campo sabato prossimo, in così poche settimane le previsioni di voto quasi arrivano a rovesciarsi e comunque si avvicinano alla parità, significa molto semplicemente che coloro ai quali viene chiesto di esprimere un giudizio, non sono in grado di darlo in maniera appena consapevole. La questione della rappresentanza parlamentare – ma quella relativa alla nazionale di calcio, fatte le debite distanze, non è molto meno facile da comprendere e sicuramente gode di un coinvolgimento e di un grado di discussione infinitamente maggiore di quello che concerna una decisione politica – è materia ostica, difficile: richiede analisi, riflessione, contraddittorio, scambio di opinioni, esame delle fonti storiche. Richiede tempo, per fare tutto ciò: sicché, dire che un certo numero di milioni di elettori abbia cambiato idea o stia per farlo, è frase senza senso, poiché è impossibile che in poche settimane si possano realizzare le suddette attività umane. 
Ed è altrettanto vero che, in ogni caso, neppure nei mesi e negli anni trascorsi, il cittadino sia stato adeguatamente informato di cosa significhi una modifica costituzionale di tale importanza. 
Lo stesso si può tranquillamente dire con riferimento al precedente referendum del 2016 promosso dal governo Renzi e, con tutta probabilità, anche di numerosissime altre consultazioni, le quali per la quasi totalità dei casi – e quella che ci apprestiamo ad affrontare non sfugge alla regola: se mai, ne incarna la più profonda realizzazione – non sono altro che elezioni politiche travestite da decisione su tutt’altro; se non che, oggi come in passato, quel tutt’altro riguarda la permanenza di una compagine governativa, il peso dell’opposizione pro tempore e, più in generale, la valenza di questa o quella coalizione. Con tanti saluti alle belle e dotte dichiarazioni riguardo alle intenzioni di voto, espresse da qualche cultore della materia, numerosi esponenti politici e gli immancabili personaggi noti ai mass media: categorie, le ultime due, popolate da persone che in percentuale verosimilmente vicina allo 0,01 per cento, in vita loro forse hanno letto un testo di diritto costituzionale o di dottrine politiche. Votare per il mantenimento dell’attuale numero dei parlamentari o per la sua riduzione, rappresenta molto più di un NO o di un Sì: significa decidere qualcosa che, se fosse una cosa seria, dovrebbe durare per 70, 80 anni, forse cento. E invece viene percepita – in quanto spacciata come tale – come una legge qualsiasi, emendabile e abrogabile quando si vuole, sol che cambi il vento politico. 
Se in Italia vi fosse una seria consapevolezza politica, il voto del 20 settembre dovrebbe essere pericolosissimo, poiché non solo la vittoria dei NO, ma una loro percentuale che anche si avvicinasse solo al 35-40%, significherebbe prima di tutto una cosa: che fra l’elettorato o l’attuale parlamento, esiste una frattura insanabile; quale altro aggettivo potrebbe essere adeguato a un Paese in cui, in merito a una riforma epocale, gli eletti esprimono quasi all’unanimità una decisione in un senso chiaro, netto, preciso, per poi vedere una percentuale di elettori, gli stessi che li hanno messi lì dove sono, optare per un senso totalmente opposto? Fortunatamente per un certo ceto politico, queste in Italia non sono cose serie – si sono contate più dimissioni di commissari tecnici della nazionale di calcio di quante ve ne siano state fra segretari di partito e chiunque pensi che queste cose siano sciocchezze farebbe bene, un giorno o l’altro, a scendere dal pero, prima di esservi tirati giù di peso – e, dunque, il peggio che possa capitare alle segreterie, alle consorterie nazionali o decentrate in Ragioni, Province e Comuni, è che tutto rimanga come prima: basterà fare le solite orecchie da mercante a quei quattro esaltati che strepiteranno, appunto, sull’indecenza di una politica che non ascolta gli elettori e sull’altrettanto indecente comportamento di quest’ultimi che si ostinano a eleggere chi non li ascolta. E’ già successo: succederà di nuovo, chiedendo venia per la nobile citazione. 
Rimane, per qualcuno, l’avvilimento proprio di una situazione che lo vede difendere qualcosa in cui già crede poco, da qualcos’altro di molto peggio. E’ giusto rifiutare la scelta fra il peggio e il meno peggio e non accontentarsi del secondo: prima o poi, bisognerebbe anche cominciare a rifiutare di farsela imporre, questa scelta.

Cesare Stradaioli