IL CIELO IN UNA FOTO

E’ la foto di una foto, quella che è comparsa su molti quotidiani, qualche giorno fa. La foto di un ragazzo che scatta a sua volta una foto nella quale, oltre a se stesso in primo piano, appare l’immagine di una disgrazia. Detta così, probabilmente dice poco. C’è di peggio, accade di peggio, tutti i giorni, è ovvio, rispetto al comportamento di un ragazzo che, vedendo una donna ferita a terra mentre viene soccorsa in mezzo a due binari ferroviari – perderà una gamba, come si saprà più tardi – invece di contribuire al soccorso (anche solo parlando, a questa donna: non serve per forza, sempre e comunque la stramaledetta specializzazione, in questo mondo rimbecillito) o, più semplicemente, voltando lo sguardo altrove per non profanare l’intimità di qualcuno che sta soffrendo, con esposti il proprio volto oltre a carne e sangue, non trova di meglio da fare che immortalarsi con tanto tragico spettacolo alle sue spalle.
Non dovremmo prendercela con questo ragazzo in ridicoli pantaloni corti, così inelegante e goffo (ma quanto goffa sia la sua moralità fa splendere di eleganza il suo vestiario esteriore). Dovremmo giudicare noi stessi, prima del singolo. Cosa l’abbia spinto a un simile gesto – penalmente non rilevante – sarà, se qualcuno vorrà farlo, materia di studio per i cultori degli studi sui comportamenti umani. Personalmente non vedo cattiveria, né disprezzo, in quella foto; trovo che ci sia molta più mancanza di rispetto per la condizione umana in quei poveri disgraziati (non trovo altri termini) che si fermano a bordo strada a guardare quello che rimane di un incidente stradale, bloccando traffico e soccorsi. Costui ha fatto una foto, con tutta probabilità nell’intento di condividerla. O forse no. Che questo suo gesto abbia espresso il bisogno umano di condivisione, dunque di esistere come parte di qualcosa o la necessità di uno sfogo al limite dell’onanismo nel conservare per sé una immagine di quel tipo, sta di fatto che guardando quella foto di una foto noi vediamo, dobbiamo vedere, un’umanità dolente. Che è incapace di provare sia il bisogno di soccorrere sia l’imperativo di non violare la sofferenza umana (quella stessa che ovunque al mondo dove ci sia una parvenza di umanità, porta qualcuno a coprire il volto di una persona morta, esattamente a quello scopo), questo è chiaro: ma, più nel profondo, un’umanità che non sa cosa raccontare e cosa ascoltare, analfabeta di andata e ritorno, sorda e cieca a messaggi che non siano volgari e brutali coscrizioni al consumo, immersa in una solitudine talmente profonda da non essere in grado di esprimersi se non ad alta voce oppure con le immagini rubate.
Non dovremmo odiare questo ragazzo, anche se la tentazione è forte, senza stare a disturbare Bertolt Brecht e il suo riferimento allo sdegno che fa contorcere i tratti del viso e anche i pensieri. Non siamo più in stato di guerra, quanto meno non in Europa e quindi ci dobbiamo contentare di indignarci per un idiota che si fotografa con una persona ferita, in luogo di massacri di civili e campi di sterminio. 
Dovremmo, invece, essere grati a quel ragazzo. La piccola e insignificante vicenda umana di cui è stato, controvoglia, protagonista, potrebbe aiutarci a capire molte cose.
Capire dove e perché siamo arrivati a questo e come abbiamo potuto e da dove possiamo e dobbiamo cominciare.
Cominciare dalle piccole cose, per esempio e tanto per cambiare – ché quelle difficili non si può, perché sono … difficili: vorrei che i giornalisti, TUTTI i giornalisti, tutti i comunicatori cominciassero a praticare una quotidiana igiene del linguaggio e smetterla di usare parolacce quali ‘selfie‘. Sarà poca cosa, ma se anche servisse a pubblicizzare un po’ di meno questa pratica che definire ridicola è usare un eufemismo (mentre, per contro, il nomignolo anglofono merita decisamente che si usi il termine ‘cretino’), magari ci sarà qualcuno in meno che la userà e allora forse uno fra i prossimi dieci invece di fotografarsi con la sofferenza umana sullo sfondo, potrebbe anche non fare niente che sarebbe meglio, se proprio non può usare quell’accidenti di cellulare per chiamare il 118.
Potrebbero anche smetterla di usare altre parole quali ‘quadra‘, ripetuta a capocchia, che non vuol dir assolutamente nulla, ma che viene usata solo perché la rese famosa, utilizzandola per primo, quell’ignorante di Umberto Bossi (definisco tale uno che sentendosi chiedere se il proprio figlio potesse essere definito suo ‘delfino’, rispose – manifestando un evidente disprezzo per il proprio erede – che al massimo poteva essere definito ‘trota’, e così manifestando la propria ignoranza in tema di mammiferi e di pesci, cioè materia di studio da programma delle elementari).
O smetterla di definire ‘folle gesto‘, fatti di sangue che gridano vergogna, quale quello del sindacalista emigrato nel nostro Paese, assassinato per conto della criminalità organizzata e non da un pazzo demente.
Essere grati a quel ragazzo significa, a distanza di un paio di giorni, non guardare il dito e, dunque, non guardare lui, bensì guardare ed esaminare con attenzione cosa ci sta involontariamente indicando. Non lo dobbiamo odiare, perché invece di perdere tempo e intelligenza a detestare gli effetti, dovremmo dare un’occhiata alle cause e allora sì che ci starebbe bene un autoscatto: ciascuno di noi, con alle spalle quel ragazzo che fotografa.

Cesare Stradaioli