COWBOYS E GENERALI

In un certo senso, dobbiamo qualcosa all’ambasciatrice statunitense all’ONU. Durante la seduta di ieri, la signora Nikki Haley – che ha un po’ nome e cognome da pornostar, ma non è colpa sua – a proposito della mozione portata avanti da un certo numero di Paesi e che sarà prossimamente messa ai voti, tendente a indurre gli USA a recedere dalla decisione di trasferire la loro sede diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, c’è andata giù pesante, dichiarando: “Ci segneremo i nomi.” Nome e cognome che ricordano qualcosa, ma anche il comportamento fa venire in mente pellicole cinematografiche, segnatamente quelle western: del resto, se Ronald Reagan è diventato presidente, possiamo immaginarci quando si sarebbe divertito John Wayne, nella stessa posizione.
La gratitudine nei confronti della signora Haley, si diceva. Le dobbiamo il fatto di avere tolto l’ultima fettuccia, l’ultimo pezzo di perizoma, l’ultima fogliolina di fico dal nudo, francamente inguardabile, dell’ONU. Lo si intuiva da un po’ e cominciavano a intravvederlo anche i più accaniti e irriducibili sostenitori del concetto e del ruolo delle Nazioni Unite. Il fatto che un ambasciatore – non una sottosegretaria qualsiasi, e per di più il rappresentante diplomatico di una delle potenze che siedono permanentemente nel Consiglio di Sicurezza – si senta legittimato a esprimersi con un linguaggio simile, la dice lunga su cosa sia diventato quello che, al momento della fondazione, doveva essere il fulcro del dialogo e della convivenza fra gli Stati. Fino a ieri, l’ONU veniva sbeffeggiata e sbertucciata dall’esterno, segnatamente da Israele: ora, lo sberleffo nasce da dentro e non nei corridoi, dove umanamente e per certi versi legittimamente è consentito dire quasi tutto quello che passa per la mente (la politica è fatta anche di queste cose), bensì in seduta plenaria e a verbale.
D’altronde, è piuttosto agevole esercitare un po’ di memoria militante e mi riferisco a tutti coloro che si occupano di politica e di diritto, specie quello internazionale; basterà ricordare loro – o invitarli a leggerlo: si tratta di un’esperienza che accresce – Hans Kelsen e quanto l’emerito studioso fosse solito ripetere, grosso modo un secolo fa, a proposito dell’effettività del potere esercitato da un’entità, che fosse statale o sovranazionale: una statuizione è dotata di effettività solo se, unitamente al potere di emanarla (può bastare, alla bisogna, anche un Parlamento composto da quattro idioti – annotazione personale), si accompagni un sistematico potere di repressione di ogni violazione della stessa.
Ora, è evidente da svariati decenni ormai, come le tanto conclamate e certe volte tonitruanti risoluzioni dell’ONU si risolvano quasi sempre in mere dichiarazioni di principio, dotate solo di forza mediatica, e totalmente sfornite di sanzione in caso di mancata ottemperanza a quanto in esse contenuto. E’ noto come Israele per quanto concerne la questione palestinese o il controllo degli armamenti nucleari – questo unitamente a tutti gli altri Paesi dotati di tali arsenali – delle risoluzioni o anche delle blande raccomandazioni provenienti dal palazzo di vetro abbia fatto sistematicamente l’uso tipico di tempi in cui il concetto di carta igienica era ancora sconosciuto. L’ONU è diventato quello che sembra: un inutile carrozzone, composto da soci che non si rispettano, condomini che non pagano le rispettive quote (proprio gli Stati Uniti sono fra i maggiori morosi), dove stanchi e frusti rituali si ripetono nella noia e nella indifferenza più totali. Perfino i Caschi Blu, che a noi bambini dei primi anni ’60 parevano così importanti ed eroici, vengono tranquillamente massacrati, quando non tolgono gentilmente il disturbo (anche prima ancora di esserne richiesti) da luoghi nei quali erano stati mandati a protezione di civili che vengono, successivamente, massacrati e sepolti in fosse comuni e questo nella – meritatissima – indifferenza più totale. Tutto, in definitiva e per metterla nel modo più semplice possibile, per un’unica, solita ragione: l’ONU è sfornita di adeguata forza capace di fare rispettare quanto viene deciso a maggioranza dagli Stati che la compongono. Qualche sanzione, qualche veto fra uno sbadiglio e l’altro. Punto e fine del palo.
Se non altro, la signora Nikki Haley, uscita dal ranch con cinturone e cartucciera a tracolla, brandendo il winchester, ha scritto una pagina importante della storia dell’ONU e della Storia in genere, pagina che potrebbe essere riempita da una sola frase: ce ne frega un cazzo – o, in alternativa: vi facciamo un culo tanto.
QUESTA è effettività, accidenti.

P.S. 
Potessi incontrarla, mi permetterei di suggerire alla signora Haley di annotarsi, insieme a quelli di coloro che voteranno una mozione sgradita agli USA, un altro nome.
Quello di uno che la guerra l’ha combattuta per davvero, a differenza della suddetta Calamity Jane da tre palle a un soldo e del buffo signore che l’ha messa su quello scranno, i quali a tutto concedere avranno giocato alla playstation; uno che ha visto e respirato sangue, morti, odio, trincee, bombardamenti, lutti dalla sua parte e da quelle avverse; uno che faceva ombra, come si dice, non come i pagliacci che cianciano di conflitti e accordi di pace standosene seduti in poltrona, a diecimila chilometri di distanza e al quarantesimo piano da terra; uno che, avendolo combattuto, conosceva e rispettava il nemico e come tutti i militari più intelligenti aveva capito che c’è un momento in cui il nemico diventa avversario e infine interlocutore; uno che, per le sue idee, è stato emarginato dalla vita politica del Paese che aveva contribuito a difendere, rimettendoci anche un occhio.
Si chiamava Moshe Dayan – scriva, signora Haley – per la precisione, il Generale Moshe Dayan, l’eroe della Guerra dei Sei Giorni e sosteneva che i palestinesi avessero diritto ad avere uno Stato proprio e indipendente, e non traslocando in Giordania o in Iraq o sul pianeta Papalla, ma proprio lì dove stava lui, a Gerusalemme, nella stessa terra degli israeliani.

Cesare Stradaioli