Sbatti il mostro in galera e butta la chiave

Sarà la Magistratura, quella inquirente e poi quella giudicante, a occuparsi della posizione giudiziaria dei due accusati – pare anche rei confessi – del terribile omicidio di Roma. La cosa, però, non deve e non può finire lì, con un processo e una condanna, che al momento appare inevitabile.

Su ‘Repubblica’ di oggi, Massimo Recalcati scrive un articolo molto interessante che, personalmente, mi trova in disaccordo soprattutto in un punto: la mancanza di una causa, per un gesto così orribile. E’ vero che i titoli degli articoli sono di competenza della redazione, ma in questo caso vi è sostanziale corrispondenza fra il contenuto dell’articolo e il titolo che lo introduce: il Male senza causa. Ed è proprio sulla asserita mancanza di una causa che vorrei portare l’attenzione. Il resto, il come e il quando, saranno oggetto di indagine e di giudizio.

In natura, sostiene Recalcati, non esiste il crimine: il quale, per sua stessa natura, prima di tutto proprio in quanto in contrasto con una legge che lo punisce (e senza la quale non sarebbe ‘crimine’), appartiene in via esclusiva alla natura umana. Segue, dopo quello sugli animali, che non hanno alcun interesse a provocare sofferenza nei propri simili o nelle prede, se non la mera sopravvivenza che tutto giustifica, una serie di esempi, dal crimine commesso per interesse materiale, per fini di terrorismo, crimine d’impeto, crimine commesso per cause patologiche: nei quali, tutti, comunque li si guardi, una causa sussiste. E fin qui, il ragionamento di Recalcati appare del tutto condivisibile e non solo dai profani del diritto o della psicologia.

Dove comincia il nostro disaccordo con l’autore è quanto lo stesso individua il delitto di Roma, senza causa, soprattutto per come si è dipanata tutta la serie di attività messe in atto dai due accusati, vale a dire gesti tesi a provocare sofferenza, sottomissione, negazione dei limiti imposti dalla legge.

Ma una causa, a ben leggere fra le righe, c’è: è proprio questo abominevole disprezzo per la vita, l’esercizio arbitrario di una volontà che va contro un imperativo esistente in qualsiasi comunità di uomini (uccidere senza una ragione), la perdita di consapevolezza di ogni possibile limite: il tutto – difficile negarlo, crediamo – per niente casuale e del tutto proprio, invece, a una società malata e puttana, mercificata e stolida, che del libero arbitrio, del disprezzo per gli altri, della sottomissione del più debole, della prepotenza ha fatto alcuni dei suoi tratti più netti e marcati.

Quando uno dei due tristi personaggi dice, come pare che abbia detto, di avere ucciso solo per sapere cosa si prova, non sta parlando di cose ‘senza senso’; non dice, che so, ‘volevamo pitturarlo di verde’, oppure ‘eravamo curiosi di sapere cosa avrebbe detto se gli avessimo fatto marameo’. Parla, CI parla di una cosa ben determinata: cagionare morte e sofferenza al solo scopo di vedere, di sapere, di capire, di verificare. Morte e sofferenza, cioè violenza, cioè sopraffazione, cioè prepotenza: non una scazzottata fra uomini, per una donna o per un parcheggio, che poi finisce al pub, bensì l’esercizio del dominio e della forza su una persona sola, resa indifesa dal consapevole uso di sostanze che ne limitino la difesa.

In definitiva, disprezzo per la vita e per la dignità altrui, generato (e vorremmo vedere se qualcuno avrebbe la faccia tosta di dire il contrario) da infanzia, adolescenza e prima età adulta – i due dovrebbero essere nati intorno al 1986/1988 – verosimilmente alimentate da violenza vista e ascoltata fino alla nausea, filmata e su cartoni animati, su videogiochi e su quella disgustosa forma di fascismo grafico che sono i manga giapponesi, in quantità tale da rendere la morte una cosa che incuriosisce e perciò stesso la spersonalizza, banalizzandola da quante volte la si vede e rivede; a volumi e bombardamenti tali da indurre a credere che gridare in faccia all’interlocutore, interromperlo, offenderlo, sia pratica non solo accettata ma addirittura esaltata da un’immagine dell’uomo, anzi del maschio, che non era così sistematicamente diffusa ed enfatizzata neanche nel Ventennio fascista – che, quanto meno, una base ideologica ce l’aveva. Perché crediamo che mai, nessuna generazione di bambini, ragazzi e giovani, negli anni e nei secoli passati sia stata esposta in maniera così totale e crudele a immagini, episodi e comportamenti tutti improntati alla sopraffazione, all’esercizio della violenza e della prepotenza, verbale e fisica.

Una volta c’era il capro, che ‘espiava’ le colpe della società: lo si allontanava dai suoi simili e dalla comunità degli uomini, in modo da tenere a distanza il male, la colpa, la responsabilità. Oggi c’è il ‘Mostro’; prima di tutto, come nel celebre film con Gian Maria Volontè, da sbattere in prima pagina e in prima serata (ma anche al pomeriggio, giusto per non far mancare niente ai nostri figli) e poi in galera. Così non ci pensiamo più. Si prenderanno l’ergastolo o trent’anni e così il problema sarà risolto, per tranquillizzare le coscienze, per non farci pensare che quella cattiveria messa in pratica in modo così crudele da non poter essere qualificata anche idiota, è anche frutto di un modo di vita, di una società della quale tutti siamo un po’ complici. Per dimostrare che la società è sana, che quel mostro, come il capro, è un estraneo, un alieno, una stortura, una deviazione, all’interno di una comunità sostanzialmente sana.

Qui siamo in disaccordo con Recalcati, che parrebbe – e ce ne stupiamo, conoscendo l’autore e i suoi scritti di grande profondità – identificare nella mancanza di causa relativa all’orrendo crimine di Roma, una specie di vuoto, nel quale i comportamenti di quei due disgraziati sembrano non avere alcuna radice. Ne hanno, a nostro giudizio, di radici e belle lunghe e tutte affondate in questa società per niente sana, drogata di sopraffazione, materialismo, soperchierie e di libertà, grimaldello usato per fare solo quello che pare, piace e fa comodo e al diavolo le regole e la convivenza con gli altri.