IL VACCINO C’ENTRA POCO

Il Covid19 è solo un pretesto, un tragico incidente che crea l’occasione. Al di là e oltre le manifestazioni, le dichiarazioni rese in pubblico o sentite nei propri privati, a parte gli slogan, i cartelli e l’evidente scollamento sociale, c’è ben altro, ben diverso e ben più grave del rifiuto opposto al vaccino e alle misure da prendere. C’è insofferenza. Per le regole, per i comportamenti, per i limiti che un consorzio civile impone, per la riflessione, per la mediazione.
E’ un’insofferenza generalizzata, onnicomprensiva, multiforme: una delle sue forme più palesi ed esemplari al riguardo è quella forte e debordante nei confronti di quello che per comodità chiamiamo universo femminile, che sfocia in maniera vieppiù preoccupante nell’omicidio, peraltro non necessariamente più intollerabile delle botte sistematiche e della sottomissione come programma di vita.
Nel suo manifestarsi in una svariata serie di comportamenti, appare chiaro che si tratti di una condizione di grave sofferenza personale diffusa ovunque: non vi è zona, quartiere, provincia, regione che ne sia esente. Diffusa per quanto cupa, torva, aggressiva fino alla stupidità del gesto inutile – non sarebbe da stupirsi se buona parte dei partecipanti alla manifestazione di Roma sfociata nell’assalto alla sede sindacale neanche avesse ben chiaro cosa sia la CGIL, quanto e chi rappresenti. Soprattutto, un’insofferenza vuota, povera di contenuti se si gratta la superifice, zeppa di parole e concetti per lo più distribuiti a caso. Non si ha traccia di ribellione propositiva o gioiosa, nemmeno vagamente innervata nella rabbia che la muove; non c’è creatività, non vi sono all’orizzonte di quelle indefinite masse di persone e dei loro portavoce più o meno accreditati e accreditabili né fantasia né una seria volontà di cambiamento.
Tutto ciò ci racconta di un’umanità sì composita, potremmo dire interlcassista, che presenta però pochi ma significativi tratti comuni: uno di questi è l’endemico spirito anarco-individualista del cittadino italiano che è, per come poi efficacemente viene riprodotto non tanto nelle urne elettorali quanto nei comportamenti locali, concettualmente di destra. Uno spirito che porta, da sempre, a mal tollerare le regole. La ricorrente e stucchevole tiritera sulla libertà ha ben poco di comunitario, condiviso, essendo connotato pressoché nella sua totalità da un esasperato individualismo, una mera somma di singoli che non ha nulla di progressista o, almeno, di propositivo che vada al di là del semplice, adolescenziale rifiuto: non è in grado di esserlo, date le sue insanabili carenze di programma. Che non può avere, considerata l’eterogeneità della sua componente umana: pronta, se necessario, se conveniente, nel suo essere profondamente italiota, ad accoltellare colui col quale, fino a un minuto, si condivideva la protesta e il corteo.
Ma in questa sommatoria di caratteristiche, negli ultimi decenni si è inserito un fattore decisivo nel rendere il tutto, se possibile, ancora peggiore e meno governabile: l’impatto del fenomeno pubblicitario, fratello gemello eterozigote della televisione. Si può dire e scrivere quello che si vuole e andare avanti fino a domattina, per poi riprendere dopo una breve pausa, sulla natura del cittadino italiano, l’estrema frammentazione culturale, sociale, politica, economicha che ancora lo Stato unitario porta con sé da oltre un secolo; ma per quante analisi e per quante idee e soluzioni possano venire in mente ed essere praticabili, niente potrà mai essere né seriamente pensato né fatto fino a quando non si prenderanno le dovute contromisure a quel fenomeno. Invadente, oscena, fuorviante, grottesca, schifosa, demenziale, avvilente, misogina: da un trentennio la pubblicità si è fatta largo a gomitate nella vita di chiunque, nei media, negli ambienti pubbllici di ogni tipo (financo nelle toilette), nelle case, con i suoi messaggi sostanzialmente indirizzati al singolo; invitato, esortato, pressoché obbligato a farsi regole proprie (da disattendere quando si vuole, esattamente come quelle imposte), a ritenere che tutto sia e debba essere SUBITO, il possesso, il consumo, il desiderio – delle nobili aspirazioni di ciascuno, ben più elevate del desiderio di riempire la pancia o il garage, non vi può essere traccia in quei messaggi – a rigettare ogni forma di mediazione, di dialogo (sostituito da milioni di monologhi) di apparentamento, di socialità, di pensiero che possa definirsi comune, pur nelle diversità.
Questo messaggio continuo, inarrestabile, ha per forza di cose enfatizzato un carattere che abbiamo poco sopra definito endemico e sicuramente legittimato l’insofferenza di cui sopra: la rabbia, il malessere che deriva dal fatto che, a dispetto di quanto mi viene detto, non posso avere quando voglio questo o quello (o quella), o mi viene impedito da una profilassi il cui contenuto sociale mi sfugge, difficilmente convivono con il ragionamento, la logica, la razionalità, che sono i cardini di un sentirsi parte di un corpo sociale.
Necessario, urgente, non procrastinabile, va pensato e messo in atto un insieme di contromisure per opporsi a questo mare di letame che porta con sé quella che una volta veniva chiamata ‘anima del commercio’ – il grande Marcello Marchesi la ribattezzò, inascoltato profeta ai tempi ingenui in cui la facevano Totò nella parte del portiere di condominio o il recentemente scomparso Franco Cerri come uomo in ammollo, ‘commercio dell’anima’ e come per tante altre cose, ci vedeva lontano.
La protesta, cieca e viscerale contro le restrizioni dovute alla pandemia è solo uno dei modi in cui finalmente quel grumo di insofferenza si è palesato. Sarà – sarebbe, se e quando lo si dovesse iniziare – un percorso lungo e doloroso; ma senza una guerra senza quartiere alla pubblicità, non servirà a nulla.

Cesare Stradaioli