IL RISPETTO CHE SI MERITA

Le forze dell’ordine hanno, per legge esistente più o meno e in varie declinazioni in ogni forma statuale al mondo, il monopolio dell’uso legittimo della forza. Concetto introiettato a tal punto nel comune sentire da non richiedere particolari spiegazioni. Il codice penale italiano stabilisce che, in determinati casi, l’uso delle armi venga esteso al cittadino che ne sia richiesto da un pubblico ufficiale (articolo 53, comma II°). Si tratta di una previsione di notevole peso, poiché marca una netta differenza fra la legittimazione all’uso della coazione fisica, che può arrivare al ferimento o alla morte di un altro cittadino verso la quale detta coazione viene usata e che, però, non costituisce reato e le varie forme di scriminante (la legittima difesa, il suo eventuale eccesso colposo, lo stato di necessità), che prevedono riduzioni di pena o assoluzioni, all’esito di una precedente incriminazione, vale a dire almeno un inizio di procedimento nei confronti di colui il quale, di principio, NON sia legittimato all’uso della forza. 
Ora, la qualifica di pubblico ufficiale – che eserciti la suddetta forza o che ne chieda l’uso a un privato cittadino – prevede necessariamente una struttura gerarchica, una catena di comando che indichi poteri e relative responsabilità in ordine a una serie di attività, altrimenti non consentite a nessuno che non abbia quella qualifica. Per cui è – o dovrebbe essere – chiaro come la responsabilità di determinate azioni che portino a lesioni, ferimenti o morte di altri, prima di tutto debba ricadere su chi detenga, a vario titolo e grado, una posizione gerarchicamente definita, dalla quale derivi il compito e il potere di dirigere, vigilare e coordinare mezzi e personale sottoposti: compito e potere che, per l’appunto, pongono in capo a chi li eserciti, la responsabilità di quanto accade, nell’ordinaria e nella straordinaria amministrazione.
In questo senso, il brutale e per nulla indiscriminato (vedremo poi la ragione di questa specificazione) pestaggio avvenuto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, presenta una precisa analogia con quanto accadde or sono venti anni a Genova durante il G8: la totale carenza di legittimazione all’uso della forza, mancando del tutto le ragioni e le necessità che essa si spingesse – in entrambi i casi – al di là di un’ordinaria azione di polizia, tesa a prevenire il crimine. Se fosse stato necessario operare una perquisizione ed eventualmente procedere allo sgombero dei locali della scuola Diaz, il tutto avrebbe sì legittimamente richiesto che le forze dell’ordine giungessero in loco dotate di armi (prima di tutto di dissuasione e poi, se del caso, di costrizione), ma certamente non che, senza nessuna ragione di ordine pubblico precedente e contemporanea all’irruzione, si iniziasse da subito a procedere con gesti di violenza inusitata e, per ciò stesso, priva di qualsiasi legittimazione. 
Lo stesso dicasi per quanto è avvenuto in carcere; vi era stata una rivolta di alcuni detenuti, i quali avevano sicuramente usato violenza a oggetti della struttura e, verosimilmente, anche nei confronti di altri loro compagni di detenzione e sotto questo profilo la Polizia Penitenziaria irrompeva a pieno titolo nei locali occupati per ripristinare l’ordine pubblico e le regolari funzioni di una struttura penitenziaria. Quello che è stato, fin da subito, inaccettabile senza scrupoli di sorta, è la predisposizione di vere e proprie catene (orge, verrebbe da chiamarle) punitive ben oltre e ben al di là di qualche singolo gesto di violenza – rientrante nella legittimazione più volte richiamata- necessario e sufficiente a ripristinare l’ordine. A Genova qualcuno che non portava la divisa, avrebbe dovuto rispondere dello sconcio che avvenne: a Santa Maria Capua Vetere qualcuno non in divisa dovrà essere chiamato a giudizio. 
Ma. 
Ma non ci si può e non ci si deve riparare, come una sorta di lavacro di coscienza, dietro la figura gerarchica di coloro i quali avrebbero dovuto, a diverso titolo, selezionare il personale, coordinarlo con disposizioni precise e non equivocabili e, se del caso, intervenire immediatamente per limitarne eventuali eccessi i quali, per definizione, travalicano la più volte richiamata legittimazione. E se a Genova non fu possibile individuare gli autori materiali del massacro, venti anni dopo i filmati ci danno volti e identificazioni sicure affinché la magistratura possa procedere. 
Perché né a Genova né in Campania NESSUNO che portava una divisa poteva e potrà mai difendersi sostenendo di avere ricevuto un ordine, quand’anche gli ordini ci fossero stati. Nel XXI secolo nessuno più, neppure in determinati casi estremi che possono presentarsi durante un conflitto bellico, potrà addurre lo stato di necessità “o io o loro”; oggi come vent’anni fa, la scelta c’è sempre ed è una sola: io. Io non lo faccio e io ci rimetto. Perché sono esseri umani, non macchine più o meno intelligenti, coloro che portano divisa e armi e non è più consentito di mandare la coscienza in soffitta per un quarto d’ora o tutto il pomeriggio e picchiare selvaggiamente altri esseri umani indifesi – qualcuno addirittura in stato di minorata difesa, fisica e mentale o linguistica. 
Non basta, però. Qualcuno verrà processato e condannato. Ma non cambierà niente, come è ormai acclarato da assodati studi di criminologia e di sociologia, se il tutto rimarrà come sempre circoscritto a quattro cosiddette ‘mele marce’. Non fosse altro per il fatto che se un cesto ne contiene alcune, vorrà pur dire che il marcio da qualche parte arriva e nel caso specifico (ma anche in tantissimi altri che emergono dalle cronache giudiziarie) detto marcio proviene direttamente dalla nostra società. Quella in cui nascono e crescono cittadini educati, forzati, indotti all’uso della prevaricazione e della violenza, quasi sempre accompagnato dal badare bene che detta violenza non venga rivolta al più forte, al più temuto, al più rispettato. Ciò che qualifica il pestaggio di Santa Maria Capua Vetere come tutto tranne che indiscriminato, è il fatto – posto nel dovuto rilievo da Roberto Saviano: solo da lui, purtroppo – che nessun appartenente o semplice affiliato o simpatizzante alla criminalità organizzata ivi detenuto, sia stato minimamente sfiorato da quelle aberranti manifestazioni di violenza fisica (e da quelle perfino peggiori – bisogna arrivare a dirlo – di violenza verbale e gestuale verso chi è a terra sanguinante; lo sputo in faccia dopo le percosse) che, con non pochi ostacoli e difficoltà, sono giunte nelle case di ognuno con quelle orrende e degradanti (anche per tutti noi) riprese audio e video. 
Non sono i primi e non saranno gli ultimi, quegli indecenti uomini del tutto indegni di portare una divisa (come indegni di detenere un comando, vuoi per connivenza, vuoi per dabbenaggine o debolezza morale, sono quelli gerarchicamente loro superiori) a fare quello che tutti abbiamo visto: per non parlare di quello che non abbiamo visto né mai vedremo, in altre situazioni. Condannati loro, allontanati da qualsiasi incarico di pubblica sicurezza – e bisognerebbe però che anche istituzioni private che si servono di personale proprio prestassero maggiore attenzione a chi assumono e a chi mettono in mano un’arma – ne resteranno migliaia, sicuramente milioni purtroppo, che ancora stanno al mondo, nella nostra società, in qualsiasi posizione, in qualsiasi ganglio del potere a fare i forti con i deboli e i rispettosi con i forti. Se chi dirige è difficilmente individuabile e spesso ha più di un modo per scaricare su altri responsabilità che sono proprie, è però pur vero che, non da oggi, nella nostra società chi, come si suol dire, mette gli stivali sul terreno, ha il DIRITTO di dire di no, di non fare proprio tutto quello che gli viene ordinato di fare e, soprattutto, ha il DOVERE morale di non fare quello che può capitare che venga in mente di fare. 
Prima si comincia – meglio: si ricomincia – fin dalla scuola elementare a insegnare questi principi e prima, pian piano, si arriverà a fare in modo che il rispetto venga dato a chi se lo merita: a se stessi, innanzitutto.

Cesare Stradaioli