IL LIBRO DEL MESE DI APRILE Consigliato dagli Amici di Filippo

Bisogna dire una cosa, di Fofi: considerata la forte radicalità che connota quasi tutte le sue opinioni, che si tratti di cinema, politica o letteratura (che lui difficilmente scinderebbe fra loro) – e non ci si faccia ingannare dal tono di questi ultimi decenni, solo apparentemente più sommesso e conciliante delle sberle che volavano ai tempi di “Capire con il cinema” e, ancora prima, dei “Quaderni Piacentini” o di “Linea d’ombra” – con le quali si può essere d’accordo, in parte, per niente, il Nostro non ha mai fatto sconti a nessuno e certo non ha cominciato a farli con questo libricino che, a dispetto dello spessore, è ricco e denso di pensieri, giudizi, distanze e vicinanze.

Ed è diviso in due parti: la prima contiene una serie di valutazioni e comparazioni fra l’anarchia, l’anarchismo e l’arte – segnatamente, il cinema; la seconda è una carrellata di nomi e titoli del cinema francese, tedesco, americano, inglese, italiano ed extra, una specie di ricerca dell’anarchico che sta dietro la macchina da presa.

Il regista ha o deve avere i connotati dell’anarchico? Forse e sì, sono rispettivamente le risposte; che potrebbero anche essere, dipende da chi e magari li avesse.

Dicevamo del non fare sconti: in realtà, pure con qualche tratto di pacatezza che parrebbe tipico dell’età – e anche di un certo autocompiacimento monacale: il distacco, il pauperismo, l’isolamento, tutte cose che dovrebbero aiutare ad avere una maggiore obbiettività – e anche di una certa, legittima stanchezza nel ripetere le cose, Fofi continua ad averne per pochi e per tutti. Non necessariamente un anarchico è una figura positiva, pure se è evidente che il cuore dell’Autore batta per questa forma di opposizione (‘passione’ è una parola che ricorre spesso nei suoi scritti, esplicita o fra le righe), essendo il cinema popolato da anarchici consolatori e non poco compromessi con quelli che ci mettono i soldi per fare i film, dato che, come si dice nella sua amata Sicilia, senza sordi nun si canta missa.

Della prima parte del libro sono rimarchevoli i ricordi delle figure che hanno ispirato la sua vita e la sua crescita personale e politica, come Colin Ward, Elsa Morante, ovviamente Danilo Dolci e Giorgio Capitini, Kracaurer, Virginia Woolf, gli amati Julien Beck e Judith Malina; memorabile è il passaggio in cui rammenta i suoi confronti/scontri con Pasolini, del quale condivideva gran parte delle idee, ma al quale rimproverava l’eccessivo rimpianto per un mondo che si stava perdendo, nel quale i bambini letteralmente morivano di fame ed è mirabile la citazione della propria madre, che amava ripetere come avrebbe sempre detto un’orazione per quello che aveva inventato i cessi in casa – “Pasolini,” scrive Fofi “il cesso in casa l’aveva avuto da sempre).

Gli strali, che non mancano mai, sono per i soliti: Craxi, Berlusconi, ovviamente Renzi e un po’ meno ovviamente – ma non per chi conosce lo spirito di questo ferocissimo maestro – per l’insopportabile buonismo di Roberto Benigni (e chi scrive rivendica il diritto a un applauso per se stesso, avendone detto molto tempo fa, anche in polemica con Filippo). Ma qui, con questi nomi, è un po’ come sparare sulla Croce Rossa – che, detto per inciso, in merito a certi personaggi ‘salvati’ dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, una qualche raffica se la meriterebbe pure: Fofi spara ad alzo zero e a palle incatenate anche sull’industria culturale, che a suo dire oggi darebbe lavoro (non molto pulito) a oltre un milione di persone, nel suo essere diventato quello che è sotto gli occhi di chi vuole vedere, vale a dire un pletorico carrozzone propagandistico al soldo della politica in sella pro tempore.

Tanto, forse un po’ troppo compatimento per i diplomati al DAMS, per i trentenni-quarantenni di adesso, codardi un po’ per vocazione e un po’ per l’essere rimasti senza padri culturali, drogati e guidati per mano dalla televisione e dal mercato; una presa di distanza – postuma, dato che il libro era già uscito – anche per Umberto Eco, in un’intervista a RadioTre in occasione dell’uscita di questo libro, subito dopo la scomparsa dello scrittore-linguista: “Con Eco siamo anche stati amici, almeno a periodi: ma lui è sempre stato convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili” (e su questa chiusa l’applauso va dritto a Fofi il quale, infrangendo l’obbligo di etichetta già stigmatizzato da Pirandello, che sosteneva come i morti fossero ‘i pensionati della memoria’, si mette di traverso, misurando la distanza intercorrente fra un intellettuale evidentemente compiacente – se non traditore, diciamo le cose come stanno e non traditore nel senso che intendeva Julien Benda, tutt’altra cosa – e l’Autore e molti altri a sinistra, che non credono affatto che in questa vita meglio di così non si possa avere e che non ci sia alternativa a qualcosa che è già ‘migliore possibile’ di suo).

Segue, nella seconda parte, una carrellata su una serie di autori (Goffredo Fofi, anche in questo conservando una certa propria peculiarità, non parla MAI degli attori, solo dei registi). E quindi ecco Charlie Chaplin, preponderante figura di anarchico, strettamente legato tuttavia ai padroni del vapore – o, meglio, degli studios – ovvero il pensiero anarchico del rifiuto del lavoro: anche se altri, uno per tutti – perché UNO sono – Stan Laurel e Oliver Hardy), hanno rappresentato, a opinione di molti, anche di chi scrive, la più grande e devastante forza distruttiva della proprietà privata di tutta la storia del cinema; ecco Jean Vigo, protagonista dell’ondata culturale degli anni ’20, Robert Bresson, con il suo ‘no’ estremo, forte, che non scende a compromessi, Bresson che non distrae, non consola, soprattutto esige rispetto da chi lo guarda e lo analizza; ecco Luis Bunuel, l’entomologo, pieno tuttavia di empatia e di comprensione per le debolezze umane, la personificazione del surrealismo come guida alla legge del desiderio e alla ferocia dell’Angelo Sterminatore; ecco Jean Luc Godard, il distante, narciso, irritante, troppo ‘onnivoro’ per essere un anarchico a tutto tondo; ecco Orson Welles, il visionario, regista che ‘fa ombra’, forte anche del suo impatto fisico, un altro che per non essere quasi mai sceso a patti, si è visto rimaneggiare moltissimi film e la sua stessa carriera; ecco Sam Peckinpah, questo sì un bell’anarchico, nichilista, distruttivo dei suoi personaggi (si pensi all’universo surreale de Il Mucchio Selvaggio, fortemente maschile, pieno di pulsioni di morte – nel massacro finale, gli uomini d’onore sanno bene di andare incontro alla fine e ci vanno sorridendo, fieri e tronfi) e anche di se stesso, mentre Robert Altman, nato come anarchico, si arrende al mercato; per arrivare a quel genio del ‘fai da te’, Roger Corman, grande scopritore di talenti, al ghignante John Cassavetes, anarchico nella vita e crudo esploratore dell’animo umano e dei rapporti di coppia – dopo di lui, secondo Fofi, nel cinema USA cambia tutto.

Ecco gli inglesi, gli ‘angry young men’ – verrebbe da chiamarli ‘prigionieri della monarchia’, come li chiamano con disprezzo in Australia, per come si avverte nella loro filmografia la sofferenza del vivere in un posto al quale non sentono di appartenere e che, in realtà, faceva ben poco per farla sentire, l’appartenenza.

Ed ecco il cinema tedesco, con il sopravvalutato Wenders – standing ovation: non c’è altro da dire di uno che resuscita Fritz, ignaro (o arrogante) che un personaggio simile non gli appartiene più, dopo che ha deciso di farlo morire nel meraviglioso finale ne “Lo Stato delle Cose”, ma ecco anche il potente e glaciale Werner Herzog, folle ma molto poco anarchico, eppure vitalissimo narratore di anarchici, irregolari, pazzi, vittime o portatori di superego da campionato del mondo. Ed ecco, soprattutto, l’anarchico più grande, genuino, sincero, commovente, sfrenatamente passionale: Rainer Werner Fassbinder, capace nella sua ars longa e vita brevis di raccontare una profonda interiorità, sempre stando attendo a non scivolare sulle interiora, anche se le vicinanze alla pancia sono state gran parte della sua opera (d’altronde, cos’altro poteva fare uno che sosteneva come il polso di una città lo si tasta al meglio nelle scritte dei cessi pubblici maschili?): il regista del melo mai autocompiaciuto, fine a se stesso, in grado di apprendere la lezione di Brecht, inscenando una capacità quasi bulimica di analizzare il contesto sociale ed economico della società tedesca, passando però non attraverso i rapporti di classe bensì quelli di potere, giocando sui simboli e sugli splendidi personaggi femminili che ha saputo mettere nelle sue scene piene di specchi.

Ed ecco il cinema italiano: passiamo alla recensione successiva…

Cesare Stradaioli

Goffredo Fofi – Il cinema del no – Elèuthera Editore – Pagg. 100, €10