IL LIBRO DEL MESE DI APRILE – Consigliato dagli Amici di Filippo

Solo in apparenza sono facili e impregnate di ottimismo, le pagine che scrive Raffaele Guariniello, noto alle cronache come il Pubblico Ministero della Procura di Torino che maggiormente fra tanti altri si è distinto per avere condotto indagini su inquinamento, tutela della sicurezza sul lavoro e, più in generale, a tutela della legalità e della dignità di ogni cittadino, nel riassumere la propria carriera.

Lasciata la Magistratura per raggiunti limiti di età – un giorno o l’altro bisognerà mettere mano a questa impostazione mentale che, nelle mani del legislatore, per determinate categorie di lavoro diventa uno sbarramento che definite assurdo è un eufemismo – Guariniello parla di sé e del proprio lavoro come non mai, condensando in un libro quanto nessun cronista è riuscito, in decenni, a fargli dire, anche solo in parte, cercando inutilmente di avere da lui un’intervista.

Lo stile schietto e semplice che permea le sue memorie porta con sè, in effetti, una forte dose di ottimismo: va anche detto come l’A. riveli uno stile sorprentemente lineare, che in qualche modo spiazza il lettore, considerati gli argomenti trattati, e cioè in sintesi decenni trascorsi in un lavoro costante, instancabile, teso a dirigere e coordinare l’attività degli inquirenti in fatti non di sangue e di notevole rilievo mediatico, quali mafia e terrorismo, ma episodi e squarci di vita italiana meno visibili e, di conseguenza, meno ‘visti’ e percepiti: dalle schedature FIAT a danno degli operai e dei sindacati, fino alla vicenda finale della sua carriera in Magistratura, il processo ‘Eternit’, passando per le tragedie della (mancata) sicurezza nei luoghi pubblici – l’incendio del cinema Statuto a Torino – e in quelli di lavoro – quali il famosissimo processo ‘ThyssenKrupp”, seguito al massacro di sette operai bruciati vivi in quella che più tardi venne ribattezzata ‘la fabbrica dei tedeschi’.

Il proprio lavoro come qualcosa di costruttivo e non distruttivo; la profonda empatia verso le vittime, gli ‘ultimi’, quelli senza una voce, i sottomessi; il modo di rapportarsi agli imputati, a maggior ragione se poi diventano condannati, distaccato, perfino comprensivo della loro umanità e privo di qualsiasi accanimento personale nei loro confronti (che richiama un famoso e lontano ammonimento di un celebre penalista, Vincenzo Manzini, che parecchi decenni or sono invitava il pubblico accusatore, se proprio doveva provare odio, a indirizzarlo verso il reato, non verso il reo); la convinzione che dopo la punizione debba seguire una riabilitazione, una secie di remissione in pristino delle cose e delle persone colpite dal reato, tutto questo si connota di ottimismo che, pur ignorando le opinioni politiche di Guariniello (sarebbe comunque da escludere una sua identificazione nella destra, per lo meno nella destra straccione a forcaiola di questi anni), verrebbe da qualificarlo gramscianamente come attributo della volontà: accoppiato, fra le righe, a un pessimismo dell’intelligenza che si avverte emergere di tanto in tanto, quando la narrazione dell’instancabile lavoro di un uomo che ha fatto della professione una sorta di missione (sociale, più che personale, ciò che la rende, per così dire, meno ‘messianica’ e più laica), pare farsi cadere le braccia. Non tanto e non solo osservando con una certa amarezza la gravità, l’abiezione del fatto-reato oggetto dell’indagine, quanto piuttosto l’insipienza e la pochezza morale dei colpevoli, oltre al dispregio da loro manifestato per la convivenza civile, siano essi gli ultimi esecutori o i lontani mandanti di un crimine.

C’è una frase che sembra sintetizzare nel modo più efficace questi umanissimi momenti di sconforto di un uomo tanto duro e intransigente (anche quando portò a giudizio dirigenti e calciatori dell sua squadra del cuore, la Juventus – aveva potere e autorevolezza per delegare ad altri l’indagine) quanto mite all’apparenza ed equilibrato nella sostanza. Nel compiere determinati accertamenti sulla sicurezza di un locale pubblico – proprio a seguito all’incendio torinese che provocò 64 vittime – lui e i suoi collaboratori constatarono che, sì, i responsabili del locale avevano gravemente trascurato le norme di sicurezza, le quali però erano talmente tante, sovrapposte e contraddittorie, “Come se la gran massa di norme che affollano il nostro ordinamento fosse una sorta di via libera per non farne rispettare nemmeno una.”

Amara constatazione, che hanno ben presente nella propria coscienza tutti coloro che praticano il diritto, sia come inquisitori, sia come giudici e infine sia come difensori. A conclusione dei suoi ricordi, l’A. (che, lasciata la Magistratura si è immediatamente iscritto all’Ordine degli Avvocati – quando si dice che la giustizia in cui egli afferma di credere fino in fondo, è una specie di demone che prende e non lascia più) pare volerci esortare a cambiare: cambiare le leggi, renderle più chiare, più semplici; cambiare il proprio e l’altrui atteggiamento verso la società di cui tutti facciamo parte. Facile a dirsi, ma qualcuno lo deve pur dire, prima che il sonno della ragione accompagni tutto e tutti verso un definitivo quieto e intorpidito malessere.

Cesare Stradaioli

Raffaele Guariniello – LA GIUSTIZIA NON E’ UN SOGNO – Rizzoli – pagg. 232, €19