QUELLO CHE IL VENTO NON DICE

In uno dei suoi testi giovanili più noti, Robert Zimmermann si chiedeva, fra le altre cose, quante miglia dovesse percorrere un uomo, prima che potesse dire di sé stesso di essere tale. La risposta a tutte le domande che si poneva, come è giusto che sia, prima che al vento, è affidata all’interpretazione del lettore: è, o dovrebbe essere, una delle funzioni dell’arte, uno degli scopi della sia stessa esistenza. Invero, sia detto a titolo personale, quel richiamo al generico amico non pare essere indirizzato a un qualcosa di vivido, di luminoso, quanto piuttosto sembrare una specie di appello rassegnato, disilluso.
Dovremmo noi, forse, domandarci e domandare agli altri: osservando quanto accade in Cile, quanto e come e perché si connoti la protesta fronteggiata dall’esercito, lì come in quasi tutta l’America latina, quante volte dovremo leggere e rileggere, ascoltare e riascoltare, vedere e rivedere e rivedere e ancora rivedere, a cosa porti una politica di sfrenata privatizzazione di quasi ogni tipo di servizi, utenze, gestione delle risorse e della conseguente produzione, amministrazione dell’istruzione, della sanità, del mercato in genere, dalle quotazioni dei titoli alla vendita al banco dei supermercati, quante volte prima di essere convinti che a QUESTO e non ad altro porta l’idea neoliberista, finalmente e felicemente galoppante in una piatta e deserta pianura, non più abitata da vincoli, legami, pastoie, materiali e morali.
Si dice che per la maggior parte delle persone l’ascolto di “Blowin’ in the wind” arrivi, sì fino in fondo, mentre la più attenta comprensione e la memoria del testo si limitino alle prime strofe le quali, per l’appunto, paiono non solo disperate ma addirittura quasi una sorta di presa di distanza, di disimpegno; se non che, il futuro Nobel per la Letteratura, a un certo punto torce la domanda in forma di ammonimento quando, in modo meno aulico e più prosaico e diretto rispetto ai passaggi sulle colombe e sulle bombe, si chiede quante volte serva guardare dall’altra parte, per finalmente fingere di non vedere.
Di nuovo: quante volte ancora dovremo assistere, prima che alle manifestazioni di piazza – che, in quanto tali, rappresentano un effetto necessariamente successivo alle cause che l’hanno prodotto – all’evidenza stessa del disastro umano e materiale cui portano le privatizzazioni. Non c’è se, non c’è ma, non c’è distinguo: ovvero, potrebbero anche esserci; rimane il fatto che, finora, non appare essersi dato un solo esempio di esproprio proprietario che abbia portato a un miglioramento del livello di vita (e, conseguentemente, di partecipazione politica: consumarsi nella ricerca di un lavoro e nelle preoccupazioni insite nella precarietà, difficilmente lascia poi spazio ed energia per agire nel sociale) delle classi sociali, da quella media fino alle meno abbienti. Prova contraria non l’abbiamo ancora avuta, né mai l’avremo. Per contro, SEMPRE le privatizzazioni portano all’arricchimento dei gestori e di coloro che detengono i servizi a esse connessi, con relativo impoverimento delle persone e dei servizi forniti, a meno di non disporre di potere d’acquisto sufficiente per beneficiarne: in maniera magari un po’ più equilibrata nei Paesi europei, più sfrenata, spietata – e, aggiungo, più vera e genuina nel suo essere essenzialmente e inevitabilmente predatoria – altrove. Come, per l’appunto, in Cile, per quello che vediamo, se vogliamo vederlo e non guardare da un’altra parte.
Molte cose sono cambiate, dal golpe del 1973; per certi versi la Storia stessa, a rileggerla, parrebbe appartenere a un intero secolo addietro, invece che a neppure 50 anni fa. Tali sono stati i cambiamenti, che sentire ancora oggi nominare la scuola liberista dei cosiddetti “Chicago Boys” di Milton Friedman induce a riflettere sia sull’immutabilità della natura di un capitalismo che si trovi del tutto libero da obblighi legali e scrupoli morali, sia su quella che in psicanalisi viene definita ‘coazione a ripetere’, che quando da patologia personale, singola, trascende verso una scala di massa è ancora più preoccupante e di difficile lettura, specie in un continente quale quello sudamericano in cui pare non sia mai abbastanza chiaro cosa accada quando il voto (o un colpo di stato: entrambi, in ogni caso, generati da una precisa scelta economica e politica) porti al potere chiunque solo accenni alla sottrazione dei poteri amministrativi e di controllo da parte dello Stato, riducendolo ad arbitro delle contese fra chi cerca e chi offre (più spesso sul libro paga dei secondi).
Facciamo bene a porci le domande: è parte del nostro essere quegli uomini e donne che tante miglia hanno percorso. L’importante sarebbe percorrerle senza guardare da un’altra parte, per quanto sia facile e suggestivo farlo: la libertà è difficile e fa soffrire, queste parole Roberto Roversi metteva in bocca a Lucio Dalla; al punto che viene facile delegarla ad altri, degradandola in questo modo a quella ‘patonza’ che, con la classe e l’eleganza che gli veniva riconosciuta, Gianni Agnelli sosteneva dovesse ‘girare’, come un cabaret di paste (Berlusconi faceva notizia, in ragione dei modi con cui lo diceva e lo prescriveva: il senso rimaneva lo stesso). L’importante, in definitiva, sarebbe che quel tipo di libertà non inducesse a disimpegnarcene come un pesante e fastidioso soprabito, fino a lasciarla andare nel vento.

Cesare Stradaioli