PENSIERI SPARSI IN VISTA DELLE ELEZIONI

Potrei dire a buona ragione che sentendo pronunciare la parola ‘meritocrazia’ metterei mano alla Colt, se ne possedessi una. E’ un termine che sottende un modo di pensare e di orientare la società e i rapporti fra le persone che mi garba poco, più che altro per l’uso strumentale che di frequente ne viene fatto. In due sensi: uno, prodromico, di critica a un metodo – asseritamente mutuato dal ’68 – che azzerava l’impegno e i miglioramenti, in nome di un non meglio (e mai più qualificato e specificato) egualitarismo; il secondo, logica conseguenza, che si traduce, più o meno nel: beh, avete fatto la bella vita finora, da adesso in poi scordatevelo l’egualitarismo, ed emergano i migliori in nome di un darwinismo sociale che non ha eguali dai tempi in cui Charles Dickens descriveva le terribili relazioni sociali del suo tempo. Che la scuola debba favorire le ‘eccellenze’, è concetto che dovrebbe far venire i brividi, oltre che calpestare la Costituzione.

Detto ciò, è indubbio che quando ci si prende carico di qualcosa o di qualcuno, a maggior ragione se niente e nessuno obbliga a farlo e, anzi, viene motivata la scelta con ragioni personali, affettive, di pensiero e di orientamento politico che non può prescindere dalla partecipazione attiva, ebbene in questo caso è diritto e dovere di chiunque ne sia interessato, direttamente o indirettamente, chiederne conto.

Ora, la narrazione – storytelling, termine che piace tanto ad Alessandro Baricco e ai suoi seguaci: narrazione o narrato devono suonare plebei alle loro raffinatissime orecchie – in voga e in uso al PD renziano (disarcionato dalla guida dell’esecutivo, Matteo Renzi è e rimane la guida del partito, non va dimenticato) è che tutto va bene. Per mezzo di una interpretazione alla vaccinara del pensiero hegeliano, tutto quello che è razionale è PD, tutto quello che è PD è razionale – lo rimproverava Antonino Scalone al PCI, qualcosa come quaranta anni fa, le cose possono solo andare peggio, dicono – le cose procedono per il meglio, chi esce ha torto, chi non capisce ha torto, chi non ci sta ha torto. Facile richiamare Bertolt Brecht e la sua celebre frase intorno all’opportunità di cambiare l’elettorato, non essendo possibile cambiare gli eletti, ma sta di fatto che, facendo davvero i conti della serva, ecco cosa emerge da quando il PD ha conseguito la carica di Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, ricoperta ininterrottamente da Deborah Serracchiani: perso il Comune di Trieste; perso quello di Pordenone; perso quello di Gorizia; verrà perso quello di Udine, dato che il sindaco Honsell non potrà correre per una terza candidatura e non si vedono alternative. Tralasciando, non me ne vorranno, le innumerevoli realtà delle provincie, nelle quali il centro destra o le liste civiche in quel senso orientate la stanno facendo letteralmente da padrone, bisogna dire che 4 capoluoghi su 4 rappresenta un dato che dovrebbe portare a qualche riflessione. Gli elettori dei quattro capoluoghi che erano retti dal centrosinistra, hanno votato a destra. 

Che Deborah Serracchiani non possa – non dovrebbe neanche pensare di averla – avere la faccia di ricandidarsi, è solo la prima considerazione, diciamo una specie di minimo sindacale. C’è gente, nel pubblico e nel privato, che è stata cacciata per molto meno di risultati così sconfortanti. Torni, quindi, Serracchiani da dove è venuta, e dove permanentemente sta: è sempre a Roma a fare il vicesegretario del PD, invece di stare in Friuli Venezia Giulia a fare il Presidente di Regione, carica per la quale si è liberamente candidata, è stata votata, e per la quale percepisce uno stipendio mica da ridere (che, soprattutto e per l’appunto, le viene erogato per fare il Presidente a Trieste, non per fare il vice di Renzi a Roma).

Ma Serracchiani è come l’acqua dell’uccellino: passerà, come la plin plin e nessuno in Friuli si ricorderà di lei – e c’è da augurarglielo: i friulani (più dei triestini, che sono maggiormente fatalisti) tendono ad avere la memoria lunga. Il problema è, tanto per cambiare, del PD e della sua scellerata linea politica.

L’occasione era storica. Una regione tradizionalmente a destra come il FVG a causa di un passato di guerra e la divisione del mondo in blocchi – anche se quello sovietico non cominciava a Nova Gorica, ma dovevate provare a dirlo ai friulani – portavano come logiche conseguenze gli irrigidimenti e le esasperazioni politiche ai rispettivi confini. La divisione di Gorizia in due parti era solo una riproposizione in più piccolo di quella di Berlino, ma non meno significativa, per gli abitanti delle zone circostanti, anche senza muri. Nelle civilissima Trieste, formidabile crogiolo culturale, la piazza dedicata al 25 aprile si trova in aperta periferia, mentre in città vi sono strade e scale intitolate a fascisti interventisti in Spagna e giornalisti dichiaratamente di estrema destra: per non parlare della stucchevole diatriba intorno al significato storico e umano della Risiera di San Sabba (decine di milioni di studenti sanno, almeno per sentito dire, cosa rappresentino Auschwitz, Buchenwald, Treblinka: sarei curioso di contare quante centinaia sappiano che la Risiera è stato l’unico campo di sterminio non situato in Germania e in Polonia) e le foibe. Ebbene, il centrosinistra aveva conquistato tutti i capoluoghi, soprattutto Trieste e la Regione. C’era di che festeggiare e, soprattutto, di cominciare a lavorare sul serio, perché è notoriamente difficile combattere, è difficilissimo vincere, ma quando si è vinto è proprio in quel momento che cominciano i veri problemi. La storia trabocca di esempi di come e perché la sinistra arriva al potere e invariabilmente o quasi, fallisce. C’era da lavorare per il porto di Trieste, zona strategica al massimo livello; occuparsi dei trasporti su gomma e su rotaia; del turismo (il FVG ha mare, collina e montagne, ha una tradizione gastronomica da urlo) e degli scambi con la ex Jugoslavia. Niente di tutto questo e, se è per questo, niente di altro. Ottenuto in qualche modo questo successo elettorale, è stato rapidamente dilapidato. Non tanto a causa delle problematiche intestine all’interno del PD, fisiologiche considerata la sua composizione interna (si era detto anche questo, qualche decennio fa: state attenti agli agglomerati partitici, fare un minestrone e più difficile di quanto si creda), quanto per la rumorosissima assenza del partito dalla Regione.

Serracchiani va avanti e indietro, per sua stessa ammissione: attenzione, non da Trieste per fare qualche puntata a Roma, bensì il contrario e questo pare che le costi la fatica del lavorare in treno. Se ne fosse rimasta in FVG a fare il Presidente, avrebbe senz’altro faticato di meno e lavorato di più e meglio. Esistono anche le videoconferenze, se proprio bisogna metterci la faccia per salvare l’unità del PD. Ettore Rosato, candidato perdente a sindaco di Trieste, prima della vittoria di Rosolini, ha pure preferito l’agiatezza de li colli e il bel clima mite che si vive a Roma, piuttosto che la sferzante bora che arriva dalla Slovenia. Anche lui indaffarato a gestire il PD e a lanciare strali contro chi osa criticare Renzi. A Roma.

Risultato, a proposito di meritocrazia: assenza totale. Mancanza di presenza, di intervento, di azione, di fatti concreti (come, ad esempio, far sentire la propria voce sull’indecente trattamento riservato al FVG da Trenitalia, uno sconcio, e bene lo sa chi prende il treno con una certa frequenza). Infine: gli elettori friulano-giuliani che erano stati indotti a votare PD, anche a causa di precedenti comportamenti di vari assessori regionali e di tutta la giunta comunale triestina, al limite e oltre la schifezza e l’improntitudine, hanno cambiato idea e hanno rivoltato a destra. Tanto per dire una cosa detta e ridetta: scegliete l’originale; anche in politica, diffidate delle imitazioni. Specie se non si fanno né vedere né sentire.

Cesare Stradaioli