NON SPARATE SUL MINISTRO (che è Natale)

Non v’è dubbio alcuno che la frase pronunciata dal ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali sia stata semplicemente inqualificabile. Prima di tutto, è ovvio, per il contenuto che riporta un evidente disprezzo nei confronti di una determinata categoria di concittadini – il disprezzo è vergognoso a prescindere, verso qualsiasi categoria di cittadini onesti – e poi per il fatto che a esprimersi non è stato l’avventore di un bar Sport e neanche un amico appartenente a un’allegra congrega di persone oneste e dabbene, che in privato hanno il sacrosanto diritto di dire quello che pensano, anche il peggio, bensì un rappresentante delle istituzioni.

Vanno dette due cose. Per cominciare, è senza dubbio vero che da decenni si è incistata nella nostra società la pratica di ficcare il microfono dappertutto, spacciando detta pratica per partecipazione democratica, perché i cittadini hanno il diritto di sapere, le istituzioni devono essere case di vetro e scempiaggini del genere. Certo che i cittadini hanno il diritto di sapere: a titolo di esempio, e penso all’Australia, avrebbero diritto che le sedute in Parlamento fossero date – gratis – in diretta televisiva (si accettano scommesse che le assenze parlamentari precipiterebbero subito vicino allo zero), per sapere in prima persona e non tramite veline cosa dicono e fanno gli eletti; avrebbero diritto che le questioni più squisitamente tecniche – scelte di politica economica, di giustizia, di riforme istituzionali – fossero spiegate e illustrate in maniera comprensibile da tecnici, vicini all’organo statale che le prende e non dalle reti televisive e giornalistiche, spesso cialtrone, illetterate e volutamente terroristiche; avrebbero diritto di sapere – nell’ambito della libertà di coscienza del singolo parlamentare – il perché di determinate (anzi, di tutte) le opzioni e le decisioni di voto. Sapere che in questo o quel consesso, che in questo o quell’ufficio, che in questa o quella stanza, in privato qualcuno impreca, bestemmia e dice peste e corna di taluno e talaltro, significa solo conoscere le interiora di qualcuno, come scriveva Cesare Garboli, non l’interiorità del suo pensiero.

In secondo luogo, bisogna dare atto del fatto che il ministro Poletti non solo si è scusato – di questi magri tempi è già qualcosa – ma in più NON ha detto di essere stato frainteso, ma di avere detto una frase infelice e di essersi espresso male; due passi avanti e mezzo indietro, ma nel suo piccolo va anche bene così. Si deve aggiungere infine che, dato che la sfortuna odia gli incompetenti e gli arroganti, il governo Renzi e quello che ne è rimasto è stata una compagine particolarmente beccata dalla sfiga: ultimo (ma il sole è ancora alto, diceva il grande John Wayne) a esserne vittima, Poletti non aveva neanche finito di pronunciare quella frase che una di costoro – quelli che se ne sono andati all’estero togliendo il disturbo – rimaneva vittima a Berlino di un attentato, sembra materialmente eseguito da un tizio che, a differenza di molti suoi compagni di sventura e pur gravato da una condanna con detenzione, evidentemente poteva muoversi con sorprendente abilità all’interno dell’Europa dei muri e de ‘gli emigranti sono un problema dello Stato dove sbarcano‘ che tanto piace agli europeisti da tre palle a un soldo che affollano anche i vari governi italiani.

Tutto questo per dire un parere personale e cioè del contenuto in sé di una frase quale quella del ministro Poletti mi importa poco più che pochissimo. Naturalmente i destinatari di questo bel pensiero hanno tutte le ragioni per sentirsene offesi e di fare le rimostranze che credono. Il fatto è che, anche se tutti noi cittadini ci sentiamo disturbati da simili episodi, è pur vero che appunto i veri offesi sono una ristretta cerchia di donne e uomini che hanno fatto determinate scelte: ma c’è qualcosa d’altro e al di là di quella frase, che credo dovrebbe non solo disturbare ma anche offendere l’intera cittadinanza italiana ed è l’incompetenza, l’incapacità, l’inanità dell’uomo Poletti e di tantissimi che come lui ricoprono cariche istituzionali. E’ ben vero che una volta non c’era la libertà di infilare dappertutto microfoni e telefonini, ma sono certo che quelli della mia età siano dell’opinione che certi dirigenti democristiani e comunisti mai si sarebbero sognati, neppure seduti sulla tazza del cesso, di dire a voce alta certe cose, pur pensandole con tutto il cuore. E non per timore di essere sentiti, ma proprio per un costume personale, derivante dalla formazione politica delle scuole di partito che da un paio di decenni viene svilita e sbertucciata, a favore del fare largo all’uomo della strada, all’uomo qualunque a dirigere le istituzioni – con i disastri che sono sotto gli occhi di tutti.

Non avendo competenze in proposito, non posso azzardarmi a fare diagnosi specialistiche: mi fermo all’abusatissimo buon senso. Poletti, come Renzi (i ‘gufi‘; l’ignoranza porta spesso a dire stupidate: i gufi ci vedono benissimo, lontano e al buio), come Boschi (i ‘professoroni‘), come tanti altri dilettanti allo sbaraglio che stanno finendo di mandare in rovina questo Paese, al di là della personale educazione familiare e scolastica ricevuta da ciascuno, si esprimono – volontariamente o come voce dal sen fuggita – per frustrazione: perché non sanno cosa fare e come; per autodifesa: perché, posti di fronte a problemi infinitamente più grandi delle loro capacità e della loro cultura, reagiscono in maniera umanamente comprensibile ma politicamente non accettabile, contrattaccando e offendendo; per stanchezza: le famose lacrime del ministro Fornero (ma penso anche a quelle di Deborah Serracchiani o di Federica Mogherini e il sesso non c’entra nulla: se mai le donne hanno il coraggio di piangere in pubblico; un uomo al posto loro magari avrebbe passato la serata a sputtanarsi diecimila euro alle slot per abbattere la tensione emotiva), a mio personale parere e contrariamente a tanti che le considerarono una finzione, erano genuine e del tutto conseguenti al disorientamento e smarrimento di una persona abituata a dare direttive, a vivere venti piani sopra il marciapiede o in lussuose lounges d’attesa per il prossimo volo in business class, a non sporcarsi le mani, a parlare per essere ascoltata e non ad ascoltare gli altri, e per niente avvezza a sentirsi fare continuamente richieste – cellulare acceso 24/7 se sei un Ministro – le quali TUTTE esigono una risposta, possibilmente per un quarto d’ora prima. In definitiva: Poletti e quelli come lui dicono e fanno ciò che dicono e fanno di disdicevole semplicemente perché sono incapaci di fare fronte al compito davanti al quale sono stati posti. Perché, oltre a essere carenti di competenze specifiche, non hanno adeguata preparazione culturale e politica per ascoltare, capire, discutere, confrontarsi, affrontare dispute verbali anche aspre e forti – in una parola: mediare –  e in non pochi di loro queste carenze sono dovute alla giovane età e conseguente breve esperienza di vita e di relazione con gli altri, specie con quelli che hanno opinioni diverse od opposte o hanno problematiche – fondate o meno, giuste o meno – pressanti e gravissime.

Queste carenze, di poco conto nelle loro esistenze precedenti agli incarichi ricevuti e talvolta pretesi, sono esiziali per loro ma soprattutto per il consorzio civile che rappresentano, dal livello comunale a quello apicale istituzionale, passando per amministrazioni private o pubbliche, le quali tutte hanno in comune il referente che è il bene comune della cittadinanza. La quale cittadinanza, che ha pur sempre il dovere di partecipare, pretende: esige, vuole, ha bisogno, ha delle richieste, delle istanze. Soprattutto vuole – e ne ha il diritto – risposte. Tanto per dare una via d’uscita a quel vero e proprio corto circuito sociale che Filippo Ottone descriveva con una delle sue proverbiali, fulminanti battute quando diceva (appunto con una battuta e perciò, conoscendo l’uomo, serissimamente) che ci sono troppi WHY e pochi BECAUSE.

Coloro che non sono in grado di dare delle risposte ma si limitano a partecipare a convegni o consessi istituzionali e, quando va bene, ben bardati dietro il badge che dà loro accesso a luoghi che non sono alla loro altezza, tutt’al più pongono problematiche, magari suggerite dal proprio ufficio stampa, si facciano da parte. Nella vita ci sono tante occupazioni, ben più ‘onorevoli’ del fare i deputati come molti di loro fanno: incluso quella, direttamente riguardante Giuliano Poletti, già presidente della Lega Coop, di NON fare il ministro del Lavoro, evitando in tal modo non solo le battute vergognose ma anche e soprattutto un palese conflitto di interessi perché, con tutto il dovuto rispetto, lo vada a raccontare a mia nonna – anzi, a entrambe; che tanto nessuna di queste due sagge signore gli crederebbe – che nell’esercizio del suo ministero non è mai stato neppure sfiorato da sgradevoli situazioni che non sono di esclusiva pertinenza di quell’ex presidente del Consiglio, appassionato dell’altra squadra di Milano.

Poi, è vero che si fa presto a denunciare, fare notare, alzare il ditino e chi scrive lo fa spesso: ma alla fine di tutta una sommatoria di considerazioni quali quelle sopra scritte, rimane un senso di tristezza e di avvilimento per come la politica e il bene comune siano diventati banconote da Monopoli o carriarmatini da Risiko; chiunque abbia praticato, anche in età matura, questi giochi di società sa benissimo che loro principali tratti siano la contumelia e il doppiogiochismo, l’imprecazione e il tradimento. Tutti generati dalla frustrazione e dall’incapacità di accettare le proprie carenze e i propri, inevitabili, insuccessi.

Cesare Stradaioli