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IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE 2016 – Consigliato dagli Amici di Filippo

Si confrontano in un dialogo serrato e senza tanti birignao i due più importanti magistrati del cosiddetto ‘pool Mani Pulite‘. All’epoca, il braccio giustizialista della Procura di Milano era rappresentato da due figure ugualmente efficaci dal punto di vista mediatico, pur se diametralmente opposte sotto pressoché tutti gli altri punti di vista: il vulcanico e travolgente pubblico ministero Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli, l’algido Procuratore Capo. Il primo non disdegnava farsi fotografare nella classica canotta neorealista mentre guidava il trattore nelle sue terre in Molise, il secondo preferiva essere conosciuto anche come pianista di un certo livello. Ma le vere menti pensanti, quelli che amavano stare in seconda fila, a farsi sentire poco – tutto il contrario dei primi due – erano proprio Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, pure loro agli opposti reciproci, per il modo di intendere la vita, la giustizia, i rapporti umani e la loro stessa professione. Loro due costruirono e diressero la complessa attività di quella stagione che, bene o male, fece luce su un intero sistema politica, e lo fecero quasi nella penombra, volutamente oscurati da Di Pietro e, nello stesso tempo, lavorando sotto l’ala protettiva di Borrelli: a loro modo, entrambi costoro fungendo da parafulmine per stampa e politica.

Al di là del come in questo saggio le questioni vengono poste, ben identificabili nei rispettivi modi da chi conosce i due interlocutori, il principale pregio dell’opera sta nel rendere chiare e comprensibili – poi ognuno si forma, consolida o modifica la propria idea – le tematiche trattate, anche perché queste due figure pubbliche (Colombo non è più magistrato dal 2007, essendosi dimesso da Giudice di Cassazione, mentre Davigo di una sezione della Suprema Corte è presidente) espongono in maniera diretta, talvolta anche troppo (Davigo) e forse qui e là in maniera eccessivamente sbrigativa (Colombo) i propri punti di vista che già li differenziavano all’epoca della più famosa inchiesta giudiziaria sulla corruzione. La vulgata voleva Colombo di sinistra per le sue idee cosiddette garantiste, come pure Borrelli, là dove i metodi diciamo così da questurino di Di Pietro e l’inflessibilità di Davigo li vedeva collocati a destra, ma è storia vecchia che di tanto in tanto si ripresenta nelle cronache giornalistiche, utilissime a essere strumentalizzate da questo o quel rappresentante politico.

Il disaccordo, definito perenne nel sottotitolo, che separa i due interlocutori, al di là di interessanti disquisizioni e divagazioni che spostano l’attenzione dalla pratica quotidiana della legge a citazioni di Sant’Agostino, Foucault, Adam Smith o Aristotele, oltre i comuni punti di vista sulla corruzione e l’inefficienza della macchina giudiziaria, verte principalmente sulla pena, cioè sul carcere: l’inflizione della pena, quale pena, quanta pena, in che modo, dove e con quali prospettive e SE le prospettive debbano esserci per tutti ovvero se per una – per quanto ristretta – cerchia di condannati, di prospettiva non si deve neppure parlare, diversamente la serietà della risposta punitiva rimarrà debole e sbiadita, finendo così col non riuscire in alcun modo a cambiare l’animo del cittadino medio italiano che, opinione comune fra i due (pur se Colombo accusa Davigo di schematismo e furore punitivo, mentre costui ribatte sostenendo come il primo tenda a perpetuare il mito del buon selvaggio rousseauiano, che nasce buono e socievole), manifesta imperterrita negli anni la perniciosa tendenza alla corruzione, chiesta, favorita, ostentata e praticata a tutti i livelli della società.

Se un’osservazione va fatta ai due Autori – parlare di critica sembra eccessivo e si legga questo tenendo conto del fatto che chi scrive si sente, per cultura e inclinazione politica più vicino (o, se si preferisce, meno lontano) a Colombo piuttosto che a Davigo – è la mancanza di un riferimento, sia pure minimo, al fatto che entrambi (Colombo sempre Pubblico Ministero, Davigo quasi sempre, all’inizio per un breve periodo della sua carriera fu Giudice – si tenga conto che, nominati poi entrambi Giudici di Cassazione, si occuparono della legittimità dei giudizi avverso i quali veniva mosso ricorso, poiché la Cassazione non entra nel merito delle decisioni impugnate) in quanto comunque magistrati, all’interno delle complesse dinamiche sociali di un consorzio civile, intervenivano, diciamo così, a valle, cioè quando il reato si presume commesso o è stato commesso davvero, cosa che deve decidere la Magistratura giudicante.

In qualche modo essi sono spazzini – e non c’è nulla di offensivo a sentirsi chiamare così, essendo per tutti noi fondamentale questa attività lavorativa, si tratti di rimuovere l’immondizia o di istruire un procedimento per punire un crimine – cioè personale che interviene ‘dopo': dopo che la cartaccia è stata gettata, dopo che la mazzetta è giunta a destinazione. Manca, nella loro analisi sulla Giustizia, un riferimento alla prevenzione, se non un breve e controverso dialogo sulla formazione scolastica, come avviene, qui in Italia e all’estero, ma si tratta comunque di una manchevolezza di carattere minore.

Cesare Stradaioli

Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo – LA TUA GIUSTIZIA NON E’ LA MIA – Longanesi – pagg. 168 €12,90

Un commento su “IL LIBRO DEL MESE DI DICEMBRE 2016 – Consigliato dagli Amici di Filippo

  1. NO alla “Buona scuola”!
    NO alla controriforma della Costituzione!
    [Convegno/Assemblea – Ist. “G. De Felice” di Catania – 30/11/2016]

    Introduzione

    La prossimità tra il mancato referendum abrogativo di alcune disposizioni della legge 107/2015 e l’imminente consultazione sul progetto di revisione costituzionale non è solo temporale.
    La congiuntura impone il compito di resistere ad un disegno organico, sempre più scoperto, di compressione e svuotamento degli spazi di dialettica nella scuola come nella società: spazi che divengono sempre più preziosi ed irrinunciabili nella misura medesima del proprio restringersi.
    Gli stessi percorsi che hanno condotto alle “riforme” (termine, ancora una volta, usurpato e pervertito) propongono inquietanti analogie e palesano la deriva verso quella che è stata acutamente stigmatizzata quale “democrazia autoritaria e populistica”.
    La legge detta della “Buona scuola”, presentata al Paese attraverso un improbabile sondaggio on line ed un non meno demagogico video che esibiva il Presidente del Consiglio nelle rassicuranti vesti del “buon maestro”, è stata varata eludendo, ignorando, di fatto sprezzando la massiccia mobilitazione che, pochi mesi prima, aveva condotto oltre il 70% delle Lavoratrici e dei Lavoratori della Scuola ad aderire allo sciopero (5 maggio 2015) proclamato da un trasversale, larghissimo schieramento di organizzazioni: il plebiscitarismo più corrivo contro la sovranità che (proclama la Carta fondante) “appartiene al popolo”!
    C’è da temere che le Camere possano somigliare a quello che, in troppi casi, sono diventati i Collegi dei Docenti: confronto sacrificato alle ragioni dell’urgenza; discussione all’atto, conclusivo e formale (solo in quanto ancora indispensabile), della delibera; “comunità educante” angustamente ridotta alle “figure-di-sistema” (o, nell’inglese denotativo, impoverito e manageriale tanto in voga, staff).
    Le disposizioni che regolano la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” costituiscono uno degli aspetti più dolorosi ed esiziali della legge 107/2015, confermandola come punto d’arrivo di un progetto concepito quasi venti anni addietro e progressivamente posto in essere da governi, almeno sulla carta, di diversa matrice e composizione. Nel tempo in cui, de facto quando non “legalmente”, il lavoro viene negato quale diritto s’impone ad Allieve ed Allievi un carico onerosissimo (200 o 400 ore, a seconda degli indirizzi, da ripartirsi nel triennio conclusivo) di tirocinio/apprendistato che, in molti contesti, ha già assunto connotazioni tragicomiche, dequalificanti, avvilenti. Si sottraggono energie preziose alla formazione del pensiero critico e della coscienza civile a tutto vantaggio di un’antropologia appiattita sul fare (parola d’ordine; “competenze”, non “conoscenze”!) -della quale è cifra raggelante l’ormai compiuta affermazione del lessico aziendalistico nel mondo dell’istruzione.
    Con il…disvalore aggiunto dell’insidiosissima e pervasiva ideologia dell’addomesticamento, come sempre tesa ad inibire la pensabilità stessa di un’alternativa all’esistente.

    (Maurizio Venasco, docente del L. Cl. St. “M. Cutelli” di Catania/comp. R.S.U.)

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