ALTRI ANNIVERSARI

Abbiamo sempre sostenuto come le ricorrenze possano talvolta andare al di là della semplice simbologia di una data, un fatto, un ricordo. In questo senso, va preso atto del fatto che il prossimo Presidente del Consiglio – e prima donna a ricoprire un tale ruolo nel nostro Paese – incarico ottenuto sulla scorta della maggioranza relativa ottenuta dal partito che guida da anni, si dichiari apertamente non antifascista. Fatto, se possibile, ancora più grave (i Presidenti del Consiglio tradizionalmente in Italia passano, mentre quelli delle due Camere restano, a meno di scioglimenti anticipati della legislatura), la seconda carica dello Stato porta il nome di un signore che, mentre Gianfranco Fini da leader di AN cercava di condurre a compimento la geniale intuizione di Silvio Berlusconi (o di chi per lui) di sdoganare una impresentabile destra fascista e lo faceva fino al punto da coprirsi il capo con una kippah a Gerusalemme – cosa non fa la gente per i diamanti, cantava Tom Waits – ancora si proclamava aperto ammiratore di Mussolini il quale, notoriamente, “aveva anche fatto cose buone”.
Che tutto ciò cada nella ricorrenza del centenario della marcia su Roma, che come ormai tutti sanno, non avvenne – ennesimo esempio di quell’orrenda macedonia di mistificazione e ciarlatanaggine che è stata una delle componenti del regime fascista, frutto degenerato di un tessuto sociale povero di mezzi e cultura e ricco di giullari e cortigiani – è assolutamente indicativo e, per certi versi, tutt’altro che sorprendente, rappresentando in maniera quasi teatrale, al culmine e conclusione di una narrazione, la chiusura storica di un cerchio.
La figura e il percorso politico di Ignazio La Russa non possono essere assimilati a quello che poteva essere il passato di figure quali Dario Fo, Eugenio Scalfari e altri; costoro, in età appena post-adolescenziale si erano invaghiti di qualcosa da cui presero in breve le distanze, mentre il Presidente del Senato a metà strada fra il serio e lo scherzoso ghignante (tratto tipico di un certo fascismo genuino e ruspante) non ci pensa nemmeno a manifestare una qualche forma, sia pure appena abbozzata, di riconsiderazione su se stesso e sul passato dell’idea a cui ha ispirato tutto il suo percorso politico. Allo stesso modo della ricorrenza – mancano pochi giorni – la carica che riveste non ha solamente un valore simbolico: o sarà anche e solo un simbolo, ma con sè, dietro di sè porta un consenso elettorale di tutto rispetto e un comune sentire piuttosto diffuso, una specie di malattia endemica dalla quale il popolo italiano non riesce (forse neppure lo vuole, non sentendone evidentemente la necessità) a liberarsi; una tara, un bisogno, una coazione a ripetere, una dipendenza – ognuno (analista politico, psicologo, psichiatra, studioso delle masse) ci metta l’etichetta che crede: il vino è quello – che porta a non recidere i legami con quello che, oltre al resto, ma prima di tutto è stato un esperimento politico eminentemente italiano, successivamente copiato (con esiti alterni) in diverse altre esperienze politiche altrove nel mondo.
Un minimo di raziocinio dovrebbe portare a tenere in secondaria considerazione le singole espurgazioni di simboli e comportamenti fascisti, essendo tutte niente altro che il portato di quello che acutamente Umberto Eco chiamò ‘fascismo eterno’, insito nella società in cui viviamo. Fra poco saranno ottanta, gli anni: sono tanti e sono pochi ed è solo una questione di punti di vista; ciò che pare essere fuori da ogni discussione è che fin da prima che i coetanei di chi scrive andassero alle elementari, il fascismo veniva trattato come un qualcosa di incidentale, ma allo stesso tempo profondamente radicato e questa era una delle contraddizioni che ne hanno però rappresentato la forza anche dopo la morte anagrafica; un qualcosa di più o meno scherzoso, un po’ triste e molto sfortunato (Mussolini era “mal consigliato”, altro formidabile mantra del negazionismo nostrano), che però aveva portato la luce nei campi, creato la previdenza sociale, fatto in modo che i treni arrivassero in orario e corbellerie del genere – non pochi fra coloro che insistono su queste leggende irridono i cosiddetti terrapiattisti…
Fascismo come malattia incistata nel corpo ritenuto – erroneamente – sano dell’Italia; come eredità che pare non finire mai e sarà così anche quando l’ultimo fascista della prima ora e l’ultimo aderente alla RSI sarà passato a miglior vita; come nostalgia che porta persone che vivono con noi rimpiangere qualcosa che per forza di cose non hanno vissuto ma di cui hanno sistematicamente sentito parlare se non bene, almeno benino e che rispetto ai cui principi ispiratori, cause storiche, mandanti e strutture politiche, nella stragrande maggioranza dei casi, sono quasi del tutto ignoranti; una benevolenza mista a comprensione, mista ad anticomunismo viscerale; un culto del principio Legge & Ordine, che porta periodicamente a delegare vita e destino a un singolo, subito acriticamente osannato, poi altrettanto prontamente rottamato non appena la convenienza cambia indirizzo.
Le analisi servono sempre e non cominciano mai troppo presto. Il problema è che richiedono due cose fondamentali, a parte le altre: fatica e onestà intellettuale. Nell’anno che per la Storia sarà sempre il ricordo di una marcia che non c’è stata e di un re vigliacco e traditore, abbiamo il dovere di prendere atto della presenza come seconda carica dello Stato di un fascista e che il suo partito di riferimento ha vinto le elezioni sia grazie ai milioni che l’hanno votato (attenzione che Piazza Venezia si può svuotare in fretta e molta gente confluisce poi a Piazzale Loreto), sia anche da quel 46% di nostri connazionali che hanno disertato le urne. Ma dobbiamo anche avere coscienza che quel signore è un effetto e non una causa: la quale, come spesso accade, va ricercata nelle piccole cose, nei dettagli, nella somma che (mai come in questo caso aveva ragione il principe de Curtis) fa il totale.
Sergio Rizzo e Alessandro Campi si dolgono dell’ombra lunga del fascismo: con accurate e precise ricerche ne danno conto intitolando così il loro ultimo interessante lavoro, manifestando allo stesso tempo preoccupazione e sconcerto per il fenomeno di cui trattano. Ma se persino loro, sul cui profilo morale non è lecito sollevare dubbi di sorta, come tanti altri insistono a fare riferimento a Benito Mussolini chiamandolo ‘duce’, che era un titolo onorifico, direi che sarebbe ora di cominciare davvero dall’inizio, dalle cose basilari della nostra vita spicciola.
Un vero antifascismo si pratica anche così.

Cesare Stradaioli

 

sempre gli stessi

rizzo e campi duce